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MIRATO.

La disabilità può essere considerata fisica, psichica o sensoriale con riduzione della capacità

lavorativa al di sopra del 45% (soglia al di sotto della quale non si viene considerati

“disabili”). Si aggiungono, poi, alla categoria gli invalidi del lavoro (con riduzione delle capacità al

di sopra del 33%) e gli invalidi civili (cechi e sordomuti). La disciplina si applica a tutti i datori di

lavoro le cui imprese hanno più di 15 dipendenti: da 15 a 35 dipendenti, 1 lavoratore disabile; da 36

a 50, 2 lavoratori disabili; al di sopra dei 50, il 7% dell’occupazione deve essere costituito da

personale disabile.

Il sistema ordinario di collocamento di fatto non c’è più perché, come si è visto, l’incontro tra

domanda ed offerta di lavoro si realizza oggi nei modi più svariati: banche dati online,

colloqui diretti, annunci sui giornali, ecc..

Per i disabili resta, invece, il collocamento mirato, ossia un sistema che si occupa dell’inserimento

di essi nel mondo del lavoro.

Nell’ambito dell’occupazione di persone disabili, vigono due principi fondamentali: quello

della parità di trattamento e quello dell’adeguatezza del lavoro prestato alle competenze e al

grado di disabilità dell’interessato. E’ necessario, quindi, trovare delle soluzioni ragionevoli per

contemperare gli interessi del datore di lavoro con i limiti della persona disabile. Per tale motivo, si

crea una fitta rete di deroghe al collocamento mirato per alcune imprese che non sono in grado, a

cause delle particolari strutture e delle particolari mansioni, di assumere personale disabile (un

esempio è quello delle imprese per la lavorazione del marmo). Vi è, poi, una serie di convenzioni

per fare in modo che l’inserimento dei disabili all’interno dell’ambito lavorativo, avvenga in modo

dilazionato/graduale. A questi meccanismi sono, poi, legati diversi incentivi ed è stata introdotta la

possibilità di compensazione a partire dal 2003. Con il D.Lgs.n°276/2003, si è previsto in

particolare che l’obbligo di assunzione possa essere compensato con il versamento di un

contributo nel fondo regionale per ciascun disabile non assunto. Il meccanismo della

compensazione è stato abolito negli anni successivi al 2003, ma reintrodotto poi nel 2008 con

una forma più articolata: il datore di lavoro può dare commesse di lavoro alle cooperative

sociali (lavoratori disabili e lavoratori normodotati), all’interno delle quali si realizza

l’inserimento dei disabili. Il datore di lavoro, quindi, può non assumere direttamente il

disabile ma, per equivalente all’assunzione, effettua una serie di commissioni alle cooperazioni

sociali in cui viene inserito il disabile stesso.

Altra eccezione riguarda, invece, l’impiego pubblico il cui accesso avviene, secondo l’art.97 della

Costituzione, tramite concorso. Dunque, la disciplina di collocamento del lavoro pubblico e quella

del lavoro privato, per quanto molto simili in alcuni aspetti, sono per altri profondamente diverse.

Un esempio è legato alla previsione di diverse tipologie di sanzioni. Il datore di lavoro privato,

infatti, è sottoposto in caso di abuso di posizione alla sanzione di conversione del contratto di lavoro

da tempo determinato a tempo indeterminato. Si tratta di un meccanismo che non può essere

adoperato anche nell’ambito del lavoro pubblico perché si andrebbe ad aggirare la disposizione

costituzionale.

Vi è, poi, una tendenza alla parità di trattamento di cittadini europei e italiani per quanto riguarda

l’accesso al pubblico impiego e, quindi, alle pubbliche funzioni ad esclusione della fascia alta

apicale.

Diversa, invece, è la situazione quando si tratta di cittadini provenienti da Paesi terzi rispetto all’Ue.

La prima legge, in merito al collocamento di stranieri in ambito del lavoro, è del 30 Dicembre

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A cura di Simone Ventriglia

1986 n°943. Prima di tale data, l’Italia non aveva mai conosciuto particolari flussi migratori nel

proprio territorio se non quelli dei propri abitanti verso altre terre. La disciplina italiana del ’90,

così come quella degli anni successivi, è sempre stata di tipo sanatorio ossia volta alla

regolarizzazione degli immigrati clandestini. Uno dei primi punti è la programmazione dei flussi

migratori, per cui annualmente sono stabilite quote massime di stranieri ammissibili a cui far

svolgere lavoro subordinato (anche stagionale) o autonomo. E’ previsto un controllo pubblico,

incardinato a livello del Ministero degli Interni più che di Ministero del Lavoro, e l’incontro tra

domanda e l’offerta di lavoro si realizza quando l’aspirante lavoratore si trovi ancora nel Paese di

provenienza.

Nel 2002 si era cercato di trovare un valido correttivo: erano stati creati due canali, uno dei quali si

basava sulla predisposizione di una figura-sponsor che facesse da garante all’aspirante lavoratore.

Per quanto riguarda la disciplina vigente, il datore di lavoro, che voglia instaurare un

rapporto di lavoro con un cittadino straniero ancora residente nel Paese di provenienza, deve

rivolgersi allo Sportello Unico Immigrazione presso la prefettura (Ministero degli Interni) con

richiesta, anche nominativa se conosce la persona, di nulla osta al lavoro. Su questa fase è

intervenuta una legislazione recente, la L.n°99/2013: nel momento in cui il datore richiede il

nulla osta, l’ufficio deve fare una verifica presso il centro per l’impiego competente

dell’indisponibilità di un lavoratore presente sul territorio italiano (la novità introdotta nel

2013, rispetto agli anni precedenti, è che il controllo avvenga indifferentemente

sull’indisponibilità generica di un cittadino che sia italiano, europeo o straniero). L’ufficio

dovrà rispondere entro 40 giorni. A questo punto lo sportello unico, nel rispetto delle quote

massime prefissate dalla programmazione degli accessi, provvede al rilascio del nulla osta,

previa conformità delle condizioni di lavoro offerte al lavoratore rispetto al c.c.n.l.

(indipendentemente dall’iscrizione al sindacato). Il datore di lavoro deve, poi, fare una

proposta di contratto di soggiorno che accompagna la richiesta di nulla osta, che comprende il

suo impegno al pagamento delle spese di ritorno dello straniero nel Paese di origine, se si

verifica, e della sistemazione alloggiativa che deve essere idonea e sufficiente. Il lavoratore,

per parte sua, deve essere munito del visto del consolato italiano di quel Paese. A questo

punto, entro 8 giorni dall’ingresso dello straniero, il contratto deve essere stipulato presso lo

Sportello Unico Immigrazione e nel contempo viene lasciato il permesso di soggiorno per

motivo di lavoro.

Questa complessità è anche una delle ragioni per cui gli ingressi avvengono solo mediante atti di

sanatoria. L’ultimo dei quali è arrivato sulla scia di una direttiva europea, la n°52/2009 recepita nel

D.Lgs.n°109/2012. La direttiva si occupa della previsione di sanzioni per i datori di lavoro che

impiegano cittadini di Paesi terzi quando il soggiorno è irregolare. Manca, quindi, una disciplina

che indichi come realizzare l’immigrazione regolare. La Direttiva sanzioni si colloca, soltanto,

nell’ambito della lotta alla clandestinità e, laddove lo straniero perda il soggiorno, all’irregolarità,

ma in modo indiretto perché prevede delle sanzioni per il datore di lavoro e quindi disincentiva le

assunzioni.

La programmazione dei flussi migratori, di cui si è parlato poc’anzi, salta nei casi di

ricongiungimento familiare (diritto dello straniero a portare i suoi familiari presso il territorio

in cui lavora), ossia quando il lavoratore sia regolarmente insediato nel territorio, abbia un

valido contratto di lavoro ed un alloggio idoneo e sufficiente.

Altra disciplina di recente recepimento è quella del D.Lgs.n°108/2012, frutto della D.n°50/2009: si

tratta delle disposizioni sulle condizioni di ingresso e di soggiorno per i cittadini provenienti da

Paesi terzi che svolgono lavori altamente qualificati; su esempio della Green Card statunitense

(Blue Card dell’Ue). In questi casi, la regolarizzazione dell’immigrazione è amministrativamente

meno onerosa e sottoposta a regole meno rigide. L’idea più recente sarebbe quella di creare le

condizioni di una mobilità circolare, vale a dire una maggior fluidità per consentire alla singola

persona di muoversi liberamente andando oltre il permesso di soggiorno (da rinnovare

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periodicamente) e la carta di soggiorno (concessa soltanto dopo 5 anni di regolare permesso di

soggiorno).

Altro tema è quello del collocamento di lavoratori italiani all’estero, ad esempio per la

realizzazione di grandi opere. Si tratta di una disciplina limitata a quella che è la componente

essenziale che non può essere decisa con il contratto di lavoro, ossia la parte previdenziale.

Normalmente, questi soggetti-lavoratori costituiscono una parte contrattuale forte che non necessita

di particolare protezione, se non nella parte previdenziale che resterebbe scoperta. Ecco, allora, la

necessità di emanare una legge che ribadisca l’applicazione delle medesime condizioni

previdenziali nazionali al lavoratore, anche al di fuori del territorio italiano.

3. La stipulazione del contratto di lavoro.

In passato, si è discusso a lungo a riguardo della forma contrattuale del rapporto di lavoro. Vi erano

principalmente due concezioni contrapposte: quella contrattualistica e quella acontrattualistica. La

prima prevedeva la necessità di un contratto alla base del rapporto; la seconda, invece, faceva

riferimento all’impresa vista come una comunità, all’interno della quale si inseriva il lavoratore

come membro. Oggi, senza alcun dubbio, la tesi maggioritaria è a sostegno del contratto di

lavoro come strumento per la gestione del rapporto.

Altro punto su cui bisogna, invece, prestare attenzione è quello della prestazione lavorativa di fatto.

Vi possono essere dei casi in cui l’attività lavorativa viene prestata di fatto e, anche se avviene

in violazione di legge, il principio di favore nei confronti del lavoratore deroga quello generale

(fondato sulla violazione di legge) e comporta la stipulazione di un contratto di lavoro.

Altra questione riguarda, poi, l’acquisizione della capacità giuridica e della capacità d’agire in

ambito di diritto del lavoro. In questo contesto, infatti, c’è una tendenza a far coincidere il

momento in cui si acquisisce la capacità giuridica a quello in cui si ottiene la capacità d’agire,

soprattutto nel caso del minore-lavoratore. Il problema principale è, quindi, quello della previsio

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A.A. 2014-2015
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SSD Scienze giuridiche IUS/07 Diritto del lavoro

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher SimoneVentriglia di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Diritto del lavoro e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Verona o del prof Gottardi Maria Donata.