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La norma esclude la legittimazione individuale di singoli lavoratori. Anche nel caso delle c.d. condotte

plurioffensive, che ledono posizioni individuali di singoli lavoratori oltre alla libertà o attività sindacale o al

diritto di sciopero, il legislatore non ammette l’azione individuale. Il singolo lavoratore leso farà valere i suoi

diritti mediante l’azione individuale, mediante l’ordinario processo del lavoro. L’art. 28 si occupa soltanto

della tutela dell’interesse collettivo alla libertà e attività sindacale, e per questa ragione affida la

legittimazione ad agire soltanto al soggetto collettivo che si configura come portatore istituzionale di tale

interesse. Questo soggetto è l’organizzazione sindacale, ma non ogni organizzazione o formazione sindacale

è legittimata ad agire ex art. 28: la norma riserva questo diritto alle associazioni sindacali nazionali, che

agiscono tramite i loro organismi locali. Il carattere “nazionale” del sindacato va valutato dal giudice

prendendone in considerazione l’organizzazione e le finalità, oltre alla capacità di tutelare a livello nazionale

gli interessi dei lavoratori. L’azione ex art. 28 deve essere proposta dall’associazione sindacale che vi abbia

interesse. Perché si realizzi questa condizione non occorre che a tale organizzazione siano iscritti i lavoratori

che hanno subito gli effetti della condotta antisindacale, né che quel sindacato sia presente di fatto

nell’azienda in cui la condotta si è verificata. È invece sufficiente che quel sindacato sia presente con la sua

organizzazione e sia attivo nel luogo e nel settore produttivo cui appartiene l’azienda in questione.

L’azione per la repressione della condotta antisindacale va proposta al tribunale territorialmente competente.

Il giudice, nei 2 giorni successivi, convocate le parti e assunte sommarie informazioni, pronuncia un decreto

motivato. La norma prevede un procedimento sommario molto rapido e semplificato, in cui il contraddittorio

delle parti è assicurato dalla loro convocazione, che può essere effettuata con ogni mezzo idoneo a porre le

parti stesse nella effettiva possibilità di comparire davanti al giudice per potersi difendere. L’accertamento

dei fatti viene compiuto nel modo più semplice e informale, ossia con l’assunzione di sommarie informazioni

ad opera del giudice, nei modi che appaiono più opportuni.

Il procedimento si conclude con un decreto motivato, con il quale il giudice ordina al datore di lavoro la

cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti.. Il contenuto dell’ordine del giudice è

ampiamente indeterminato, e va individuato dal giudice caso per caso, in particolare per quanto riguarda ciò

che occorre per “rimuovere gli effetti” della condotta antisindacale. Rientra nella rimozione degli effetti

l’ordine di reintegrazione del lavoratore licenziato per motivi antisindacali, o la revoca di sanzioni irrogate

per tali motivi.

Il decreto è immediatamente esecutivo, e tale efficacia non può essere revocata o sospesa se non con la

sentenza che definisce il processo. Contro il decreto è ammessa, nel termine di 15 giorni, opposizione da

parte del datore di lavoro. Se essa non viene proposta il decreto diventa definitivo, e produce gli effetti di una

sentenza di condanna passata in giudicato. Se l’opposizione viene proposta si apre un procedimento di primo

grado davanti al giudice del lavoro, destinato a svolgersi secondo le regole del processo del lavoro e a dar

luogo ad una cognizione piene sull’oggetto della controversia.

11. Il procedimento in materia di parità sul luogo di lavoro. L’art. 15 della legge n. 903/1977 configura

lo strumento processuale per reagire contro le violazioni delle regole di parità. Lo schema procedimentale è

quello previsto dall’art. 28 dello Statuto, ma con qualche differenza rilevante. L’azione contro le

discriminazioni per ragioni di sesso viene concepita dal legislatore come individuale invece che come

collettiva. Di conseguenza non vi è legittimazione collettiva all’azione: legittimato ad agire è il singolo

lavoratore che lamenta la discriminazione, o il sindacato. Il sindacato non agisce però autonomamente a

tutela di un interesse collettivo, ma solo su delega del lavoratore, nel ruolo, cioè, di un rappresentante che

tutela l’interesse individuale del rappresentato. Dopo un procedimento che dovrebbe durare non più di 2

giorni, convocate le parti ed assunte sommarie informazioni, il giudice pronuncia un decreto motivato ed

immediatamente esecutivo, con il quale ordina la cessazione del comportamento denunciato e la rimozione

degli effetti. Rilevanti questioni sono sorte a proposito della “rimozione degli effetti” del comportamento

discriminatorio, in particolare quando questo si sia concretizzato nell’assunzione di un lavoratore in luogo di

una lavoratrice, e ciò sia avvenuto a seguito di una discriminazione basata sul sesso. Tutte le soluzioni

prospettate (rimozione del lavoratore e ordine di assunzione della lavoratrice; ordine di assumere la

lavoratrice oltre al lavoratore; risarcimento del danno alla lavoratrice discriminata) appaiono per varie

ragioni insoddisfacenti o non praticabili. La conseguenza è che la norma in esame è di assai difficile e poco

efficace applicazione.

Il legislatore è poi tornato sul tema della discriminazione per ragioni di sesso con la legge n. 125/1991, che

estende la tutela alle discriminazioni collettive e alle discriminazioni indirette. Quanto alla tutela

giurisdizionale, viene tenuto fermo l’art. 15 della legge n. 903/1977 con riferimento alle azioni individuali

(art. 4, u.c. della legge n. 125). Si prevede, però, nella nuova legge, che l’azione possa essere proposta dal

Consigliere di parità su delega della lavoratrice discriminata, ma con ciò si rimane pur sempre nei limiti

dell’azione individuale e del procedimento previsto dall’art. 15 della legge n. 903/1977. Viene invece

introdotta una novità in quanto, accanto all’azione individuale, si prevede una sorta di azione pubblica diretta

a tutelare l’interesse collettivo all’eliminazione delle discriminazioni basate sul sesso. Gli artt. 4 e 8 della

legge n. 125/1991 prevedono che tale azione sia proposta da un soggetto pubblico, ossia dal Consigliere di

parità istituito a livello regionale. Essa può essere promossa quando il datore di lavoro ponga in essere un

comportamento discriminatorio di carattere collettivo, anche qualora non siano individuabili in modo

immediato e diretto i soggetti lesi dalla discriminazione.

Tutto ciò che il Consigliere di parità può chiedere, e il giudice concedere, in questa situazione, è a condanna

del datore di lavoro a redigere un piano di rimozione delle discriminazioni. Non si prevede invece che il

giudice ordini anche l’attuazione di questo piano, né il ricorso a qualche strumento esecutivo che consenta di

indurre il datore a rimuovere le discriminazioni.

La condanna del datore a redigere un piano per la rimozione delle discriminazioni è cosa diversa dalla loro

effettiva rimozione: questa in realtà non viene in alcun modo assicurata dalla legge n. 125/1991, la quale non

prevede alcun rimedio concreto per eliminare le discriminazioni che vengono accertate per effetto

dell’azione pubblica.

Capitolo 4: Il procedimento sommario di cognizione

1. Il procedimento sommario di cognizione. Il procedimento sommario di cognizione, regolato dagli artt.

702-bis ss. c.p.c., costituisce una novità assoluta nel nostro ordinamento. Le fasi introduttive del giudizio non

sono molto diverse da quelle proprie del procedimento a cognizione piena, ma l’istruttoria assume caratteri

particolari, che consistono essenzialmente nella deformalizzazione e nella rapidità con la quale le prove

vengono assunte od acquisite al processo. Mentre nel processo a cognizione piena l’istruttoria risponde a

regole dettate dal c.p.c., agli artt. 175 ss. per il processo ordinario e agli artt. 420 ss. per le controversie di

lavoro, nel modello sommario sono ammissibili prove atipiche ed anche prove tipiche ma che possono essere

assunte anche in modo difforme da quanto è previsto espressamente dalle disposizioni sopra indicate e in

questa prospettiva la dottrina fa riferimento ad una generalizzata semplificazione delle forme, per agevolare

le parti anche nel modo di formulare le proprie richieste istruttorie. L’istruzione sommaria è fondata

essenzialmente su prove documentali precostituite e di rapida acquisizione.

Un’altra particolare caratteristica del procedimento sommario è quella di potersi concludere con una

ordinanza decisoria, che può acquisire efficacia di giudicato. Gli effetti dell’ordinanza possono essere di

condanna, ma anche di mero accertamento o costitutivi; il provvedimento costituisce titolo esecutivo e titolo

per iscrivere ipoteca giudiziale, ma anche gli effetti di accertamento e costitutivi si producono

immediatamente e, dunque, l’ordinanza è dotata degli stessi effetti della sentenza.

L’art. 54 della legge n. 69/2009 attribuisce al Governo la delega per la riduzione e semplificazione dei

procedimenti civili: i futuri modelli processuali dovrebbero quindi ridursi a tre tipi:

a) quelli in cui sono prevalenti caratteri di concentrazione processuale ovvero di “ufficiosità

dell’istruzione” e che dovrebbero essere ricondotti alla disciplina propria delle controversie

di lavoro;

b) i procedimenti in cui sono prevalenti caratteri della semplificazione della trattazione e

dell’istruzione della causa, che sarebbero dunque da ricondursi invece al procedimento

sommario di cui si sta trattando;

c) infine, tutti gli altri procedimenti dovrebbero ricondursi al modello – residuale – del

processo ordinario a cognizione piena, riproducendone la stessa disciplina.

Il futuro intento del legislatore è dunque quello di imporre il processo sommario come modello obbligatorio

in tutte le cause che debbono essere trattate con carattere di semplificazione, cause in cui il tribunale giudichi

in composizione monocratica. Ad oggi l’alternativa tra processo ordinario di cognizione davanti al tribunale,

disciplinato dagli artt. 163 ss., e procedimento sommario regolato dagli artt. 702-bis ss., è meramente

facoltativa, secondo una scelta della parte attrice e secondo la decisione non modificabile né impugnabile del

giudice cui è affidata la causa, il quale può far luogo all’istruzione sommaria e decidere la causa stessa

ovvero, se ritenga che la controversia non possa essere decisa se non con un’istruzione “non sommaria” , e

quindi secondo le forme imposte dal c.p.c. per i processi a cognizione piena, deve fissare l’udienza di cui

all’art. 183 c.p.

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Publisher
A.A. 2012-2013
27 pagine
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SSD Scienze giuridiche IUS/15 Diritto processuale civile

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher lapatty86 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Diritto processuale civile progredito e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Milano o del prof Saletti Achille.