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A.
B. Il profitto è dato dal reddito che eccede la remunerazione di tutti i fattori produttivi, compresi
dove k*CP=40€ è il
quelli in posizione residuale, P=R-k*CP=160-0,04*1.000=160-40=120€,
compenso base per l’uso del CP;
Il profitto corrisponde all’extra
C. oltre la congrua remunerazione, P=R-(k+π)*CP=160-
dove (k+π)*CP=90€ è la congrua remunerazione.
0,09*1.000=160-90=70€,
Attenzione, se sono un’impresa filantropica, perché sto stimando il premio per il rischio? Perché operando sul mercato
1
l’impresa è sottoposta al rischio di mercato, cioè il rischio che la gestione si muova in modo diverso da quello
programmato o che non riesca a conseguire una massa di ricavi tale da coprire i costi (rischio di mercato), e ricordiamo
anche il rischio di non conseguire l’obbiettivo per cui questa impresa è nata (certamente non è il profitto, è molto di più,
l’abbiamo visto nell’analisi iniziale delle due categorie). Quando parliamo di premio per il rischio, però, ci si concentra
su quello che corre l’impresa, il rischio cioè che grava sul capitale proprio e quindi la possibilità che quest’ultimo venga
delle perdite (caso in cui l’impesa non produce
coinvolto nel ripianamento valore bensì lo distrugge).
Essendo un’impresa filantropica quale porzione di questo reddito possiamo distribuire sotto forma di
profitto? Da 0 a 40? Da 0 a 90? O da 0 a 160?
1. Certamente, visti i ragionamenti di cui sopra, possiamo distribuire agli azionisti un reddito
pari al compenso base per l’uso del CP da parte dell’impresa. È
compreso tra 0 e 40, cioè
come se si stesse remunerando il CC preso a prestito d auna banca.
2. Ma il livello sostenibile dal punto di vista economico qual è? Volendo posso decidere di
distribuire anche qualcosa in più del semplice compenso base, perché essendo il CP un fattore
a remunerazione residuale comunque si sta esponendo al rischio d’impresa. Posso valutare,
allora, di distribuire un reddito che comprenda anche una parte del premio per il rischio, quindi
un reddito comprensivo della congrua remunerazione. Distribuisco da 0 a 90, è ammissibile,
ma senza raggiungere mai la congrua remunerazione.
Non posso, in alcun modo, ammettere la distribuzione dell’intera eccedenza, cioè dell’extra
3. oltre la congrua remunerazione, perché altrimenti snaturiamo la qualità filantropica della
nostra impresa.
Concludiamo dicendo che: in un modello di impresa filantropica riteniamo che sia perfettamente
sostenibile e concepibile dal punto di vista economico conseguire e distribuire il reddito, ma non in
modo incondizionato bensì entro certi limiti. Tali limiti possono essere: il compenso base o un
qualcosa in più che considera anche il premio per il rischio. Tuttavia, passando a questa seconda
sto avvicinando al caso di un’impresa for profit.
remunerazione, devo essere consapevole che mi
Per quanto riguarda l’azienda filantropica o erogativa, invece, il profitto non esiste nemmeno come
categoria concettuale, in quanto l’economia di una siffatta azienda si basa su atti di liberalità, sia in
entrata che in uscita, è chiaro, pertanto, che il profitto non si può proprio formare, perché questo ha
origine dal mercato (differenza tra ricavi delle vendite e costi di gestione). Inoltre, anche ipotizzando
per assurdo che si generi profitto, in un’azienda erogativa comunque non potrà essere distribuito,
perché il CP viene donato e quindi chi lo conferisce ne perde la titolarità.
Un ultimo fattore da considerare nell’ambito della
Limiti giuridici alla distribuzione del reddito.
d’esercizio nell’impresa filantropica riguarda i vincoli fiscali e giuridici
distribuibilità del reddito
imposti dal Legislatore. D.lgs. 155/2006, "Disciplina dell'impresa sociale, a norma della legge 13
giugno 2005, n. 118”: la normativa vieta la distribuzione degli utili per godere di agevolazioni fiscali,
non è che la vieta in maniera assoluta. In particolare:
“Disciplina dell’impresa sociale”.
Art. 3 D.lgs. 155/2006,
Assenza dello scopo di lucro
1. L'organizzazione che esercita un'impresa sociale destina gli utili e gli avanzi di gestione
allo svolgimento dell'attività statutaria o ad incremento del patrimonio.
2. A tale fine è vietata la distribuzione, anche in forma indiretta, di utili e avanzi di gestione,
comunque denominati, nonché' fondi e riserve in favore di amministratori, soci, partecipanti,
lavoratori o collaboratori. Si considera distribuzione indiretta di utili:
a) la corresponsione agli amministratori di compensi superiori a quelli previsti nelle imprese
che operano nei medesimi o analoghi settori e condizioni, salvo comprovate esigenze attinenti
alla necessità di acquisire specifiche competenze ed, in ogni caso, con un incremento massimo
del venti per cento;
b) la corresponsione ai lavoratori subordinati o autonomi di retribuzioni o compensi superiori
a quelli previsti dai contratti o accordi collettivi per le medesime qualifiche, salvo comprovate
esigenze attinenti alla necessità di acquisire specifiche professionalità;
c) la remunerazione degli strumenti finanziari diversi dalle azioni o quote, a soggetti diversi
dalle banche e dagli intermediari finanziari autorizzati, superiori di cinque punti percentuali
al tasso ufficiale di riferimento.
“Disciplina
Art. 3 Legge 8 Novembre 1991 n.381, delle cooperative sociali”.
Obblighi e divieti
1. Alle cooperative sociali si applicano le clausole relative ai requisiti mutualistici di cui
all'articolo 26 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947,
n. 1577, ratificato, con modificazioni, dalla legge 2 aprile 1951, n. 302, e successive
modificazioni.
“Provvedimenti
Art. 26 D.lgs. del Capo provvisorio dello Stato 14 Dicembre 1947 n.1577,
per la cooperazione”.
Requisiti mutualistici
Agli effetti tributari si presume la sussistenza dei requisiti mutualistici quando negli statuti
delle cooperative siano contenute le seguenti clausole:
a) divieto di distribuzione dei dividendi superiori alla ragione dell'interesse legale
ragguagliato al capitale effettivamente versato;
b) divieto di distribuzione delle riserve fra i soci durante la vita sociale;
c) devoluzione, in caso di scioglimento della società, dell'intero patrimonio sociale - dedotto
soltanto il capitale versato e i dividendi eventualmente maturati - a scopi di pubblica utilità,
dei quali è competente a giudicare l'amministrazione finanziaria.
In caso di controversia decide il Ministro per le finanze, d'intesa con quelli per il tesoro e per
il lavoro e la previdenza sociale, sentita la Commissione centrale per le cooperative.
Dal momento che in un’impresa
La destinazione del reddito non distribuito. filantropica è
ammesso distribuire il reddito entro i limiti stabiliti dalla logica economica e da quella giuridica, come
può impiegare, l’azienda in questione, il reddito che non viene distribuito? La risposta è strettamente
filantropica, motivo per cui, inoltre, si procede alla distribuzione
connessa alle finalità dell’azienda
solo di una quota parte del reddito prodotto dall’impresa non profit. Il reddito deve essere impiegato
per l’attività istituzionale, o statutaria (art.3 “Assenza dello scopo di lucro”, D.lgs. 155/2006,
“Disciplina dell’impresa sociale”). Inoltre c’è anche da dire che l’impresa filantropica gode di risorse
gratuite, quindi sarebbe anche inaccettabile che queste vengano impiegate per remunerare i soci
dell’impresa.
Più precisamente si parla di non impiego o non monetizzazione del Reddito, perché in realtà la
questione è non disinvestirlo piuttosto che investirlo. Questo perché il Reddito rappresenta la
ricchezza prodotta nel tempo dall’impresa, ed è già presente in essa: il reddito per natura nasce già
investito nell’impresa e la sua distribuzione ne comporta il disinvestimento. Ma allora, dove si trova
questa ricchezza? Cosa ne ha fatto l’impresa nel tempo? Lo utilizza per l’attività statutaria, il reddito
è inglobato nell’attività dell’impresa: è negli impianti che acquista e sfrutta per la produzione, nei
macchinari, nelle opere dell’ingegno, nei fattori produttivi, nel lavoro e nei servizi vari. Quindi non
esiste come grandezza autonoma con una sua identità monetaria.
ricchezza generata dall’impresa, vuol dire che l’impresa ha prodotto valori
Il reddito rappresenta
maggiori di quanti ne ha consumati per la produzione. Grazie a questa ricchezza può disporre di
maggiori risorse attraverso le quali svolge l’attività istituzionale (la produzione qualunque essa sia)
senza doversi indebitare, ecco perché quando si parla di reddito non distribuito si fa riferimento
all’autofinanziamento. S
iccome nel tempo i valori prodotti si trasformano in incassi e i valori
consumati in pagamenti, il reddito che via via si forma attraverso i singoli atti di scambio a quelle
risorse finanziarie di cui l’impresa dispone e che le permettono di effettuare pagamenti senza doversi
indebitare. Ecco perché il reddito, grandezza tipicamente economica, poi si collega a questa dinamica
che è, invece, tipicamente finanziaria.
filantropica. punto di vista dell’impresa filantropica, se
Autofinanziamento nell’impresa Dal
questa non ha monetizzato/disinvestito il reddito, quindi non ha erogato remunerazione ai soci
istituzionale: aumentare la produzione o il servizio erogato,
azionisti, lo sfrutta per l’attività
aumentare il numero di soggetti svantaggiati occupati, ridurre i costi di produzione per aumentare i
Questo rappresenta l’autofinanziamento per l’impresa non profit.
salari o ridurre il prezzo di vendita.
L’autofinanziamento è un fenomeno economico talvolta necessario altre volte è un’opportunità. È
dell’impresa filantropica,
necessario quando si devono incrementare o stabilizzare i proventi o più in
c’è fabbisogno finanziario che non può essere coperto attraverso il normale
generale quando
indebitamento o attraverso nuove sottoscrizioni di capitale. Alle volte rappresenta una mera
opportunità e in questo caso è interessante valutarne l’eticità, cioè chiederci se è lecito, giusto,
autofinanziare l’attività istituzionale di un’impresa filantropica anche quando non se ne ravvede la
necessità economica. Personalmente dire di s&