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Quando si parla di squilibri territoriali nell’esperienza italiana, si fa principalmente riferimento al dualismo,

espresso in termini di PIL pro capite (PIL Totale/popolazione), presente tra le regioni del Centro-Nord, rispetto

a quelle del Sud della Penisola. Analizzando, infatti, le dinamiche salariali tra queste due aree macroregionali,

possiamo notare quanto sin dall’Unità d’Italia (1861) la forbice si sia andata progressivamente ad allargare,

sino agli anni del Miracolo economico. Anni in cui, in forza di ingente sforzo economico, di opere pubbliche

e politiche mirate allo sviluppo regionale, il divario tra le parti si è andato progressivamente ad erodere,

arrivando ad una quasi equità. Tuttavia, c’è da sottolineare quel ‘quasi’, in quanto non si è mai raggiunta una

vera e propria equiparazione; lo scarto si è andato a restringere, nell’ordine di un 30% ancora a favore delle

regioni del Centro-Nord. In altre parole, le lame della forbice si sono andate ad avvicinarsi, ma mai a

combaciare, per cui uno stipendio settentrionale presentava, in media, un 30% in più, se comparato ad un

connazionale meridionale. In ogni caso, uno Sviluppo che fece parlare di un “Miracolo Economico del Sud

Italia”, in cui anche questa parte d’Italia contribuì ad una crescita mai registrata prima d’allora. Tuttavia, al

conseguente lento declino dei tassi di crescita nazionale, seguì un inesorabile acuirsi del divario tra le due

aree: fatto di alti e bassi, di declini e riprese, ma che mai è riuscito a tornare ai fasti del “Miracolo Economico”.

Un divario che scaturisce anche, ma soprattutto, in forza di una scarsa attrattività in termini di investimenti

esteri, del panorama italiano. Di fatti, se già il “sistema Italia” risulta scarsamente attrattivo per gli investitori

esteri, le regioni del Sud si trovano maggiormente svantaggiate, in questi termini. Questo, principalmente a

causa di una precaria stabilità politica, che aumenta considerevolmente l’incertezza e, conseguentemente, il

rischio per l’investimento. Ma non solo, altre cause sono sicuramente imputabili ad un ingente carico fiscale;

ad un sistema infrastrutturale penalizzante; ad, infine, agli alti livelli di corruzione che permeano il paese nella

sua interezza. In aggiunta, come si può rilevare, il Sud è lentamente scomparso dalle agende politiche dei

governi che si sono succeduti; c’è tuttavia da sottolineare che, qualora l’obiettivo di crescita regionale (del

Sud) al 4% (2010) fosse stato centrato, si sarebbe potuto parlare in tutt’altri termini. Tuttavia, l’obiettivo è

venuto meno e di conseguenza l’interesse per questa regione. Ennesima riprova del ‘declino’ produttivo

italiano, in quanto il Sud rappresenta ancora una risorsa: in primo luogo, perché potrebbe spostare l’asse di

specializzazione produttiva del nostro paese, portandolo verso settori a più intensa attività innovativa. Del

resto, nell’area meridionale, si trovano alcune imprese virtuose: come Alenia, in Campania o gli stabilimenti

Fiat in Basilicata o ancora, imprese tecnologiche nelle regioni insulari. Il Sud potrebbe rappresentare una

risorsa, per il suo potenziale di attrattività degli Investimenti Esteri, in quanto darebbe il via ad un processo

virtuoso: l’approdo di multinazionali straniere, fornirebbe vigore ai tassi di occupazione; ma non solo,

innescherebbe un processo di “spill-over”, per cui nuove imprese entrerebbero nel mercato regionale,

magari creando un ambiente di cooperazione-competizione tra le parti. Per concludere, in un sistema

fortemente dualistico, come quello italiano, occorre ripensare – o meglio iniziare a pensare – un modello di

sviluppo che consenta alle regioni del Sud di specializzarsi, sfruttando in primo luogo, un ambiente

preesistente; ma allo stesso tempo, sfruttando il potenziale inespresso – in termini di attrattiva estera - di

questa macroregione, che non solo potrebbe “chiudere” la forbice tra le due parti, ma sarebbe anche in grado

di spostare l’asse produttiva di tutto il sistema-Italia.

A cosa è dovuta la crisi della grande impresa

Sul finire degli anni Settanta, in Italia ma anche nel resto del Mondo, si assistette ad un mutamento di quelle

condizioni favorevoli che fecero della Grande Impresa il protagonista indiscusso dello sviluppo economico

degli anni precedenti, del “Miracolo Economico”. Mutamento radicale, dovuto essenzialmente a dei fattori

di natura tanto endogena quanto esogena. Per iniziare, due shock petroliferi: rispettivamente nel 1973, in

cui il cartello OPEC bloccò molte delle esportazioni petrolifere; nel 1979, con la rivoluzione Khomeinista in

Iran. Naturalmente, questo shock portò in primo luogo ad un aumento dei costi di produzione, soprattutto

per quelle attività a più alta intensità energetica, che generalmente corrispondevano anche con una maggiore

intensità di scala: Grande Impresa. Tuttavia, problemi ancor più rilevanti emersero con l’abbandono del

Sistema di Bretton Woods, con conseguente ingresso in un una forte turbolenza sul mercato dei cambi: non

più fissi, ma variabili appunto. Questo portò le imprese dalla dimensione del rischio a quella dell’incertezza,

riducendo conseguentemente l’orizzonte temporale, entro il quale poter calcolare il rischio. Non di meno,

con una maggiore integrazione dei mercati, le imprese non solo dovettero fronteggiare l’incertezza, ma anche

la pressione concorrenziale che arrivava da nuove parti del Mondo. Questo ebbe anche un effetto allocativo

nel mercato, per cui le imprese più concorrenziali aumentarono la loro efficienza, o meglio ridussero il loro

grado di “X-inefficiency”, per cui fronteggiarono spesso un downsizing: una riduzione in termini dimensionali,

per cui ci fu l’eliminazione di tutte quelle attività poco funzionali all’attività; allo stesso tempo, le imprese

poco efficienti in termini di competitività, uscirono dal mercato, rimpiazzate da quelle più “meritevoli”,

efficienti. Ma non solo, un altro fattore che infierì notevolmente sulla dimensione d’impresa, fu

l’avanzamento tecnologico, con l’introduzione della microelettronica nel processo produttivo, ci fu un

radicale mutamento del sistema: da un lato, un abbassamento della dimensione minima efficiente d’impresa,

dovuto ad un mutamento della curva dei costi sul lungo periodo (Grafico). Tuttavia questi fattori non

influenzarono solo l’offerta: in quanto in quegli anni, inizio anni Ottanta circa, ci fu un radicale mutamento

della domanda, divenuta meno standardizzata, sempre più alla ricerca di una specificità nel prodotto.

Cambiamento nel gusto che cambiò radicalmente l’ambiente competitivo italiano, per cui si mise per un

qualche momento in discussione quello che Gilbraith definì come la legge universale dello sviluppo

capitalistico, la Grande Impresa. Questo cambiamento epocale, non solo portò con sé una riorganizzazione

del sistema produttivo, ma mise in discussione lo stesso modello di produzione di scala. Modello fondato su

grandi volumi di produzione, che conseguentemente riducono i Costi Medi. Modello la cui massima fu: “Ford

modello-T, disponibile in tutti i colori purché nera” (Ford).

Cosa s'intende per Terza Italia

Quando si parla di “Terza Italia”, si fa riferimento ad un fenomeno squisitamente italiano, che ha investito la

penisola sul finire degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta. Una rottura sostanziale con il dualismo degli

anni precedenti, in cui le direttrici dello sviluppo si spostarono verso le regioni del Nord-Est, del Centro e

della costa adriatica (Marche, in particolare), con un esponenziale fiorire di nuove realtà imprenditoriali, su

scala locale. Fenomeno che vede, infatti, una segmentazione del processo produttivo su base territoriale, per

cui si andranno a creare degli agglomerati produttivi, fondati su un principio di mutua collaborazione-

competizione: i distretti industriali. Così creando, da un lato delle economie esterne al distretto, di scambio

del prodotto finito; mentre dall’altro, delle economie interne, interaziendali, di scambio dei prodotti

intermedi: avvantaggiandosi di quelle che, in letteratura, sono ben note come “esternalità Marshalliane”.

Questo concetto, mutuato dal sociologo A. Bagnasco, fa riferimento a degli studi antecedenti, in cui

l’economista inglese A. Marshall, attraverso l’analisi di alcuni distretti industriali inglesi del XIX secolo,

rinvenne una serie di “economie esterne”, di “esternalità” – positive, in questo caso-, per cui l’attività

economica di un soggetto (impresa) influenza, al di fuori della transazione economica, l’attività di un’altra

impresa. In primo luogo, si sottolineano delle “esternalità di specializzazione”, per cui la frammentazione del

processo produttivo dà modo alle imprese di specializzarsi in una singola fase, non dovendo quindi occuparsi

dell’intera catena produttiva. Come del resto, succede ancor oggi – su scala senz’altro più ampia - nelle catene

globali del valore (GVC): dove, ad esempio, Alenia, impresa simbolo del Meridione d’Italia, si è specializzata

nella produzione di una parte della fusoliera del Boeing. Ma non solo, la vicinanza tra le imprese situate nel

distretto, crea un rapporto diretto tra i vertici delle singole imprese, per cui le informazioni sono veicolate in

maniera più fluida, veloce ed efficiente, creando delle vere e proprie “economie di informazione”. Per finire,

con delle esternalità di accumulazione delle competenze per cui si verifica un abbassamento del costo medio

unitario del bene, dovuti ad una maggiore esperienza di una sempre più specializzata manodopera. Tuttavia

c’è da sottolineare che, quello dei distretti industriali, fu un fenomeno contingenziale, dovuto alla crisi della

Grande Impresa: sia dal lato dell’offerta, per una serie di fattori endogeni, tanto da quello della domanda,

che si è fatta sempre più specifica, mettendo in crisi quel modello di accumulazione di scala. Fu un successo,

sicuramente, per cui lo stesso Clinton parlò di “la via italiana allo sviluppo”; ma non fu “miracolo”: anzi, forse

sul lungo-periodo, fu in qualche misura, una condanna. La nostra industria non fu, infatti, in grado di uscire

dalla cristallizzazione produttiva che ormai la contraddistingue dagli anni Ottanta, quella fascia alta del

settore tradizionale, ben nota al mondo come “Made in Italy”. Allo stesso tempo, i distretti non divennero

mai Grandi Imprese: perché se mentre nel breve-periodo, la produttività del distretto era ben comparabile

con quella delle Grande

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Publisher
A.A. 2018-2019
16 pagine
1 download
SSD Scienze politiche e sociali SPS/09 Sociologia dei processi economici e del lavoro

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher SkuolaNet123 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Economia delle imprese e dei settori produttivi e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi Roma Tre o del prof Giunta Anna.