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Per ottenere un vettore ricombinante:

- si taglia la molecola di DNA d’interesse con un enzima di restrizione (se non

presenta siti di restrizione, possono essere aggiunti legando con legame

fosfodiestereo una nuova sequenza di nucleotidi all’estremità 5’ e 3’),

- si taglia un plasmide con lo stesso enzima,

- la DNA ligasi unisce il DNA d’interesse e il plasmide formando un vettore

ricombinante.

Con i vettori ricombinanti è possibile eseguire la clonazione molecolare o

genica: si introduce una molecola di DNA ricombinante – trasportata dal

vettore plasmidico – all’interno di un organismo ospite (batterico), che la

accetta e si riproduce (ogni 20 min) generando una colonia di organismi

transgenici, che contengono ciascuno una molecola del DNA ricombinante. Si

utilizza questa tecnica per amplificare il DNA ricombinante perchè creare un

plasmide contenente un gene esogeno è piuttosto complesso. In questo

modo infatti il DNA ricombinante può essere facilmente conservato.

I batteri sono un ottimo organismo modello in questo senso perchè crescono

normalmente a 37°C, quelli usati in laboratorio sono GM per cui non sono più

patogeni e possono essere congelati a -80°C (soluzione di batteri transgenici

+ glicerolo). Il DNA da solo può essere conservato a -20°C, ma per poco

tempo. La conservazione del plasmide può essere fatta anche in cellule di

mammifero conservate in azoto liquido.

I vettori plasmidici vengono dotatati di marcatori genetici, in modo da

selezionare – dopo che il plasmide è stato introdotto – quali cellule lo hanno

inglobato:

- geni che portano la resistenza verso qualcosa (permettono la selezione

delle cellule che hanno acquisito il plasmide),

- geni reporter, collocati nella stessa regione in cui si trova il gene

d’interesse (permettono di capire se il gene acquisito dall’organismo

transgenico è funzionante o meno).

La procedura avviene in questo modo: si costruisce un vettore plasmidico che

abbia due geni marcatori, ad es. uno che porta la resistenza all’ampicillina e

un gene reporter che può essere ad es. il gene lac Z, che codifica per la

betagalattosidasi. In laboratorio è infatti possibile costruire un substrato

artificiale (X-gal) per la betagalattosidasi, che quando viene idrolizzato dà

una colorazione blu a tutto ciò che lo circonda. Si induce a questo punto la

trasformazione batterica, dopodiché si opera una prima selezione facendo

crescere i batteri in un terreno ricco di ampicillina: sopravviveranno solo quelli

che hanno trasformato, inglobando il vettore. Però è necessario fare un

secondo screening perchè tra i batteri che hanno acquisito il plasmide

potrebbero essercene alcuni in cui il gene esogeno non è più funzionante. A

questo serve il gene reporter lac Z: essendo inserito nella regione in cui deve

essere posto il gene d’interesse, esso nei batteri che hanno acquisito

correttamente il plasmide, deve non essere funzionante. Infatti, quando si

inserisce il DNA d’interesse, esso viene posto all’interno della sequenza di

nucleotidi del gene che codifica per la betagalattosidasi, che in questo modo

si interrompe, disattivando il gene. Quindi le colonie di batteri transgenici che

contengono il plasmide funzionante sono quelle che resistono all’amplicillina

e devono essere bianche (non in grado di metabolizzare X-gal). Per avere

un’ulteriore conferma del funzionamento corretto del costrutto all’interno di

questi batteri, si riestrae il plasmide dalla cellula batterica e si sequenzia la

regione che dovrebbe contentere il gene esogeno.

I primi meccanismi di screening utilizzavano il radioattivo e non i geni

reporter: si costruiva un corto tratto di DNA marcato con fosforo 32 (sonda),

che doveva essere complementare ad una porzione del gene d’interesse. I

batteri venivano trasformati e selezionati per l’ampicillina. Quando le colonie

erano piuttosto numerose, si prendeva un foglio di carta e si poneva sopra la

piastra in modo da avere una “fotocopia” delle colonie batteriche. Le cellule

venivano poi uccise e il DNA denaturato fissato al foglio, in specie uno dei

due filamenti. L’impronta molecolare veniva poi posta in una soluzione

contenente la sonda radioattiva con la quale si ibridava. Il foglio veniva poi

posto su una lastra autoradiografica che veniva impressionata tramite la

radioattività: nei punti in cui il gene si era ibridato con la sonda apparivano

delle macchiette (“spot”). Tutti questi processi erano orientati in modo da

sapere sempre a cosa corrispondeva la posizione di ciascuno spot sulla

piastra, potendo così risalire alla colonia batterica (conservata in frigo a 4°C).

Oltre ai vettori plasmidici, sono stati sintetizzati altri tipi di vettori, ad es i

cromosomi artificiali del lievito (eucariote unicellulare).

Tramite la clonazione genica si possono effettuare clonazioni di interi

patrimoni genetici (da studiare dal pdv genetico) che vengono conservati e

definiti librerie genomiche o genoteche. La libreria è costituita da

moltissime cellule batteriche transgeniche, ciascuna contenente un singolo

gene (non viene prodotta in laboratorio, ma acquistata da ditte). Esse

vengono create tramite la tecnologia del DNA ricombinante: si estrae il

materiale genetico da una cellula d’interesse, di cui si vogliono conservare i

geni; si “digerisce” tutto il DNA genomico con enzimi di restrizione e lo si fa

ibridare con plasmidi opportuni. A questo punto si induce la trasformazione

batterica, dopo aver posto il plasmide nel terreno liquido di crescita dei

batteri. Si prende poi una parte di questo terreno liquido e lo si trasferisce su

terreno solido in modo che le cellule si fermino in un punto preciso e inizino a

riprodursi formando colonie. Le colonie così ottenute vengono nuovamente

poste in terreno liquido e congelate. I batteri possono essere conservati

anche liofilizzandoli (20-30 anni).

Le librerie genomiche venivano inizialmente create in questo modo; ci si è poi

resi conto che era piu conveniente partire non dal DNA ma dal mRNA,

perchè privo di introni, costruendo una copia di DNA complementare al

messaggero. Per costruire questo DNA complmentare, si introduce il

messaggero in una provetta contenente trascrittasi inversa, che sintetizza un

filamento di cDNA privo di introni. La DNA polimerasi rende il cDNA a doppio

filamento, che poi sarà fatto ibridare con un plasmide.

Un altro metodo per amplificare un gene d’interesse è la reazione a catena

della polimerasi (PCR) scoperta nel 1983. Questa tecnica permette di

ottenere moltissime copie di un gene in poco tempo lavorando in provetta,

perchè permette di riprodurre in vitro l’attività della DNA polimerasi però a

catena, a cicli.

In provetta si inseriscono il DNA d’interesse, un primer complementare al

DNA, DNA polimerasi e i desossiribonucleotidi necessari per la formazione

del DNA complementare. Si aumenta la temperatura fino a 90°C per

denaturare il DNA, poi si riabbassa fino a raggiungere quella ideale per avere

l’appaiamento del primer con il singolo filamento (la temperatura ideale viene

calcolata tramite una formula matematica che tiene conto della sequenza

nucleotidica, della lunghezza del filamento, della quantità di C e G). Dopo che

l’appaiamento è avvenuto si rialza la temperatura fino a 70°C per permettere

alla DNA polimerasi di iniziare la polimerizzazione. La temperatura è così alta

perchè si usa la DNA polimerasi di un batterio termofilo (l’unica che resiste

alla denaturazione a 90°C). Inoltre, la procedura viene ripetuta a cicli (20)

quindi si ha una continua oscillazione della temperatura. La PCR di solito

avviene in 2 ore. Si utilizzano i termociclatori in cui si inseriscono le provette

contenenti tutti gli elementi necessari, si impostano le temperature e il

numero dei cicli. Infine è necessario purificare le copie di DNA ottenute

dall’enzima, dai primer e dai desossiribonucleotidi in eccesso. Per controllare

che le copie del DNA d’interesse siano state copiate correttamente, se ne

preleva una parte e la si sequenzia per controllare che non ci siano

mutazioni.

Per amplificare un gene d’interesse può essere utilizzata la PCR al posto

della clonazione genica, ma i plasmidi sono comunque necessari quando si

vuole inserire nell’organismo ospite un gene d’interesse per farlo esprimere e

fargli produrre una proteina. I vettori usati con questo scopo sono detti vettori

di espressione.

Per far esprimere la proteina è necessario che nella regione in cui si inserisce

il gene d’interesse sia presente il promotore del batterio, in modo che la RNA

polimerasi vi si leghi e possa iniziare la trascrizione del gene. Questa tecnica

– creare organismi transgenici per produrre sostanze d’interesse –

inizialmente era usata solo sui batteri, ma successivamente è stata applicata

a molti altri organismi.

La tecnologia del DNA ricombinante ha anche permesso di creare batteri con

nuove proprietà geniche: ad es. si è reso più efficiente il metabolismo dei

batteri che utilizzano come fonte di energia gli idrocarburi per bonificare le

acque inquinate dal petrolio.

In seguito ci si è resi conto che era necessario passari ad altri tipi organismi

per ottenere con facilità proteine che necessitano di modificazioni post-

traduzionali (lievito).

Sostanze ottenute con la tecnologia del DNA ricombinante:

- attivatore tissutale del plasminogeno: uno dei primi farmaci prodotto con

la tecnologia del DNA ricombinante (usato per la terapia su persone colpite

da infarti e ictus per evitare la formazione di coaguli). Si utilizza la tecnica

della costruzione del cDNA senza introni a partire da mRNA. Si inserisce il

DNA così ottenuto nel vettore d’espressione che viene fatto inglobare da E.

Coli, che lo riconosce perchè messo sotto il controllo di un promotore

batterico. La RNA polimerasi batterica trascrive la proteina, che viene poi

estratta, purificata, testata e immessa in commercio,

- insulina: prodotta fin dal 1982 utilizzando E. Coli (prima si estraeva dai

tessuti animali). Oggi al posto del batterio si utilizza il lievito Pichia pastoris,

che è in gardo di fare le modifiche post-traduzionali. L’insulina infatti è

costituita da 2 catene polipeptidiche unite da ponti disolfuro, ma viene

tradotta inizialmente a livello del RER da un unico messaggero come

un’unica proteina e poi modificata dal Golgi.

Prima si inserivano in due plasmidi diversi le sequenze nucleotidiche

corrispondenti al peptide A e al peptide B della proteina matura e, una volta

estratte da E. Coli, si inducevano le successive modif

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A.A. 2017-2018
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SSD Scienze biologiche BIO/19 Microbiologia generale

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher camo.milla di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Biologia e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Firenze o del prof Modesti Alessandra.