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A questo punto replica che non è vero che i governanti governano solo nel
proprio interesse, e fa l’esempio di un pastore che cura le sue pecore non nel
proprio interesse, bensì nell’interesse del gregge. Trasimaco ribatte però che il pastore
preserva le pecore per poi poterle poi mangiare. È dunque una confutazione debole
e poco convincente da parte di Socrate, con cui si conclude il I libro.
Libro II: l’idea di giustizia Glaucone Adimanto
Il Secondo Libro si apre con l’ingresso sulla scena di e (i fratelli di
Platone), che propongono a Socrate una nuova sfida. Accusano infatti quelli dell’età di
Socrate di essere responsabili della crisi di valori che caratterizza la loro epoca,
poiché non hanno istruito i giovani su cosa sia davvero la giustizia. Chiedono dunque a
Socrate di mostrare loro che la realtà della giustizia sia qualcosa di diverso da quanto
mostrato dai sofisti, e che ciò che si dice della giustizia sia solo apparenza e non
corrisponda alla realtà.
I due affermano di aver sentito dire che gli uomini scelgano la giustizia come male
minore, perché gli uomini, lasciati liberi di vivere come vogliono, inevitabilmente
farebbero e subirebbero ingiustizia. Siglano dunque un patto dal quale nasce la
società che formula le leggi e decide cosa è giusto e cosa no. La giustizia quindi è
una virtù artificiale, che viene adottata come seconda scelta solo per non subire
una sorte peggiore. Con questo passo Platone ha già individuato una teoria
Hobbes, Locke,
contrattualistica dello stato che sarà ripresa in futuro da autori come
Kant. La giustizia sembra dunque un bene artificiale e secondario. Inoltre se è
vero che la giustizia nasce da una contratto, allora anche le leggi derivano da questo
contratto, dunque non rispecchiano un’idea di giustizia oggettiva, bensì le idee dei
cittadini che hanno fatto questo contratto. Non è possibile dunque reclamare una
validità oggettiva per le leggi.
Adimanto Gige,
aggiunge un esempio: re della Lidia, era un tempo un pastore che,
avendo portato un giorno le pecore al pascolo, trovò in una caverna una statua con
un anello. Egli portò con sé l’anello, per poi scoprire tempo dopo che, girando la pietra
dell’anello, questo lo rendeva invisibile. Egli si recò dunque nella capitale e,
approfittando del dono dell’invisibilità, uccise il re e ne sposò la figlia, diventando re a
sua volta. In questo racconto l’invisibilità simboleggia l’assenza delle leggi e della
costrizione sociale: se gli uomini fossero invisibili nessuno sceglierebbe la via della
giustizia, e allo stesso modo se non vi fossero le leggi e se i reati non fossero puniti gli
uomini non agirebbero secondo giustizia. Così Platone individua una seconda idea
della giustizia (come atto di forza) che ricorre nella storia del pensiero politico.
Platone Socrate)
A questo punto (sempre attraverso la figura di risponde esaminando
come è fatto l’essere umano, basandosi su una visione antropologica (dunque
su una immagine dell’uomo). Secondo la sua visione gli esseri umani sono tutti dotati
di una anima che è divisa in tre parti, ciascuna caratterizzata dall’amore per
qualcosa: la parte più grande ama e desidera i beni materiali, una parte ama la gloria
e gli onori, una terza parte ama la conoscenza e la sapienza. Affinché un uomo sia
sano occorre che le tre parti convivano in armonia, e che esse siano sottomesse
alla parte razionale. Si tratta di un’immagine dell’anima che chiaramente
rispecchia una costruzione politica, e che vuole dimostrare come gli esseri umani
funzionino bene solo se seguono la parte razionale, mentre fanno inevitabilmente
errori se seguono le altre due parti.
Platone spiega ora perché il socratismo non funziona: se l’animo umano è diviso in
Platone
tre parti, allora queste parti possono essere in conflitto. quindi scopre il
conflitto interiore ed espone una visione più raffinata e complessa dell’essere
Socrate,
umano, rispetto a quella esposta da per il quale il male era semplicemente
ignoranza del bene ed il bene era virtù, poiché chi conosce il bene lo fa, chi non lo
conosce fa il male per ignoranza.
Secondo Platone ciò che vale per l’animo umano vale anche per la comunità
politica: se una parte dell’anima desidera i beni materiali, la ricchezza, il benessere,
mercanti);
anche una parte della comunità desidera queste cose (ad esempio i se una
atleti
parte dell’anima desidera gloria e riconoscimento, alcuni esseri umani (come e
soldati) desiderano gloria e onore; infine se una parte dell’anima desidera la sapienza
filosofi)
e la conoscenza, vi sono allo stesso modo esseri umani (i che non sia
accontentano delle opinioni comuni e ricercano la verità mettendo in crisi le
opinioni comuni. Per Platone quindi in ogni società esistono tre strati di
popolazione: tanti desiderano beni materiali, alcuni gloria e onore, in pochi la
sapienza. In questo modo si spiega perché in ogni città c’è conflitto sociale: ci sono
fasce della popolazione con interessi completamente diversi. Poiché nell’anima
il conflitto si risolve obbedendo alla ragione, allo stesso modo si può risolvere nella
società: quindi la migliore comunità è quella governata dai filosofi, ovvero
coloro che sanno cosa è il bene per i cittadini. Le città avranno pace quindi solo se
ci sarà una unione di sapere e di potere politico, con una aristocrazia
intellettuale (il ”Primo scandalo” di Platone). filosofi
A questo punto Platone sostiene che visto che i amano la sapienza più di
ogni altra cosa, non devono avere nulla di privato (né proprietà né famiglia), e
tutto deve essere in comune tra i filosofi (il “Secondo scandalo”, quello che viene
chiamato comunismo platonico). È certo una forma di comunismo, ma la comunità
politica che ha in mente Platone è piccola, e in essa i filosofi sono una ristrettissima
minoranza. Platone ritiene che ogni cosa che non funziona si trova nell’ambito del
privato, dunque tutto, persino la famiglia, deve essere portato nell’ambito
filosofi
pubblico. Egli non propone quindi l’abolizione della famiglia, bensì che i
diventino tutti una grande famiglia. Questa forma di comunitarismo vale però solo
per la classe dei filosofi, dunque per la classe dirigente, perché se si sottraessero i
beni materiali a quella fascia di popolazione che ritiene che la felicità consista appunto
nei beni materiali, non sarebbe più felice.
Platone
Ma va anche oltre, aggiungendo di non aver mai trovato, nel corso della sua
ricerca della verità, nessuna argomentazione per sostenere che le donne siano
inferiori agli uomini. Afferma quindi che le donne siano uguali agli uomini sotto
tutti i punti di vista tranne quello fisico, dunque se una donna divenisse filosofa,
potrebbe diventare persino governante (“Terzo scandalo” di Platone). Ancora una
volta Platone si mostra rivoluzionario per il suo tempo e mostra di non aver paura di
seguire il filo logico del suo ragionamento fino alle sue conclusioni. In molti direbbero
che a questo punto la Repubblica è una utopia politica, ma non è da considerarsi
tale, poiché per Platone è davvero un progetto realizzabile (tiene anche una scuola
proprio per istruire i futuri filosofi per adempiere al suo progetto).
Platone spiega in seguito che a diversi gradi di conoscenza corrispondano diversi
gradi di felicità (è chiaramente una visione aristocratica), e solo il filosofo conosce
i vari gradi di felicità e sa quali gradi siano inferiori agli altri. La felicità del filosofo è
autarchica, perché non ha bisogno di altri beni esteriori, ma proprio per questo i
filosofi non hanno desiderio di governare, e dunque devono essere persuasi a
governare (convincendoli che è loro dovere governare perché altrimenti la città
sarebbe governata da qualcuno peggiore di loro). Questo è per Platone un ulteriore
fattore positivo, perché normalmente l’indirizzo ogni città tutti vogliono governare,
mentre i filosofi non desiderano detenere il potere e anzi devono esservi costretti.
Platone attribuisce un potere enorme ai filosofi e gli sembra naturale farlo, poiché
solo le persone veramente razionali fanno le scelte giuste, ed è giusto che siano delle
persone razionali a guidare il governo. Platone ritiene che per educare le persone di
una futura città perfetta bisogna educare le persone giovani: i filosofi quindi dovranno
combinare matrimoni tra persone con qualità simili (i migliori), mandare in campagna i
bambini sopra i dieci anni, supervisionano gli accoppiamenti per creare “buon
materiale umano”. Quindi che differenza c’è con l’azione di alcuni tiranni? Platone
dà una duplice risposta: il filosofo possiede la scienza politica, ovvero sanno
davvero cosa è bene per la loro comunità politica, mentre il tiranno è un impostore. E
il fatto che possiedono la scienza politica si vede dai risultati delle misure messe in
atto, poiché una politica virtuosa crea cittadini ed esseri umani virtuosi (un paradigma,
questo, che viene meno nel '500 con le guerre di religione, poiché non vi è più una
idea unica su cosa sia un buon cittadino). Tutto questo evidenzia un’immagine di
Platone pratica e realista.
Come si diventa filosofi? Il mito della caverna
A questo punto Platone, all’inizio del Libro Settimo, presenta una allegoria famosa.
Immagina la condizione degli esseri umani come quella di prigionieri in una
caverna, incatenati in modo che possano guardare solo il fondo della caverna e mai
l’imbocco, e quindi persone che per tutta la vita guardano solo il fondo dove si
proiettano le ombre di ciò che succede fuori, e scambiano queste ombre per ciò che
accade nella realtà. Se qualcuno fosse costretto a lasciare la caverna, all’inizio sarebbe
abbagliato dalla luce, poi vedrebbe cosa c’è davvero fuori, e si rifiuterebbe di tornare
alla condizione precedente. Si tratta di una metafora in cui la difficile ascesa per uscire
dalla caverna simboleggia il percorso faticoso che conduce alla conoscenza della
realtà: un percorso che richiede anche coraggio, poiché guardare in faccia la realtà
non è mai semplice, anche se quando una persona guarda la realtà (il sole) per ciò che
essa è davvero, si rifiuta di tornare alla sua condizione precedente. Quindi si diventa
filosofi con fatica, uscendo dalla caverna, smettendo di osservare le om