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Il principato e il problema della successione
Nonostante gli sforzi costanti dei detentori del trono, non si riuscì mai in Roma imperiale a stabilire una successione al trono basata in maniera certa sul principio dinastico. Il fondatore del principato, Augusto, tentò inutilmente di trasmettere i suoi poteri a un erede.
Anima, né la mia vita, né i miei figli, ma di affrontare senza esitazione qualunque pericolo per proteggere ciò che loro appartiene. Se mi accorgo o se capisco che si parla, si complotta o si fa qualche cosa contro di loro, giuro di denunciarlo e di mostrarmi ostile a colui che parla, complotta o agisce di conseguenza. Se qualcuno viene considerato da loro come nemico, giuro di perseguitarlo e di punirlo in terra e in mare, con le armi e la spada. Se una soltanto delle mie azioni fosse contraria a questo giuramento o non conforme a ciò che ho promesso, io consacro me stesso, corpo e anima, la mia vita e i miei figli e tutta la mia.
stirpe e i miei beni allo sterminio e all'annientamento fino all'ultima discendenza e a quella di tutti i miei eredi. E che la terra e il mare non accolgano mai i corpi dei miei e quelli dei miei posteri e che essi non producano alcun frutto per loro...".
Il giuramento di Sestinum in Umbria (CIL XI 5998a) non è databile con precisione.
CIL II 172 = ILS190 Iusiurandum Aritiensium / Ex mei animi sententia, ut ego iis inimicus ero, quas C. Caesari Germanico inimicos esse cognovero, etsi quis periculum ei salutiq(ue) eius infert inferetque, armis bello internecivo terra mariq(ue) persequi non desinam, quoad .poenas ei persolverit, neq(ue) me
incolumitate fortunisque / omnibus faxint. Tr. it. «Giuramento degli abitanti di Arizio. Nella mia anima e in tutta coscienza, giuro di essere nemico di coloro che considererò nemici di C.Cesare Germanico. Se qualcuno mette o avrà messo in pericolo la vita di costui, non cesserò di perseguitarlo con le armi e in una guerra mortale per mare e per terra, fino al giorno in cui abbia ricevuto la sua punizione. I miei figli non mi staranno a cuore più della sua vita. Considererò miei nemici tutti coloro che avranno avuto intenzioni ostili nei suoi riguardi. Se coscientemente io avessi mancato o mancassi alla mia parola, che Giove Ottimo Massimo e che il divino Augusto e tutti gli dei immortali spoglino me e i miei figli, dellanostra patria, della vita e di tutti i nostri beni». 35 diretto; alla fine questi toccarono, più per caso che per disegno intenzionale, al suo co-reggente, il figliastro Tiberio, già in precedenza adottato.
disegno dinastico della famiglia giulio-claudia (fino a Nerone) non fu mai assicurato, poiché ogni volta vennero a mancare gli eredi diretti. La dinastia flavia non sopravvisse alla seconda generazione e Nerva dovette la sua elezione (96 d.C.) al Senato. Nel corso del secolo successivo (del II secolo) la legittimità della successione imperiale si basò unicamente sull'adozione, dal momento che i cosiddetti imperatori buoni (Nerva, Traiano, Adriano e Antonino Pio) non ebbero alcun successore diretto. Nel corso del III secolo, a cominciare dai Severi (193 d.C.), il principio dinastico funzionò solo sporadicamente; in ogni caso fu legalizzato attraverso l'adozione e spesso rafforzato con il matrimonio dell'erede presuntivo all'interno della famiglia imperiale. Nel corso dell'intero principato l'adozione fu riconosciuta, dunque, come lo strumento più adeguato per garantire la successione imperiale. In quest'ultimo secolo si.È formata una estesa letteratura sulla questione se la successione imperiale sia stata regolata dal principio dinastico oppure dalla adozione. Dal punto di vista giuridico-costituzionale, questo problema suscita interesse se si guarda al fenomeno dellacooptazione. Linguisticamente, sin dal tempo di Cicerone, adoptare e cooptare erano usati come sinonimi. Tra i due concetti vi era una corrispondenza non solo linguistica, ma reale. Il detentore del potere imperiale sceglieva (‘eleggeva’) il suo successore con un procedimento inter vivos. Spesso – e in questo modo la coincidenza tra adozione e cooptazione diventava piena – il successore presuntivo diventava co-reggente del vecchio imperatore con il titolo di Caesar, preparandosi in tal modo alla successiva assunzione delle funzioni imperiali. La co-reggenza e la condivisione della carica imperiale non presupponevano un esercizio congiunto del potere, ma di regola piuttosto una ripartizione, dettata da esigenze pratiche,
delle competenze funzionali e regionali.
VII I TL ARDOANTICOL . . III (235 – 284 .C.).- A CRISI DEL PRINCIPATO E LA C D ANARCHIA MILITARE DEL SECOLO DL GE RIFORME DI ALLIENOVerso la metà del III secolo d.C. l’Impero versava nella crisi più grave che avesse maidovuto affrontare. In larga misura essa era stata determinata dagli spostamenti di popoliche avvenivano nel profondo delle regioni euro-asiatiche. Intorno al 200 d.C., gli unni distirpe turco-mongolica, nella loro marcia verso occidente, avevano raggiunto la zona tra ilMar Caspio, l’Ob, il Volga e le montagne che limitavano l’altipiano iranico. Il contraccolpo,da ovest a est, mise in movimento i germani orientali, in particolare i Goti. Un altropericoloso avversario dell’Impero sorse in Oriente, ove si affermò il regno neopersiano deiSassanidi, i quali, a differenza dei Parti, nel proclamarsi eredi dell’antico imperouniversale degli Achemenidi, distrutto dalle conquiste di
Alessandro Magno (334 – 327a.C.), non nascondevano le loro pretese egemoniche sull’intero Oriente romano (la Siria,L’Egitto e l’Anatolia). La resistenza delle legioni non riuscì a contenere la pressione su tuttii confini. Il limes fu ripetutamente sfondato in più punti. L’imperatore Decio cadde inbattaglia contro i Goti sul corso inferiore del Danubio (251 d.C.). Valeriano fu fattoprigioniero a Edessa (in alta Mesopotamia) dai Persiani (260 d.C.). Nonostante la caoticasituazione militare, anzi anche in ragione di questa, l’esercitò finì per diventare l’unicaorganizzazione capace di garantire sicurezza a chi non trovava più una risposta ai propriproblemi nel sistema politico e sociale dell’Impero. L’esercito imperiale si presentava dasempre come una somma di centri di potere che godevano d’ampia autonomia. Tuttavia lapresenza d’una forte autorità politica centrale aveva impedito,
Per più di due secoli, il continuo ripetersi di conflitti e crisi istituzionali. Con il declino del controllo esercitato dal potere centrale, le legioni conquistarono ampi spazi d'autonomia, contrapponendosi le une alle altre. L'antico e consueto meccanismo dell'acclamazione imperatoria fu usato impropriamente per nominare imperatori spesso legittimati dal gradimento d'una o, al più, di poche legioni. La conseguenza fu l'aprirsi d'una crisi politico-militare gravissima: per molti anni gli imperatori si susseguirono l'uno all'altro. Sovente vi furono più imperatori contemporaneamente, ciascuno dei quali considerava gli altri usurpatori. La quasi totalità dei personaggi, che si disputarono il potere nei cinquant'anni compresi tra il 235 e il 284 d.C., era, in effetti, costituito da comandanti militari. È stato acutamente osservato dal Montesquieu che il regime dell'impero, durante la c. d. fase
dell'anarchia militare (235-284 d.C.), potrebbe qualificarsi come una specie di repubblica irregolare, dove la qualifica irregolare vuol significare l'assenza di un ordinamento organizzato in vere e proprie istituzioni. Chi consideri, infatti, i due poli attraverso i quali passa la tensione del potere politico, l'esercito (il popolo romano in armi) e l'imperatore, e abbia presenti i frequenti contatti del capo con i gregari, relativi ai vari problemi di governo che questi suole risolvere facendo appello alle assemblee dei militi, non può fare a meno di riconoscere in siffatti rapporti la continuazione di quelli, regolati dalle raffinate istituzioni cittadine, che passavano tra il magistrato e il popolo. Tale riflessione, tuttavia, ci conduce a riconoscere un altro aspetto caratteristico dell'ambiente storico che stiamo analizzando. L'impero del III secolo appare una rozza forma di democrazia militare a chi si ponga dal punto di vista dei.rapporti fra imperatore e soldati; al contrario, osservato dal versante della popolazione cittadina e del Senato, esso viene configurandosi, per il fatto stesso dellaloro esclusione dall'esercizio del potere, quale regime di tipo autocratico. Il momento di passaggio dal principato all'impero tardoantico può cogliersi, sostanzialmente, in tre eventi decisivi: 1. Emarginazione politica del Senato, ancora influente e decisivo al tempo della rivolta contro Massimino il Trace (238 d.C.), e dei senatori, in conseguenza delle riforme di Gallieno. L'esclusione dei senatori (databile attorno al 261-62 d.C.) dai comandi militari rompe quell'involucro istituzionale, nel quale il Mommsen ha riconosciuto un aspetto fondamentale della costituzione diarchica del principato. 2. Le ragioni che indussero Gallieno, membro della più alta aristocrazia senatoria, a un'iniziativa tanto drastica paiono ovvie: di fronte a un pericolo mortale, l'Impero non potevapermettersi il lusso di lasciare ai posti di comando degli ignoranti di cose militari (i quali, per di più, costituivano una minaccia come potenziali usurpatori). I senatori, in tal modo, furono quasi completamente rimossi dal governo delle province, fino a quel momento, loro monopolio, a parte alcune eccezioni [Egitto, Mesopotamia (a partire dal principato di Settimio Severo) e altri territori – le c.d. province procuratorie – di minore importanza];
b) abolizione delle forme legali di conferimento del potere d'origine repubblicana. Aurelio Caro (282 d.C.), ascendendo al trono, dopo l'acclamazione dei soldati, non avvertì la necessità di richiedere, secondo la consuetudine costituzionale, l'approvazione del senato e la conseguente convocazione dei comitia imperii (lex de imperio). L'abrogazione, o la sottovalutazione del rilievo, di queste forme legali del conferimento dei poteri imperiali equivalse al riconoscimento
- solennedell’evoluzione assolutistica e autocratica della monarchia imperiale;
- provincializzazione dell’Italia, ovverossia sostanziale equiparazione del governo dellapenisola a quello delle province.