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QUANDO A DECIDERE SI E’ IN TROPPI …
Esaminando il seguente caso clinico si evince che il nostro assistito, Pietro, affetto da
distrofia muscolare e ormai tenuto in vita unicamente da un respiratore artificiale, ha
deciso di porre fine alle proprie sofferenze e riflette sulla sua qualità di vita che ad oggi
non ritiene più dignitosa, in un corpo che non sente più come proprio. Muovendo i miei
primi passi immaginando di essere un infermiere a stretta collaborazione con il medico mi
trovo subito ad affrontare il primo problema, che ha come oggetto le fonti di riferimento che
mi potrebbero aiutare nell’analizzare ed esaminare il caso. Vorrei soffermarmi sui codici
deontologici, sia infermieristico che medico, nei quali ho riscontrato , con più o meno
evidenza, le stesse problematiche. Esistono, all’ interno di queste due normative di
comportamento, alcuni articoli che secondo il mio pensiero sono fortemente in contrasto:
per quanto riguarda il codice degli infermieri ho preso in esame l’articolo 36 e l’articolo 38,
la stessa difficoltà di interpretazione sorge negli articoli 16 (accanimento diagnostico e
terapeutico) e 17 (eutanasia) del codice di deontologia medica. In un epoca in cui le
continue conquiste e novità scientifiche nel campo della medicina consentono di
prolungare artificialmente la vita, il problema nasce nel momento in cui esiste una
mancanza di una disciplina in materia, che definisca quando l’insistere con trattamenti di
sostegno vitale sia prassi ingiustificata o sproporzionata, rimane quindi completamente
nelle mani dei medici e degli infermieri la decisione di come e quando effettuare
artificialmente tale prolungamento. In questo senso volevo soffermarmi sul rapporto
medico-paziente che nel corso del tempo è mutato profondamente. Una volta le decisioni
sulle terapie da intraprendere erano prese del medico che, come un genitore fa con il
figlio, sceglieva “in scienza e coscienza” ciò che riteneva bene per il paziente
(paternalismo medico). Oggi invece il rapporto medico-paziente è molto cambiato. Il
paziente è sempre più coinvolto in tutti gli aspetti che riguardano la sua malattia e le
possibili cure, in quanto unico ad avere il diritto di decidere in autonomia della qualità della
sua vita. Il diritto di autoregolamentarsi significa anche avere il diritto di rifiutare le cure
cosiddette “salva vita”. Questa garanzia suprema del diritto di ogni cittadino a realizzare la
propria volontà sulla sua personale esistenza coincide con il diritto all’autodeterminazione
Detto questo posso
o all’autonomia individuale. dichiarare che secondo i principi
costituzionali di tutela della persona ( 2, 13 e 32), il principio di autodeterminazione, il
principio di beneficità e il principio di non maleficità (che comunque non ha validità
assoluta ed è del tutto compatibile con giudizi di qualità della vita, quindi non
necessariamente connesso con la difesa e l’intangibilità della vita) si possa ritenere
sussistente il diritto di Pietro di richiedere l’interruzione della respirazione assistita e
distacco dal respiratore, ma si tratta di un diritto non concretamente tutelato
dall’ordinamento giuridico. Non si può parlare di tutela infatti, se poi quanto richiesto da
Pietro deve essere sempre rimesso alla totale discrezionalità di qualsiasi medico o
infermiere che agirà secondo sua coscienza individuale, attraverso le sue interpretazioni
soggettive dei fatti e delle situazioni, alle sue concezioni etiche, religiose e professionali.
Quindi pur avendo sostanzialmente spostato il potere decisionale dal medico al paziente,
attraverso l’istituto del consenso informato e mutando profondamente il modo di intendere
questo rapporto, sul piano pratico, per un’evidente lacuna giuridica non è sancito alcun
diritto del paziente ad esigere e a pretendere che sia cessata una determinata attività
medica di mantenimento in vita. In altri termini, solo la determinazione politica e legislativa,
facendosi carico di interpretare l’ accresciuta sensibilità sociale e culturale verso le
problematiche relative alla cura dei malati terminali, di dare risposte alla solitudine e alla
disperazione degli infermi di fronte alle richieste disattese e ai disagi degli operatori
sanitari, può colmare il vuoto di disciplina, anche sulla base di solidi e condivisi
presupposti scientifici che consentano di prevenire abusi e discriminazioni. Questo,
purtroppo, è quello che la realtà ci offre quotidianamente quando ci troviamo di fronte a un
caso come quello del nostro amico Pietro, una realtà che non solo è lontana dagli assistiti,
ma che difficilmente entra in gioco per la stessa tutela degli operatori sanitari. Mi piace,
però, riflettere sugli interventi e sulle azioni che in concreto potrei intraprendere insieme al
medico per non chiudere gli occhi davanti a questa nuova realtà assistenziale. Sono più
che orientato, a ritenere che il desiderio espresso da Pietro sia più che mai un suo diritto,
egli infatti ribadisce la propria libera, informata, consapevole ed incondizionata volontà a
che sia immediatamente cessata l’attività sulla propria persona di sostentamento a mezzo
di ventilatore artificiale, inoltre conserva intatte le proprie facoltà mentali, è dunque in
grado di esprimere un desiderio cosciente circa l’accettazione o il rifiuto de trattamenti.
Ritengo per di più che il rifiuto alla richiesta del paziente sia ingiustificata in base alle
seguenti argomentazioni: 1) è principio pacifico che il consenso informato costituisce la
base di ogni trattamento terapeutico; 2) che risulta particolarmente intollerabile, a livello
psicologico, dover sottostare a terapie sanitarie che egli, a ragione, considera quale
indebita ed illecita intrusione nella propria sfera personale e che ritiene, stante la
sostanziale inutilità per il miglioramento della propria salute, profondamente lesive alla sua
dignità in quanto non utili neppure a perseguire benefici in termini di qualità della vita; 3)
che esso riceve protezione direttamente da norme di rango costituzionale (art. 2, 13 e 32)
e ne consegue quindi che ogni persona può vantare un vero e proprio diritto perfetto a
determinarsi liberamente e consapevolmente in ordine al compimento o al rifiuto della
terapia di natura medica. Presupponendo che anche il medico si trovi sulla mia stessa
linea di pensiero e che condivida la mia medesima scala di valori possiamo muovere i
nostri primi passi: un primo intervento che potremmo avviare è quello di formare un team
multidisciplinare, nel quale al suo interno si possa trovare anche la figura di uno psicologo,
che aiuterà in un primo momento Pietro, per capire e conoscere quali sono state le
motivazioni che lo hanno portato a una scelta così importante e in un secondo momento
che possa essere capace di supportarlo e sostenerlo nella sua decisione, qualunque essa
sia. In questi casi un’assistenza di buona qualità, deve offrire al malato la possibilità di
trascorrere l’ultima parte della vita in famiglia,o, quando questo non è possibile, in strutture
di ricovero adeguate alla natura dei problemi e ispirandosi a quelle che sono “la carta dei
diritti dei morenti” e “la carta di Pontignano” costruire un’alleanza tra equipe sanitaria e
famiglia, anche al fine di sostenere il processo del morire senza dolore, che nella
fattispecie potrebbe essere auspicabile in una terapia sedativa, che in conformità con le
migliori ed evolute pratiche e conoscenze medico-scientifiche, risulti idonea a prevenire
e/o eliminare qualsiasi stato di sofferenza fisica e psichica del paziente. Un altro
importante passo da muovere è diretto nei confronti della famiglia. Il nostro compito sarà
quello di riconoscere e gestire le emozioni di ciascuna persona coinvolta, garantendo un
clima di serenità attorno a chi muore.
Vorrei concludere esaminando il panorama italiano e nello specifico analizzare quali
problematiche si celano e si nascondono dietro al mondo dell’eutanasia, ovvero quell’atto
diretto del medico a provocare la morte del paziente sotto sua esplicita volontà. Ovunque
la questione dell’eutanasia è percepita come delicata e bisognosa di estrema attenzione
nella scelta della terminologia, dei modi e dei contesti adatti a trattarla. E, in particolare,
nel nostro paese esiste una certa diffidenza verso linee di demarcazione chiare, finalizzate
ad appoggiare il diritto alla buona morte. Questo caso ci dimostra l’inadeguatezza della
legislazione italiana in materia, dando vita ad un’ondata di reazioni, tale da creare un
dibattito senza precedenti in merito alla liceità e al valore legale di alcuni interventi che
potrebbero essere presi seriamente in considerazione, come le direttive anticipate di
trattamento o cosiddetto testamento biologico. Un atto firmato che consente appunto di
dare disposizioni anticipate nel caso di una malattia terminale o in fase avanzata o
inguaribile o invalidante, che renda incapaci di comunicare ed esprimere la propria
volontà. Da questo documento è possibile trarre le disposizioni in merito al consenso o al
rifiuto dei trattamenti medici, anche quelli “salva vita”, e quindi dichiarare in modo preciso
le proprie convinzioni in merito alle ultime fasi della propria esistenza. Mentre nei paesi più
moderni dell’Europa (Belgio, Olanda, Francia, Spagna, Germania, Inghilterra) già da
tempo ci sono leggi che regolano la materia del testamento biologico, in Italia manca
ancora una legge specifica sulle dichiarazioni anticipate di trattamento. A tal fine sono da
privilegiare anche azioni volte al potenziamento dell’assistenza medica e infermieristica a
domicilio, all’erogazione di assistenza farmaceutica domiciliare tramite le farmacie
ospedaliere, al sostegno psicosociale al malato e ai suoi familiari, alla promozione e al
coordinamento del volontariato di assistenza ai malati terminali e alla realizzazione di
strutture residenziali (hospice) autorizzate e accreditate. La rimozione culturale della
morte, che è tipica del nostro tempo, così come la sua esclusiva medicalizzazione,
costituiscono problemi tra i più rilevanti per la riflessione bioetica. Non è ingiustificato il
timore che l’assistenza terapeutica, applicata indiscriminatamente, possa superare il limite
del reale beneficio per il paziente e produrre un’esistenza meramente biologica, nella
quale la qualità della vita è estremamente bassa, aggiungendosi anzi alle sofferenze insite
nella malattia, quelle connesse agli stessi trattamenti. La capacità della moderna medicina
e della tecnologia di prolungare la vita è adesso così avanzata, che esiste il reale peri