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LA SCIENZA DEL “BENE VIVERE SOCIALE”. L’ILLUMINISMO ITALIANO E L’ECONOMIA CIVILE
Tutte le grandi capitali dell’Illuminismo italiano furono centri vitali e importanti
nell’elaborazione della nascente scienza dell’economia. Tra tutte Napoli e Milano.
Napoli
Siamo sotto i borboni che creano le speranze per una rinascita civile per le riforme e per lo
sviluppo economico. Una stagione breve, ma che creò l’ambiente culturale nel quale
riapparvero i temi tipici dell’umanesimo e in cui in particolare fiorì la tradizione napoletana
dell’economia civile.
L’economista leader della scuola napoletana e in un certo senso dell’Italia intera fu Antonio
Genovesi (1731-‐1769).
La scuola napoletana di economia civile va letta all’interno dell’intera cultura napoletana che
nei primi decenni del Settecento era una delle più vitali e importanti d’Europa (Filangieri,
Vico, Scarlatti, dei Liguori, ecc.).
“Economia Civile” fu l’espressione che Genovesi scelse sia per il suo principale trattato
economico (Lezioni di economia civile, 1765-‐67) sia per la cattedra da lui occupata. Anche se
fu un’espressione che non riscosse molto successo, in Italia come in Europa, la concezione di
un’economia come luogo di civiltà e come mezzo di incivilimento per migliorare il “bene
vivere” delle persone e dei popoli, rappresentò un elemento di forte continuità della
tradizione italiana di economia, almeno fino alla metà dell’Ottocento.
L’economia civile che si afferma nel Settecento va quindi vista come l’espressione moderna della
tradizione civile iniziata nel Medioevo. Come per i primi umanisti, anche per questi illuministi
la vita civile è pensata come il luogo in cui la felicità può essere raggiunta pienamente, grazie
alle buone e giuste leggi, ai commerci e ai corpi civili nei quali gli uomini esercitano la loro
socialità.
LE PAROLE CHIAVE DELL’ECONOMIA CIVILE
_ COMMERCIARE-‐Visione del commercio in rapporto al benessere sociale
La tradizione napoletana considera l’attività economica come un’espressione della vita civile,
vede cioè il commercio come un fattore civilizzante. Come per gli umanisti, anche per
Genovesi e per i napoletani la vita civile non solo non si contrappone alle virtù, ma è vista
come il luogo in cui le virtù possono fiorire in pubblica felicità.
Riprendendo Montesquieu, Genovesi pone l’enfasi del suo ragionamento sull’importanza dei
prerequisiti del commercio, in particolare sulla fede pubblica, economia come segno di civiltà.
L’idea è la stessa che Kant riporterà poi nel suo Idea di una storia universale dal punto di vista
cosmopolitico (1784): “è lo spirito del commercio che non può convivere con la guerra e che
presto o tardi si impadronisce di ogni popolo…Gli stati si vedono costretti (certamente non
proprio per motivi personali) a promuovere la nobile pace e, ovunque la guerra minacci di
scoppiare nel mondo, ad impedirla con trattative, come se stessero perciò in una lega dei
popoli permanente”.
Colui che meglio mette in luce il rapporto tra commercio-‐ricchezza da un lato e felicità-‐vita
dall’altro è Filangieri, in un brano che viene qui sotto riportato:
La lode per i commerci e le civili ricchezze non fa comunque dimenticare agli autori della
scuola napoletana che i beni non fanno, di per sé, la felicità (Bianchini scrive:”si può essere
ricchi per cumulazione di beni, ma senza esser civili”).
Filangieri scrisse “Un lavoro assiduo, una vita conservata a stento, non è mai vita felice. Questa
era la misera condizione dell’infelice Sisifo. Non un istante era per lui, perché li doveva tutti al
lavoro”.
_ INTERESSI-‐un movimento antisociale come l’interesse diviene all’interno di adeguate
istituzioni civili, costruttori di fatto del bene comune
La cosiddetta eterogenesi dei fini (la “mano invisibile”, la Provvidenza per Vico il maestro di
Genovesi), in cui Vico riconosce che esiste un meccanismo che trasforma le passioni egoistiche
in “civile felicità” ma questo non porta a negare un ruolo essenziale alle virtù per la vita civile.
Da discorso di Vico si coglie poi che l’eterogenesi dei fini è sussidiaria alle virtù civili: Dio, data
la fragilità dell’uomo, lo aiuta disegnando nella sua natura e nella convivenza civile dinamiche
provvidenziali che orientano le passioni verso il bene comune. Sostiene poi che non sempre e
non naturalmente gli interessi privati diventano pubbliche virtù, ma solo nella vita civile ciò
accade (perché sono guidati dalla Provvidenza, ma solo all’interno delle istituzioni e delle
leggi civili che ne regolano le dinamiche spontanee).
Il bene comune quindi dipende dalla diffusione tra la popolazione delle virtù civiche, definite
come la capacità delle persone sia di discernere l’interesse pubblico sia di agire in conformità
ad esso. Il ruolo specifico delle istituzioni è quello di incoraggiare nella popolazione la
diffusione massima possibile delle virtù civiche attraverso l’educazione e le opere.