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Parte V – TERZO COROLLARIO DEL PRINCIPIO DI LEGALITA’: IL PRINCIPIO DI
DETERMINATEZZA E IL PRINCIPIO DI TASSATIVITA’
Sezione I: Principio di determinatezza
Premessa
Olivercrona afferma che “ogni regola giuridica si riferisce al comportamento degli uomini”. Mentre,
Pulitanò sostiene che la pratica legislativa deve ancorare la descrizione della fattispecie a “un
comportamento minimo indefettibile”, oppure a “una condotta umana obiettivamente rilevabile”.
Queste citazioni fanno comprendere che il diritto è degli uomini e per la realtà degli uomini. Le
norme giuridiche, quindi, devono riferirsi a comportamenti umani obiettivamente rilevabili, che
hanno una loro esteriorizzazione, perché le norme penali non possono colpire di per sé fatti che si
esauriscono nella sfera interiore del soggetto. Si può, dunque, dire che l’uomo è la misura del
diritto, ma è anche la misura dell’accertamento del diritto, nel senso che il diritto deve avere ad
oggetto comportamenti umani che gli uomini possono percepire obiettivamente.
Definizione
Con la formula principio di determinatezza si esprime l’esigenza che le norme penali descrivano
fatti suscettibili di essere accertati e provati nel processo. In effetti, per mettere il cittadino al riparo
dagli arbitri del giudice, non basta che la norma abbia contenuto intellegibile, ma occorre anche
che essa rispecchi una fenomenologia empirica verificabile nel corso del processo sulla base di
massime di esperienza o di leggi scientifiche. Solo a questa condizione il giudizio di conformità del
caso concreto alla previsione astratta non sarà abbandonato all’arbitrio del singolo giudice.
L’indeterminatezza della norma esprime l’impossibilità di riferire il precetto a fatti verificabili,
suscettibili di realizzazione e verifica empirica. La certezza, e quindi la legittimità del precetto
legale dipende (anche) dalla sua capacità di cogliere fatti del mondo reale, accessibili alla
conoscenza razionale e alla verifica empirica (Marinucci – Dolcini).
Giurisprudenza Costituzionale: illegittimità costituzionale art. 603 c.p. (sent. n. 96/1981)
La Corte costituzionale ha reso una chiara esemplificazione della funzione del principio di
determinatezza, con riferimento al delitto di plagio, dichiarato incostituzionale con la sentenza n.
96/1981.
L’art. 603 c.p. disponeva che chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla
in totale stato di soggezione, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni. In sostanza, il
delitto di plagio era una fattispecie che puniva il fatto che una persona esercitava un’influenza
dominante su un’altra. Questo concetto di influenza dominante era, secondo la Corte,
indeterminato perché mancava di chiarezza e di precisione ed era difficile provare che ci fosse o
non ci fosse.
L'art. 603 contrastava con l'art. 25, c. 2 Cost. perché mancava il requisito della tipicità, il quale
richiede una puntuale relazione di corrispondenza fra fattispecie astratta e fattispecie reale.
Sezione II: Principio di tassatività. Divieto di analogia
Enucleazione dei vincoli per il legislatore
Il principio di tassatività è, innanzitutto, un vincolo per il legislatore. Infatti, secondo Marinucci –
Dolcini, il principio di tassatività inibisce l’utilizzo di fattispecie ad analogia espressa, estendendo la
punizione a casi simili o analoghi a quelli espressamente indicati nel precetto, salvo il caso in cui
queste locuzioni chiudano un elenco di ipotesi omogenee che consenta di individuare un genere
sotto il quale ricondurre i casi simili o analoghi non espressamente previsti.
Definizione. Il vincolo per il giudice
Il divieto di analogia è, quanto meno a prima vista, una disposizione diretta al giudice penale.
Quest’ultimo, infatti, non deve pronunciare alcuna sentenza di condanna né stabilire alcun
aggravamento delle conseguenze giuridiche sulla base di un’applicazione logica della legge. Tale
divieto, però, si pone in relazione anche con la legge. Infatti, quanto più la legge è formulata in
modo preciso e avveduto, tanto meglio si possono rilevare e correggere eventuali violazioni del
divieto di analogia.
Divieto di analogia
Per comprendere perché il principio di tassatività implichi il divieto di analogia, è possibile fare due
esempi. Un famoso giurista tedesco, Karl Engish, traendo spunto da una norma delle XII Tavole,
ipotizza l’esistenza di una norma che vieti di introdurre in un’abitazione privata quadrupedi, per
evitare disturbi, molestie o danneggiamenti. Se tale norma fosse applicata a un animale bipede,
anch’esso in grado di arrecare disturbi, molestie o danneggiamenti, ciò sarebbe un’interpretazione
analogica.
Altro esempio è fornito dall’art. 731 c.p.: “chiunque, rivestito di autorità o incaricato della vigilanza
sopra un minore, omette, senza giusto motivo, di impartigli o di fargli impartire l’istruzione
elementare è punito con l’ammenda fino a euro 30”. La norma, che ha lo scopo di punire l’evasione
dell’obbligo scolastico, non è applicabile all’omessa frequenza della scuola media inferiore, che è
sì scuola dell’obbligo, ma non è compresa nella previsione della disposizione. Essa, infatti, è del
1930, quando l’istruzione obbligatoria si fermava alla scuola elementare. Dunque, l’evasione
dell’obbligo scolastico della scuola media non rientra nell’ambito della fattispecie, altrimenti
costituirebbe un’applicazione analogica dell’art. 731 c.p.
Dal divieto di analogia deriva, come conseguenza, la proliferazione delle fattispecie criminose,
come emerge dagli artt. 640, 640 bis, 640 ter, tutte norme riguardanti la truffa, ma in cui cambia il
destinatario di essa (rispettivamente: un privato; lo Stato, enti pubblici, istituzioni europee; un
soggetto inanimato, ossia il computer). Il legislatore ha avvertito l’esigenza di introdurre varie
norme partendo dalla disposizioni dell’art. 640, per cui “chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo
taluno in errore, procura a sé o a altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la
reclusione da 6 mesi a 3 anni e con la multa da € 51 a € 1.032.
Il problema sorge quando ci si domanda cosa si intenda per taluno. Certamente, nella nozione
non si può ricomprendere anche lo Stato, gli enti pubblici e le istituzioni europee, perché si tratta di
istituzioni e non di persone fisiche. Per tale ragione si è ritenuto che occorresse una norma
specifica. Stessa questione si è posta in riferimento alle frodi informatiche, in cui il soggetto
raggirato non è una persona ma un software. Anche in questo caso occorreva un’ulteriore
previsione per evitare un’interpretazione analogica, qualora si fosse applicato l’art. 640 alla
fattispecie.
In conclusione, il principio di tassatività implica il divieto di analogia in malam partem, il che
significa:
• reintrodurre un reato che è stato eliminato;
• punire un fatto che non è previsto dalla legge come reato;
• applicare un trattamento sanzionatorio più grave.
In questi tre ambiti, quindi, l’analogia è vietata.
Le fonti del divieto analogia in malam partem sono:
• L’art. 14 disp. prel. c.c., per cui le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole
generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati;
• L’art. 1 c.p., per cui nessuno può essere punito per un fatto che non sia
espressamente previsto come reato dalla legge;
• Gli artt. 13 (la libertà personale è inviolabile), 14 (il domicilio è inviolabile) e 15 (la
libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione
sono involabili) della Costituzione.
Sezione III: Interpretazione
Concetto e funzioni dell’interpretazione
Il tema dell’interpretazione è molto importante nel diritto in genere, e ancora di più nel diritto penale
poiché strettamente collegato al principio di legalità che nasce, storicamente, dal mito secondo cui
il giudice sia bocca della legge. Diretta conseguenza è il fatto che il giudice potesse
esclusivamente applicare la legge, ma non interpretarla.
Per interpretazione s’intende sia l’attività finalizzata a comprendere il significato dei testi normativi,
sia il risultato dell’attività interpretativa. L’interpretazione è, dunque, sia ricerca del significato
(interpretazione come processo), sia prodotto di tale ricerca (interpretazione come risultato).
Ecco, dunque, perché l’interpretazione serve a comprendere la legge e a applicare le norme.
I caratteri dell’interpretazione
L’interpretazione ha molteplici caratteri. In particolare, l’interpretazione:
• È imprescindibile (in claris fit interpretatio);
• È sempre sistematica;
• Ha le sue regole, che a loro volta devono essere interpretate, proprio perché
l’interpretazione è imprescindibile;
• Nel diritto penale, ha le sue regole e le sue specificità.
L’interpretazione è imprescindibile
Secondo Cadoppi, la legge non può contenere ogni soluzione per ogni problema. Per cui il giudice
deve integrare la portata della legge con interventi interpretativi che hanno un margine più o meno
grande di creatività.
Inoltre, per quanto un sapiente legislatore sia vincolato a rinvenire, al momento di configurare le
fattispecie incriminatrici, un accettabile punto di equilibrio tra precisione e elasticità, è un dato
inoppugnabile che la tecnica legislativa va incontro agli stessi limiti oggettivi inerenti all’uso del
linguaggio. I segni linguistici, infatti, non sempre riescono a riflettere tutte le sfaccettature dei dati
reali simboleggiati, per cui è inevitabile un certo scarto tra linguaggio e realtà.
Per l’ideale illuministico, il giudice era la bocca della legge. Tanto è vero che Montesquieu
sosteneva che «i giudici non sono altro che la bocca che pronuncia le parole della legge, degli
esseri inanimati che non possono moderarne né la forza, né il vigore». Tale ideale, tuttavia, di un
giudice ridotto a “pura bocca della legge”, per dirla con le parole di Fiandaca – Musco, non è altro
che un’illusione. Infatti, l’atto interpretativo è sempre indispensabile per scegliere, all’interno dello
spazio semantico di una data espressione linguistica, il significato più congruo alla volontà
legislativa.
Segue. In claris fit interpretatio. L’esempio del termine di