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QUAL È UN EVENTO MARCATORE? CHE COSA SEGNA LA NOSTRA ESISTENZA?

Quando usciamo di casa per la prima volta, quando andiamo a vivere da soli, quando

iniziamo un percorso professionale, il matrimonio, la nascita di un figlio, la morte di una

persona cara.. sono eventi che segnano le nostre biografie! Nella realtà dei fatti è

ciascuno di noi che segna la proprietà di marcatori alle situazioni che gli capitano.

Individuare quali sono gli eventi marcatori spetta all’individuo, al soggetto. Il significato che

attribuiamo agli eventi è estremamente soggettivo.

Quindi in che senso la teoria di Levinson ci interessa?

Innanzitutto cade anche l’ultimo piedistallo delle teorie stadiali perché ciascuno è LIBERO

DI SCEGLIERE e decidere quali e quanti sono gli eventi marcatori; non ci sono riferimenti

specifici a delle età, è un percorso lineare in cui un evento marcatore può capitare in

QUALSIASI MOMENTO, vale tanto per un adolescente che per una persona adulta.

Ultimo aspetto che ci interessa: non potendo stabilire un ordine preciso ma facendo

riferimento alla vita delle persone introduciamo un approccio, quello AUTOBIOGRAFICO,

uno dei più utilizzati da qui in poi nell’educazione degli adulti.

Questi tre autori presi in esame non esauriscono il box legato alla costruzione psicologica

dell’età adulta, assolutamente, li prendiamo come esempi e riferimenti.

Parliamo ora della dimensione sociale: ambito ricco di spunti, indicazioni, letture, in

letteratura. Individuiamo come paletti due date: 1963 e 1983. Queste corrispondono alla

pubblicazione di due testi che possiamo assumere idealmente come due testi che offrono

delle letture sull’adultità piuttosto innovative. Già il fatto che vi fossero desti sulla

condizione adulta non era scontato, per di più offrono due letture originali che segnano un

assaggio teorico importante sulla condizione adulta. Inoltre arrivano da ambiti diversi:

ambito francese (1963) e americano (1983).

In ordine:

• 1963, il filosofo LAPASSADE scrive “Il mito dell’adulto - saggio sull’incompiutezza

dell’uomo”. E’ considerato un riferimento classico per chi si occupa di condizione adulta

dal punto di vista sociologico. La tesi è già implicita nel titolo: parlare di adulto come

mito implica che l’adulto non è più una tappa agognata e conclusiva da raggiungere e

conquistare a tutti i costi e soprattutto non è più un momento conclusivo. Facendo

riferimento al concetto di incompiutezza nel sotto titolo, si rende evidente che anche da

adulti si continuerà ad essere incompiuti e ad essere in discussione, in cambiamento.

Con questo testo quindi si cambia radicalmente l’idea di un’adultità come fase compiuta

e stabile, per giungere ad una fase non poi così diversa da quelle immediatamente

precedenti: incompiuta, instabile, incerta. E’ una lettura totalmente diversa rispetto al

passato. La cosa importante è il collocamento temporale, quando in Italia c’erano

ancora il mito del diventare adulto quando vi era un posto fisso, una famiglia, gli affetti

—> stabilità.

Lapassade è stato il primo a mettere in dubbio la stabilità, in tempi non sospetti.

• 1983, DAN KILEY scrive “La sindrome di Peter Pan”. Parla dell’adulto che non vuole

crescere. Arriviamo a sovvertire la costruzione sociale precedente e arriviamo a

considerare l’adultità come un disvalore, l’età adulta è qualcosa da rinviare il più

possibile nel tempo: meno responsabilità mi assumo meglio è.

Attorno a questi due pilastri costruiamo tutte le rappresentazioni sociali che

condizioneranno le altre domande: come si cambia? e come si apprende?

04/04/2017

Ultima domanda che ci siamo posti sui destinatari: come apprende l’adulto?

Bisogna fare un excursus storico: a partire dagli anni 50 del secolo scorso, 1954

precisamente, fino agli anni 90 più o meno. Nel 1954 viene pubblicato un lavoro di ricerca

molto famoso, “Il cono d’esperienza” di uno psicologo americano, EDGARD DALE,

diventato punto di riferimento della letteratura. E’ stato ripreso per anni e anni, citatissimo,

più per le suggestioni che ha alimentato che per i risultati. (“Cono” ricorda, per forma, la

piramide di Maslow ma diversa per contenuti.)

Dale si era chiesto quando ciascuno di noi può considerare EFFICACE un apprendimento,

che cosa fa si che i nostri apprendimenti siano efficaci? La risposta, banale ed intuitiva,

che diede fu: posso dire di aver appreso nel momento in cui memorizzo le informazioni, i

contenuti, sono in grado di trattenere le informazioni che ho ricevuto! Le me le ricordo

posso dire di aver appreso in modo efficace, se mi dimentico o ricordo vagamente allora

non si tratta di un apprendimento efficace.

Se questo è vero, che l’apprendimento è associato alla qualità della memorizzazione (e

che quindi la qualità dell’apprendimento dipende dalla quantità di informazioni

memorizzate), Dale si chiede: quale metodologia didattica consente di trattenere il

maggior numero di informazioni?

Secondo Dale noi saremmo in grado di trattenere fino al 10% delle informazioni che

leggiamo. Riusciamo ad aumentare le informazioni trattenute fino al 20% quando

ascoltiamo qualcuno. Fino al 30% le cose che vediamo. Tratteniamo il 50% delle

informazioni quando vediamo e ascoltiamo e il 70% di ciò che si discute con altri.

Tratteniamo l’80% di informazioni di ciò che sperimentiamo in prima persona e infine

quando siamo costretti noi stessi a spiegare, illustrare qualcosa agli altri, arriviamo a

trattenere fino al 90% delle informazioni. Questa è la forma di apprendimento più

sofisticata e profonda che si possa immaginare secondo Edgard Dale.

Complessivamente, possiamo considerare queste percentuali in due blocchi. I primi 3

come PROCESSI PASSIVI CONTENUTISTICI mentre gli altri, nel momento in cui

cominciamo ad integrare diversi canali di attenzione - visivo, uditivo, parliamo con altri ecc

- e quindi siamo più coinvolti, possiamo palare di PROCESSI ATTIVI O PROATTIVI

RELAZIONALI.

Lui voleva capire quali sono le modalità più efficaci per apprendere (= capacità di

trattenere info e contenuti, per Dale).

Questa ricerca basterebbe per dire che la scuola oggi è totalmente inefficace proprio

perché utilizza un approccio di tipo passivo contenutistico. La sua sarebbe un’analisi

impietosa dei sistemi scolastici e d’istruzione. Quando ci troviamo in contesti tipicamente

adulti invece agiamo in maniera diversa e riusciamo quindi a capire le differenze tra

approccio scolastico e approccio organizzativo. L’apprendimento non esiste solo in una

situazione tipicamente formale, come pensiamo, ma anzi questa ricerca ci dice proprio che

gli apprendimenti più significativi avvengono esattamente nei contesti informali in cui non

c’è una lavagna, non c’è un banco, non c’è un insegnante!

Un altra ricercatrice, sempre americana, PENELOPE ECKERT, negli anni 90, si pone,

sulla scorta di quello che abbiamo detto fin ora, una domanda banale nella formulazione

ma complicatissima nel trovare una risposta: a cosa serve la scuola/università? Perché ci

andiamo?

[Spesso siamo spinti ad intraprendere un dato tipo di percorso per delle passioni, degli

interessi. Invece Ken Robinson e Martha Nussbaum sottolineano che vi è un’attenzione a

concepire i sistemi di formazione solo in funzione degli sbocchi professionali e delle regole

di mercato. Per Robinson invece devo formarmi nel miglior match possibile tra talenti/

attitudini e scopo scolastico.]

La Eckert dice che spesso nella realtà dei fatti ci rendiamo conto che ciò che ci ha fornito

la formazione, la scuola, l’università, servono a poco o addirittura a niente, per ciò che ci è

richiesto nel mondo del lavoro. Quello che facciamo a scuola/università si rivela

insufficiente o inutile quando intraprendiamo un percorso professionale e secondo lei tra il

mondo della scuola e il mondo dell’impresa c’è una differenza, una distanza, chiamata

DEFICIT, clamorosa, sia per contenuti che per caratteristiche degli apprendimenti. Non

solo, Eckert ci dice anche che questo deficit sarebbe di 2 tipi, ci sarebbero due modalità di

interpretare questa distanza: un deficit COGNITIVO e un deficit SOCIALE.

• Il DEFICIT COGNITIVO riguarda i CONTENUTI dell’apprendimento cioè le cose, gli

argomenti, i contenuti, i temi trattati all’università non mi servono nel mondo del lavoro o

per lo meno solo in modo parziale. Mi vengono richieste competenze completamente

diverse da quelle che ho imparato all’università.

• Il DEFICIT SOCIALE non guarda ai contenuti ma ai COMPORTAMENTI, agli

ATTEGGIAMENTI. Un’altra caratteristica tipica è che gli atteggiamento i normalmente

premianti e che vengono premiati a scuola non sono quelli premianti e che vengono

premiati nel mondo del lavoro. La scuola induce in noi comportamenti che vanno bene lì

ma che in un contesto professionale non valgono più e non ci servono più.

Esempio: la replica. L’apprendiamo da bambini e diventa quasi patologico nel nostro

percorso universitario. Nostra capacità di replicare/ripetere ciò che abbiamo letto o ciò

che ci viene detto a lezione. A noi invece, nel contesto professionale, serve essere

creativi, portare la novità. Dobbiamo essere innovativi e creare paradigmi diversi,

mentre a scuola ci hanno insegnato a non essere personal e creativi ma omologarci a

dei modelli.

Un ulteriore contributo che mette in crisi il modello formativo tipicamente scolastico è

quello di HOWARD GARDNER che tra anni 80 e 90 si è occupato del concetto di MENTE

NON SCOLASTICA, nel suo “The unschooled mind”. Nel libro lui immagina che il modo di

apprendimento nel tempo si modifichi e ci sia una prima fase della nostra vita, quella dagli

0 ai 6 anni prima di entrare a scuola, poi una dai 6 ai 20/21 in cui abbiamo un’esperienza

di apprendimento diversa ovvero quella che si realizza nei contesti scolastici e poi una

terza fase in cui sperimentiamo modalità di apprendimento ancora diverse ovvero quelle

che si realizzano nei contesti professionali e di lavoro, specifica del mondo adulto o del

lavoro nelle organizzazioni. Alla luce di queste tre fasi in cui cambiano i nostri stili di

apprendimento, Gardner individua 3 personaggi che sono rappresentazioni di questi 3 stili:

- fase infanzia, bambini 0-6 anni: INTUITIVE LEARNER

- fase scolastica: SCOLASTIC LEARNER

- fase ultima: SKILLED PERSON

Nel suo libro, questi tre personaggi sono descritti e descrivendoli spiega implicitamente le

tre fasi

Dettagli
Publisher
A.A. 2017-2018
43 pagine
1 download
SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-PED/01 Pedagogia generale e sociale

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher fedlou di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Educazione degli adulti e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Trieste o del prof Cornacchia Matteo.