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U.
L'abbandono della prospettiva pragmatico-trascendentale di Apel conduce la strategia fondazionale
di Habermas sui binari del Wittgenstein di Della certezza, in questa opera tarda Wittgenstein
sviluppa un'analisi del concetto di "dubbio", concludendo che ogni dubbio formulato
linguisticamente riposa su un fondamento di certezza: tale certezza è relativa almeno al significato
dei termini e agli stati di fatto empirici per mezzo dei quali abbiamo originariamente appreso tale
significato (per esempio, se, guardando la mia mano, dubitassi che essa è la mia mano,
probabilmente non conoscerei il significato della parola "mano"). Ma ciò non significa che questi
giudizi empirici ("questa è la mia mano") siano verità universali o fondate in modo ultimo, significa
soltanto che i nostri giochi linguistici non prevedono la possibilità del dubbio su di essi; ed è questa
impossibilità contingente di un dubbio sensato il massimo grado di fondazione morale che anche
Habermas reclama per le sue regole del discorso.
Iris Murdoch: il realismo come conquista individuale di Carla Bagnoli
Murdoch critica i suoi contemporanei per aver ridotto l'etica allo studio del linguaggio ordinario e
del comportamento e per aver quindi dimenticato lo scopo principale della teoria etica, ossia, la
proposta di un ideale morale decente e psicologicamente sostenibile. Questa critica muove da una
concezione molto peculiare del linguaggio e dei concetti che distingue la posizione di Murdoch sia
dal realismo morale, sia dall'antirealismo. Al centro della sua riflessione vi è il tentativo di difendere
l'oggettività della morale come una conquista individuale, anziché come una scoperta.
La visione come metafora della vita mentale
Murdoch recupera da Moore l'idea che abbia senso parlare di verità morali e di conoscenza pratica,
e che la contemplazione e la visione siano forme di attività morale autonome dall'azione e non
subordinate alle operazioni del volere. Per evitare compromissioni metafisiche i non cognitivisti
riducono le asserzioni morali a prescrizioni o regole che guidano la scelta oppure a proposizioni che
evocano un'emozione e servono a persuadere l'interlocutore.
L'attività morale viene così ridotta alla sfera dell'agire pubblicamente osservabile. Dell'azione si
parla in termini di scelta e di movimento. Questa concezione comportamentista dell'attività morale
determina così la "scomparsa della mente" dai dibattiti di filosofia morale, con il conseguente
isolamento della morale non solo dalla metafisica, ma anche dalla psicologia e dalla filosofia della
mente. L'agente morale si presenta come essere razionale e responsabile, oltre che libero, capace di
muoversi senza impedimenti in un insieme di fatti e di alterare a volontà il contenuto descrittivo del
suo lessico morale. Libertà ridotta alla opportunità di scelta; siamo liberi di agire nello stesso senso
in cui si è liberi di muoversi. La motivazione morale è una semplice preferenza. Lo scopo della
teoria etica è quella di istruirci su come meglio operare le scelte.
A questa concezione comportamentista dell'attività morale e della genesi del valore sfuggono, però,
fenomeni morali importanti, che costituiscono il cardine dell'esperienza della moralità: storie
private, immagini, monologhi interiori, ovvero «attività che costituiscono ciò che una persona "è"».
È proprio allo scopo di recuperare la centralità della mente all'attenzione filosofica che Murdoch
propone di utilizzare la metafora intuizionista della visione. L'attività morale per eccellenza è la
contemplazione, la deliberazione, la narrazione di sé. L'azione è moralmente rilevante per il suo
vissuto specifico individuale, non per il suo aspetto esterno, esecutivo, pubblicamente osservabile.
La filosofia morale deve esplorare la fitta trama di pensieri e azioni che costituisce la vita interiore
dell'agente morale.
Per il non cognitivista, il pensiero morale è logicamente indipendente dalle descrizioni perché i
concetti etici non sono ancorati descrittivamente. Tali concetti possono fissarsi su qualsiasi
descrizione e applicarsi a qualsiasi settore della realtà; ciò significa che non vi sono limiti logici a
ciò che può essere chiamato buono. Per la stessa ragione, essi possono essere adoperati da chiunque
con lo stesso identico significato. Lo schema di analisi del non cognitivismo prevede che tali
concetti possono scomporsi in elementi cognitivi e conativi-espressivi. Mentre l'elemento
conativo-espressivo rimane costante, quello cognitivo, che è il veicolo della descrizione, varia
secondo il dominio di applicazione. Per essere in grado di usare i concetti etici in modo appropriato
è sufficiente sapere le regole generali che governano i loro elementi cognitivi e isolarne l'aspetto
1
conativo o espressivo.
Conseguentemente, il disaccordo morale viene analizzato come un disaccordo di atteggiamenti che
riguardano fatti pubblicamente accessibili e specificabili in modo del tutto neutrale. È quindi la
volontà, intesa come capacità di produrre modificazioni dell'arredo ontologico del mondo,
movimenti, appunto, che introduce il valore in un mondo altrimenti neutrale così come incolore e
inodore, estraneo al trascendente tanto quanto al soggettivo. Da questo punto di vista, il non
cognitivista è colpevole di un incauto ottimismo riguardo alla possibilità di risolvere il conflitto
morale. Ma soprattutto si dimostra incapace di comprendere adeguatamente la profondità e la
radicalità del disaccordo morale, e ciò perché fraintende in modo grossolano l'attività in cui è
impegnato l'agente morale.
La domanda che si pone un agente morale non è "Che fare in una situazione del genere?". Questa
domanda arriva, per così dire, sempre troppo tardi. Ma soprattutto, in casi importanti di riflessione
morale, il concetto di "situazione" è inutilizzabile. In tali casi, infatti, l'agente è impegnato in un tipo
di ragionamento interiore che riguarda il suo essere, piuttosto che il suo agire, e cioè atteggiamenti e
stati mentali che non possono essere temporalmente separabili. Casi del genere sono i più frequenti
e i più interessanti, e quindi non avere gli strumenti adatti per trattarli rappresenta un costo notevole
per una teoria etica. Una teoria etica che rinuncia a parlare della riflessione morale se non quando
questa si traduce in azione e porta a un risultato, rinuncia anche a intendere adeguatamente in che
cosa consista l'oggettività in etica.
2. La metafora del riorientamento e il cambiamento morale
L'esplorazione della mente è perciò il primo passo verso una concezione adeguata del ruolo
dell'oggettività in etica. Siamo dotati di menti autoriflessive; la riflessività ci distingue dagli altri
animali. In virtù di questa caratteristica della nostra mente siamo capaci di creare delle immagini di
noi stessi e la nostra vita pratica può essere descritta come un tentativo di somigliare alle immagini
che abbiamo di noi stessi. La condizione di possibilità del nostro agire è, cioè, una certa
rappresentazione che abbiamo di noi stessi; è questo ideale che ci guida nell'azione. Ci giudichiamo
sulla base di un ideale, ma soprattutto pensiamo a noi stessi come capaci di realizzarlo. La nostra
riflessione non ha di mira l'azione intesa come esecuzione di un atto, produzione di un movimento,
ma la realizzazione di un ideale. Perché questa riflessione abbia senso occorre che ci pensiamo
capaci di cambiamento, e quindi capaci di progresso (e di fallimento). La capacità di cambiamento è
cruciale non solo per mettere a fuoco in che senso il nostro agire differisca da quello animale, ma
anche per stabilire quali sono i criteri di oggettività in etica. Per illustrare questa caratteristica
fondamentale della nostra mente, Murdoch adopera esempi piuttosto ordinari di riflessione che
testimoniano del ruolo specifico dell'oggettività in etica. In un primo esempio l'agente volge lo
sguardo fuori dalla finestra in uno stato d'animo ansioso e risentito, incurante di ciò che le sta
attorno, preoccupata di un danno subito. Poi osserva un falco sospeso nell'aria. «In un solo istante
tutto cambia. L'io che rimugina sulla propria vanità ferita scompare. C'è soltanto il falco». Questo è
un esempio di esperienza estetica che conta anche come cambiamento morale, un'esperienza affatto
ordinaria e accessibile, eppure comprensibile solo dalla prospettiva dell'agente. Pertiene in modo
essenziale alla mente dell'agente, e non consegue nessun altro risultato esterno, non si traduce in
un'azione osservabile dall'esterno. È un fatto privato, anche se lo si può raccontare. E non accade
perché l'agente ha adottato una regola su come comportarsi nelle situazioni in cui si è risentiti per
via di un danno subito. È un evento occasionato dalla mera contemplazione della bellezza di un
falco nel cielo. La contemplazione di qualcosa di altro oltre il proprio ego ferito ha innescato il
cambiamento morale. Sebbene sia questa un'esperienza privata e individuale, non si tratta di
un'esperienza misteriosa e ineffabile, e anzi c'è l'allusione a una tecnica, un metodo. L'importanza di
un metodo, e quindi di un ideale di moralità, emerge più chiaramente nel secondo esempio, in cui
l'agente impara una lingua straniera, ovvero una «struttura autorevole che esige il mio rispetto». Il
lavoro della studentessa che impara una lingua straniera «la porta ad uscire da se stessa, per andare
verso qualcosa che le è estraneo, qualcosa che la sua conoscenza non può dominare, inghiottire,
negare o rendere irreale». Il rispetto, l'attenzione, l'umiltà e l'onestà sono le virtù chiave di questo
esercizio spirituale. Lo scopo che si consegue è costruire un rapporto genuino con la realtà, con
l'alterità di una lingua straniera, nella fattispecie. Il rispetto per l'alterità è la virtù morale per
eccellenza, un atteggiamento a cui Murdoch conferisce il nome di amore. È una conquista difficile,
frutto non di un atto eroico della volontà, ma di uno sforzo costante di attenzione. Questo sforzo
consiste proprio in un cambiamento di postura, nel tentativo di guardare oltre i limiti del nostro ego.
Il successo di questo tipo di riflessione non è dunque una decisione o un atto di volontà, ma un
riorientamento.
Il terzo esempio rappresenta