Riassunto esame Diritto processuale civile, prof. Arieta, libro consigliato Corso base di Diritto processuale civile, De Sanctis
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Quest’ultima previsione non si presenta immune da critica in quanto la parte che si è vista
accogliere solo parzialmente la domanda potrebbe avere interesse sia a mettere in esecuzione il
titolo, sia a veder emettere la sentenza, mentre deve subire le conseguenze di una scelta
unilaterale che la legge rimette alla sola parte intimata.
LE TUTELE SOMMARIE CAUTELARI
Le tutele cautelari esaltano la già richiamata funzione di garanzia della effettività della tutela
giurisdizionale, ove si consideri che il potere di invocare – sia ante causam sia nel corso del
processo di cognizione normale – provvedimenti di cautela tipica od atipica, costituisce chiara
espressione del principio per cui la durata del processo non deve andare a danno dell’attore che
ha ragione.
Per questo è nata la necessità di apprestare ulteriori e diverse forme di tutela, appunto quelle
cautelari, capaci non già di far conseguire all’attore che ha ragione tutto quanto egli ha diritto di
ottenere, bensì di consentire che la tutela giurisdizionale ordinaria, una volta attuata, non si riveli
inutile per la parte che ha visto accolta la propria domanda di merito.
Discende che la tutela cautelare è, nello stesso tempo, autonoma e strumentale.
L’autonomia concerne sia la funzione, che non è né quella dell’accertamento né quella della
soddisfazione “anticipata”, ma della garanzia dell’effettività della tutela giurisdizionale nei termini
sopra chiariti; sia la struttura, in quanto essa, proprio per la sua funzione, incide sulla realtà
sostanziale e, quindi, sulla posizione delle parti contrapposte.
Tutto ciò non esclude che la misura cautelare abbia contenuto parzialmente anticipatorio e talvolta
totalmente anticipatorio di quello del provvedimento di tutela normale.
Ma la tutela cautelare è, nello stesso tempo, anche strumentale, in quanto sempre preordinata
all’assicurazione degli effetti della successiva tutela di merito, e dunque legata alle vicende e alle
sorti del giudizio di merito.
Per queste ragioni la provvisorietà dei provvedimenti cautelari ha, come si è accennato,
caratteristiche diverse rispetto a quella dei provvedimenti sommari non cautelari, in quanto i primi,
a differenza dei secondi, non hanno alcuna “vocazione” ad acquisire effetti definitivi essendo
destinati ad essere in ogni caso assorbiti dalla successiva sentenza di merito.
DISTINZIONE TRA LA COGNIZIONE CAUTELARE IN CORSO DI CAUSA E LA COGNIZIONE
PREORDINATA AI PROVVEDIMENTI PROVVISORI DI MERITO
La cognizione cautelare si distingue da quella preordinata ai provvedimenti provvisori di merito
laddove il giudice della cognizione normale può rimuovere i risultati della prima anche rivalutando
criticamente gli stessi materiali cognitivi posti alla base della rimozione della misura cautelare,
mentre la rimozione dei risultati della seconda è possibile solo in base all’acquisizione di materiali
cognitivi nuovi rispetto a quelli che hanno giustificato la tutela provvisoria.
Ciò consente la coesistenza, nello stesso processo, di entrambe le tutele in discorso, pur se si
concretino in risultati identici a favore di chi le ottiene.
IL RITO CAUTELARE UNIFORME
Il legislatore del 1990, oltre a ribadire e ad accentuare il carattere di strumentalità di ogni forma di
tutela cautelare – cioè il suo necessario collegamento con il processo di merito del quale essa
vuole assicurare l’effettività – ha, nello stesso tempo, esaltato il carattere di autonomia di detta
tutela, predisponendo un processo ad hoc governato in ogni sua fase da proprie regole.
Ciò premesso, è ora opportuno percorrere le complesse e specifiche regole che governano il
procedimento cautelare uniforme, contenute negli artt. 669-bis e ss c.p.c.
PROPOSIZIONE E CONTENUTO DELLA DOMANDA CAUTELARE. LA COMPETENZA
INMATERIA CAUTELARE
La domanda cautelare si propone con ricorso depositato nella cancelleria del giudice competente.
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Prima dell’inizio della causa di merito (domanda cautelare c.d. ante causam) la domanda si
propone al giudice competente (che è il tribunale in composizione monocratica, ovvero la corte
d’appello) a conoscere del merito secondo i criteri “statici” di competenza per territorio, materia e
valore.
Il giudice competente fissa con decreto l’udienza dinanzi a sé e sarà onere di chi ha proposto la
domanda cautelare notificare alla controparte il ricorso ed il decreto di fissazione dell’udienza, ai
fini dell’instaurazione del contraddittorio.
Il principio di strumentalità della tutela cautelare impone che nel ricorso contenente la domanda
cautelare ante causam sia sufficientemente specificato anche il contenuto della (successiva)
pretesa di merito che si vuole preservare con il richiesto provvedimento cautelare e che verrà
azionata nella successiva sede del giudizio di cognizione ordinaria, anche se tale specificazione
non può ritenersi vincolante nella successiva determinazione dell’oggetto della causa di merito.
Quando vi è giudizio pendente per il merito, la domanda cautelare in corso di causa deve
essere proposta al giudice della stessa.
L’ISTRUTTORIA CAUTELARE
L’art. 699-sexies c.p.c. fissa le regole che il giudice della cautela è tenuto ad osservare nello
svolgimento del procedimento cautelare e, in primo luogo, quella dell’applicazione del principio
del contraddittorio.
Il giudice della cautela, sentite le parti ed omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio,
procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili in relazione ai
presupposti ed ai fini del provvedimento richiesto.
La norma, nel sancire il principio di atipicità dell’istruzione sommaria, si preoccupa di chiarire
che l’acquisizione di elementi istruttori deve essere esclusivamente finalizzata all’emissione del
provvedimento cautelare.
Ciò rafforza i profili di differenziazione dell’istruttoria svolta in sede cautelare rispetto alla “normale”
attività istruttoria, non dovendo il giudice della cautela raccogliere prove circa la fondatezza nel
merito della domanda, bensì limitarsi ad acquisire elementi in grado di formare il proprio
convincimento.
I risultati degli strumenti istruttori fin qui descritti, anche se conseguiti di fatto nel contraddittorio tra
le parti, sono in ogni caso inidonei a fondare la successiva decisione di merito, proprio per la già
segnalata diversità di funzione e di struttura della cognizione cautelare rispetto a quella di merito.
Essi potranno al più essere valutati come argomenti di prova, dei quali il giudice della cognizione
ordinaria può liberamente tener conto ai fini della formazione del proprio convincimento, sempre in
concorso con prove tipiche.
LA DECISIONE SULLA DOMANDA CAUTELARE.IL COLLEGAMENTO CON IL GIUDIZIO DI
MERITO
il giudice della cautela – dopo aver proceduto, nel contraddittorio tra le parti, all’istruttoria cautelare
– provvede con ordinanza all’accoglimento o al rigetto della domanda cautelare.
L’ordinanza di rigetto non preclude la riproposizione della domanda cautelare, sia ante causam
sia in corso di causa, quando si verifichino mutamenti delle circostanze o vengano dedotte nuove
ragioni di fatto o di diritto.
L’ordinanza di accoglimento, ove la domanda sia stata proposta prima della causa di merito,
deve fissare un termine perentorio non superiore a trenta giorni per l’inizio del giudizio di merito.
Il carattere di strumentalità della tutela cautelare trova conferma nella disposizione che sancisce la
perdita di efficacia del provvedimento cautelare se il procedimento di merito non è iniziato nel
predetto termine perentorio, ovvero se, successivamente al suo inizio, esso si estingue.
La ratio della norma è quella di fare in modo che sia iniziato, entro il termine di cui sopra, il giudizio
di merito.
Il provvedimento cautelare perde, inoltre, efficacia se, con sentenza anche non passata in
giudicato, è dichiarato inesistente il diritto a tutela del quale esso era stato concesso.
Il fenomeno della perdita di efficacia ha qui un diverso fondamento rispetto al mancato inizio del
giudizio di merito, in quanto la pronuncia di merito di primo grado anche non passata in giudicato,
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ma provvisoriamente esecutiva, sfavorevole all’attore, assorbe la misura cautelare e ne paralizza
gli effetti, andando ad incidere sul presupposto del fumus boni iuris “caducato” dall’accertamento
reso dal giudice del merito a conclusione del relativo giudizio.
In questo caso la legge, anziché attribuire al giudice di merito il potere di revocare la misura
cautelare emessa ante causam o in corso di causa, ha preferito introdurre un’ipotesi di inefficacia
ex lege del provvedimento, idonea a determinare l’automatica caducazione degli effetti della
misura in precedenza concessa.
Ne consegue che gli effetti della misura cautelare non sono mai in grado di “sovrapporsi” agli effetti
esecutivi della sentenza di primo grado, ma rimangono “assorbiti” da quest’ultima che, non appena
pronunciata, si pone quale unica ed esclusiva fonte di regolamentazione del rapporto dedotto,
anche prima del suo passaggio in giudicato
LA MODIFICA E LA REVOCA DEL PROVVEDIMENTO CAUTELARE
Dispone l’art. 669-decies c.p.c. che, nel corso del processo, il giudice istruttore della causa di
merito può, con ordinanza, modificare o revocare, su istanza di parte, il provvedimento cautelare
anche se emesso anteriormente alla causa, a condizione che si siano verificati mutamenti nelle
circostanze, cioè si sia verificata una vicenda, interna od esterna al processo, che sia in grado di
apportare elementi di novità.
Mentre la revoca è finalizzata alla totale caducazione del provvedimento cautelare, sicché è
ragionevole che l’esercizio della stessa sia vincolato soltanto al dato obiettivo del “mutamento delle
circostanze”, il potere di modifica si fonda su esigenze diverse e più varie che possono consistere
sia nell’opportunità di incidere sul contenuto delle misure emesse in funzione del sopravvenire di
nuove circostanze, sia nella finalità di contemperare i contrapposti interessi.
IL RECLAMO CAUTELARE
In base a quanto dispone l’art. 669-terdecies c.p.c., contro l’ordinanza che abbia concesso una
misura cautelare – nonché contro l’ordinanza che abbia negato la misura cautelare – è ammesso
reclamo, entro dieci giorni, da un giudice diverso da quello che ha pronunciato sulla domanda
cautelare.
Il dibattito sulla natura giuridica del reclamo si è sino ad oggi sviluppato intorno al problema se il
reclamo sia un’impugnazione in senso proprio e se ad esso siano applicabili le leggi generali
sancite dagli artt. 323 e ss c.p.c.
Le soluzioni prospettate al riguardo sono state inevitabilmente influenzate dalla sentenza della
Corte costituzionale n. 253/1994 che ha esteso la reclamabilità anche al provvedimento cautelare
negativo.
Se l’originaria limitazione del reclamo al solo provvedimento di accoglimento della domanda
cautelare poteva caratterizzare il reclamo in funzione della esclusiva “neutralizzazione” del
pregiudizio derivante a carico del soggetto passivo dalla misura cautelare, il venir meno di tale
limitazione è stato prevalentemente inteso nel senso dell’’accentuazione del carattere
impugnatorio del reclamo.
Agli autori sembra che l’allargamento dell’area di reclamabilità al provvedimento negativo sia stato
determinato non già per garantire che l’esercizio del potere cautelare fosse attuato attraverso due
distinti gradi di giudizio, ma al diverso scopo di ripristinare la “parità delle armi” tra le parti, di
attribuire cioè anche alla parte che si sia vista rigettare la domanda di cautela, il medesimo potere
già riconosciuto alla parte destinataria della cautela concessa, di provocare il controllo sul
provvedimento da parte di un giudice collegiale diverso da quello che l’ha pronunciato.
Ciò impone di interrogarsi circa il tipo di rapporto che la legge ha inteso instaurare tra giudice della
prima fase cautelare e giudice del reclamo.
Esso può. In astratto, articolarsi sia sul modello dell’appello, sia su un diverso modello che, al
contrario del primo, presuppone il trasferimento ex lege al giudice del reclamo degli stessi poteri
del giudice della prima fase, quasi nell’ambito di un fenomeno di prosecuzione dell’unitario
giudizio cautelare che ha inizio dinanzi al giudice monocratico e si conclude, a seguito del
reclamo, dinanzi al giudice collegiale. 36
Se è la collegialità a caratterizzare soggettivamente il giudice del reclamo, il rapporto tra i due
giudici è, di norma, quello tra giudice monocratico e giudice collegiale appartenenti allo stesso
ufficio giudiziario, con il conseguente venir meno di ogni collegamento con il principio del doppio
grado (c.d. effetto devolutivo del reclamo cautelare).
In presenza di circostanze sopravvenute, occorre distinguere:
a) se la parte già soccombente sulla domanda cautelare intende censurare il provvedimento
di rigetto, essa dovrà sempre proporre il reclamo e potrà far valere eventuali nuove
circostanze a sostegno della concessione, in sede di reclamo, del provvedimento cautelare
negato dal primo giudice;
b) se, al contrario, la parte intende far valere solo le nuove circostanze, senza cioè proporre
alcun motivo di censura avverso il provvedimento di rigetto, la stessa parte non potrà far
altro che proporre una nuova domanda cautelare.
Con riferimento ai rapporti tra reclamo e modifica e revoca della misura cautelare, l’eventuale
sopravvenienza del presupposto (mutamenti nelle circostanze) che consente al giudice istruttore la
modifica o la revoca, può essere fatta valere solo con l’istanza di reclamo e non, alternativamente,
con il reclamo e con l’istanza di modifica o di revoca. Ciò deriva dal fatto che al reclamo deve
essere attribuita, come si è detto, natura non impugnatoria, ma di mezzo di controllo “rotatorio”,
costituente una fase dell’unitario giudizio cautelare (con conseguente trasferimento al giudice del
reclamo di tutti i poteri già riconosciuti in capo al primo giudice).
L’ATTUAZIONE DEL PROVVEDIMENTO CAUTELARE
L’art. 669-duodecies c.p.c. dispone che l’attuazione della misura cautelare avente ad oggetto
somme di denaro avviene nelle forme dell’espropriazione forzata; l’attuazione delle misure aventi
ad oggetto obblighi di consegna, rilascio, fare o non fare, avviene, invece, sotto il controllo del
giudice che ha emanato il provvedimento, il quale ne determina anche le modalità.
Gli autori ritengono che una volta che la causa di merito risulti pendente e che il giudice istruttore
sia stato designato, è in capo a questo giudice, e non a quello che ha concesso la misura, che
devono concentrarsi anche i poteri di attuazione.
Anche se si tratta di poteri diversi, che si fondano su diversi presupposti, il loro (anche
contemporaneo) esercizio comporterebbe evidente violazione del principio di unitarietà del
procedimento cautelare che il nuovo sistema ha, invece, voluto garantire.
LE MISURE CAUTELARI TIPICHE
Il codice di procedura civile, il codice civile e le leggi speciali prevedono alcune misure cautelari
“tipiche”, ciascuna caratterizzata da specifici presupposti che ne giustificano l’emanazione e tutte,
in linea di massima, assoggettate alle regole del procedimento cautelare uniforme.
L’art. 700 c.p.c. prevede, inoltre, sotto il nome di “provvedimento d’urgenza”, una misura cautelare
“atipica”.
I SEQUESTRI
Tra le misure cautelari tipiche, i sequestri (artt. 670 ss c.p.c.) si caratterizzano per la comune
finalità, tipicamente cautelare, di conservazione del diritto oggetto del futuro o già pendente
processo di merito per tutto il tempo di durata di quest’ultimo.
Lo strumento in questione determina in ogni caso il vincolo di indisponibilità del bene (o dei beni)
sequestrati.
Il sequestro può essere giudiziario o conservativo.
Il sequestro giudiziario riguarda, innanzi tutto, “beni mobili o immobili, aziende o altre universalità
di beni”, ove ne sia controversa la proprietà o il possesso e sia opportuna la loro custodia o
gestione temporanea. Può avere ad oggetto anche prove, cioè libri, registri, documenti, modelli,
campioni o qualsiasi altra cosa da cui la parte istante intende trarre elementi di prova a proprio
favore, che si trovino nella materiale disponibilità dell’altra parte o di un terzo. 37
Il provvedimento che autorizza il sequestro giudiziario perde efficacia se non è eseguito nel
termine di trenta giorni dalla pronuncia.
Il sequestro conservativo è un provvedimento idoneo ad anticipare gli effetti del pignoramento ed
ha ad oggetto beni mobili od immobili del debitore o somme o cose a lui dovute. Viene disposto dal
giudice quando il creditore abbia “fondato timore” di perdere le garanzie del proprio credito, cioè
ricorra una oggettiva situazione di pericolo che sia in grado di vanificare la garanzia patrimoniale di
cui all’art. 2740 c.c.
Non a caso, accolta in tutto o in parte la domanda di merito proposta dal sequestrante e
pronunciata sentenza di condanna a conclusione del giudizio di primo grado, il sequestro
conservativo si converte in pignoramento.
LE AZIONI NUNCIATORIE
Le azioni cosiddette nunciatorie costituiscono forme tipiche di tutela cautelare che l’ordinamento
mette a disposizione del proprietario e/o del possessore, laddove questi abbiano ragione di temere
un danno, anche in itinere, alla cosa oggetto del diritto o del possesso (denunzia di nuova opera,
denuncia di danno temuto).
Entrambe presuppongono una situazione di pericolo che, ove accertata, consente al giudice della
cautela di adottare provvedimenti di carattere conservativo o innovativo, idonei a consentire la
salvaguardia del diritto cautelando fino alla pronuncia della sentenza di merito.
L’ISTRUZIONE PREVENTIVA
I procedimenti di istruzione preventiva (artt. 692 ss) si differenziano dalle altre misure cautelari
per il diverso oggetto della cautela che sono chiamati a realizzare.
Questi procedimenti non tendono, infatti, direttamente alla tutela in via preventiva di un diritto
soggettivo leso o sottoposto a pericolo di lesione, bensì all’assunzione di una prova che, in
presenza di predeterminati presupposti, l’ordinamento consente di espletare al di fuori
dell’ordinario processo di cognizione (si pensi alla assunzione di testimonianze a prescindere
dall’instaurazione di un processo di ordinaria cognizione, allorché si ha fondato motivo di temere
che stiano per mancare uno o più testimoni)..
Questa caratteristica si riflette necessariamente sull’assetto del rapporto di strumentalità con la
tutela di merito, dal momento che qui la legge non prevede l’obbligo in capo al soggetto istante,
una volta assunta la prova, di iniziare il giudizio di merito.
I PROCEDIMENTI POSSESSORI
Qualche riserva è possibile avanzare circa la natura cautelare dei procedimenti possessori.
Le azioni a tutela del possesso sono quelle previste dal codice civile negli artt. 1168 e 1169, in
tema di azione di reintegrazione (che è concessa a chi sia stato “violentemente ed occultamente
spogliato del possesso”), e nell’art. 1170 in tema di azione di manutenzione (concessa a chi sia
stato “molestato” nel possesso di un immobile, di un diritto reale su immobile o di una universalità
di mobili, laddove il possesso duri da oltre un anno).
Queste forme di tutela non possono considerarsi in tutto e per tutto cautelari, in quanto strutturate
in maniera che debba seguire la cognizione ordinaria sul possesso, nelle forme della tutela
normale, e la conseguente pronuncia di una sentenza contenete l’accertamento.
LE MISURE CAUTELARI C.D. “EXTRAVAGANTI”
Nell’ambito delle misure cautelari tipiche, si definiscono misure cautelari “extravaganti” quelle
misure che trovano la loro disciplina normativa non nel codice di procedura civile ma nel codice
civile e in leggi speciali, sottoposte dall’art. 669-quartedecies c.p.c. alle norme sul procedimento
cautelare uniforme, in quanto compatibili.
Le misure all’esame si possono classificare in tre distinte categorie, a seconda del loro “rapporto”
con la tutela di merito: 38
1) una prima categoria di misure si caratterizza per la loro necessaria ed esclusiva
configurazione ante causam, per essere cioè invocabili solo e necessariamente prima
dell’inizio della tutela di merito. Queste misure sono specificamente dirette a neutralizzare
tipici pericola in mora, che possono verificarsi in presenza di situazioni pregiudizievoli;
2) vi sono altre misure cautelari extravaganti che possono essere invocate e concesse sia
ante causam sia in corso di causa;
3) alcune misure extravaganti sono, infine, configurate dalla legge come necessariamente
incidentali alla tutela di merito, nel senso che presuppongono sempre la previa pendenza
del giudizio di ordinaria cognizione, del quale sono chiamate ad assicurare l’effettività.
I PROVVEDIMENTI D’URGENZA EX ART. 700 C.P.C.
I provvedimenti d’urgenza atipici (o innominati) di cui all’art. 700 c.p.c., sono stati introdotti con
l’intento di “completare” il preesistente sistema di tutela cautelare e di riconoscere al giudice il
potere di prendere provvedimenti urgenti, dal contenuto non predeterminato (di qui il loro carattere
“atipico”), in tutti i casi nei quali non sia possibile accedere alle altre misure cautelari tipiche
(principio c.d. di “residualità” o di “sussidiarietà”).
Dalla lettera dell’art. 700 si evince che sono suscettibili di essere fatti valere in via di cautela atipica
solo quelle situazioni giuridiche sostanziali: che possiedono le caratteristiche del diritto
soggettivo; che, per tale loro natura, possono ricevere tutela ordinaria da parte del giudice civile;
e che non siano minacciati da lesioni, alla cui prevenzione si può provvedere ricorrendo alle norme
sulle misure cautelari tipiche.
Il diritto che s’intende sottoporre a cautela atipica deve esser, per contro, minacciato da un
pregiudizio imminente e irreparabile durante il tempo occorrente per essere azionato “in via
ordinaria”. Quest’ultima espressione non si limita ad indicare il processo di ordinaria cognizione,
ma identifica ogni processo davanti al giudice civile nel quale vi sia esercizio di un’attività cognitiva
piena ed esauriente.
Per l’emanazione del provvedimento d’urgenza sono richiesti dall’art. 700 c.p.c. precisi requisiti, sia
con riferimento al fumus boni iuris, che al pericula in mora.
La norma prescrive, innanzitutto, che chi agisce al fine di ottenere un provvedimento di urgenza
deve avere il “fondato motivo” di temere che il suo diritto sia minacciato.
Il requisito dell’imminenza incide in modo determinante sull’individuazione del momento
d’intervento del giudice della cautela, che può essere quello che precede il verificarsi dell’evento
dannoso, o che è contestuale al prodursi del danno, ovvero che, sia pure entro certi limiti precisi,
può essere anche successivo al verificarsi del pregiudizio.
La nozione di irreparabilità del pregiudizio segna gli effettivi ed invalicabili limiti di operatività
della tutela d’urgenza.
L’evento pregiudizievole può essere sia esterno che interno al processo e può consistere in
qualsiasi fatto o atto dannoso che sia in grado di colpire il diritto, con determinate caratteristiche e
conseguenze lesive.
A differenza delle altre misure tipiche, qui il legislatore non ha voluto tipizzare il pericolo ed
introdurre conseguenti vincoli all’interprete e all’operatore, ma ha richiesto, perché possa essere
concessa la tutela, che l’evento lesivo sia irreparabile, che il pregiudizio cioè sia idoneo a
minacciare o ledere il diritto con carattere d’irreparabilità.
A seguito dell’introduzione, da parte della Novella del 1990, degli artt. da 669-bis a 669-
quaterdecies c.p.c., contenenti le regole sul procedimento cautelare uniforme, anche il
procedimento ex art. 700 c.p.c. resta interamente governato da tali norme.
I PROCEDIMENTI CAUTELARI IN MATERIA SOCIETARIA
Gli artt. 23 e 24 del d. lgs. N. 5/2003, recante norme sul processo societario, contengono
importanti ed innovative disposizioni relative ai procedimenti cautelari in materia societaria.
Anche per il procedimento cautelare societario occorre distinguere l’iporesi in cui la misura
cautelare sia richiesta ante causam rispetto all’ipotesi in cui essa sia richiesta in corso di causa.
PROCEDIMENTO CAUTELARE ANTE CAUSAM 39
L’art. 23 del d. lgs. N. 5/2003 ha previsto che ai provvedimenti di urgenza e agli altri provvedimenti
cautelari idonei ad anticipare gli effetti nella decisione di merito, non si applica l’art. 669-octies
c.p.c. e tali provvedimenti non perdono la loro efficacia se la causa noni viene iniziata.
In concreto, la norma esonera il giudice della cautela ante causam dall’obbligo di fissazione, in
caso di provvedimento di accoglimento della domanda cautelare, del termine per l’inizio del
giudizio di merito, introducendo per la prima volta nel nostro ordinamento il principio di
“facoltatività” dell’instaurazione del giudizio di merito.
L’art. 23 ha opportunamente “limitato” l’applicazione del citato principio di facoltatività
“selezionando” le misure cautelati ritenute compatibili con la mancata instaurazione del giudizio di
merito. Le uniche cautele ritenute compatibili sono state individuate nei “provvedimenti d’urgenza e
gli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della decisione di merito”; ne sono
esclusi, tra gli altri, i sequestri, ai quali si riconosce una prevalente efficacia conservativa.
Ciò vuol dire che la misura cautelare non acquista in conseguenza del mancato inizio del giudizio
di merito effetti diversi e più stabili rispetto a quelli prodotti al momento della sua emanazione, ma
continua a produrre i medesimi suoi effetti provvisori e cautelari.
Ipotizzare il “consolidamento” degli effetti della cautela, con l’attribuzione ad essa di effetti definitivi,
avrebbe presentato profili di dubbia costituzionalità e, comunque, di contrasto con l’intero sistema
della tutela sommaria.
La tutela di merito, quindi, non è eliminata, ma solo differita in un tempo non predeterminato dalla
legge.
L’introduzione del principio di facoltatività del giudizio di merito ha reso altresì necessaria la
modifica del regime di modifica e di revoca del provvedimento cautelare.
Dal combinato disposto dei commi terzo e quarto dell’art. 23 del d. lgs. N. 5/2003, si evince che la
parte – la quale ritenga che siano intervenuti “mutamenti nelle circostanze” – ha a disposizione due
diverse possibilità: la prima di iniziare la causa di merito e di rivolgere al giudice di questa l’istanza
di revoca o di modifica della misura cautelare; la seconda è quella di proporre l’istanza di modifica
o di revoca allo stesso giudice che ha emesso la misura cautelare.
L’art. 23 ha, infine, introdotto rilevanti novità con riferimento al procedimento di reclamo avverso i
provvedimenti cautelari in materia societaria, prevedendo tra l’atro: l’introduzione del principio di
generale reclamabilità di ogni provvedimenti in materia cautelare; un termine perentorio per la
proposizione del reclamo di dieci giorni, decorrente dalla comunicazione del provvedimento;
l’obbligo di far valere nel procedimento di reclamo le circostanze ed i motivi sopravvenuti al
momento della proposizione dello stesso; il potere del giudice del reclamo di assumere sempre
informazioni e acquisire nuovi documenti.
Si tratta di interventi che consentono di ribadire la natura non impugnatoria del reclamo.
PROCEDIMENTO CAUTELARE IN CORSO DI CAUSA E GIUDIZIO ABBREVIATO
L’art. 24 del d. lgs. N. 5/2003 contiene la disciplina del procedimento cautelare societario in corso
di causa che, per un verso, tiene conto delle caratteristiche del nuovo rito societario a cognizione
piena, ma soprattutto, si coordina alla possibilità di accesso al giudizio abbreviato.
In pratica, il legislatore ha esteso alle cautele pronunciate in corso di causa il medesimo regime di
permanenza degli effetti introdotto per i provvedimenti cautelari ante causam.
L’art. 24 contiene, però, la disciplina del “giudizio abbreviato”, che costituisce quindi un possibile
sbocco del procedimento cautelare in corso di causa.
Il giudizio abbreviato è quel procedimento che, se ricorrono determinati presupposti, consente al
giudice del procedimento cautelare in corso di causa di “saltare” la fase cautelare e pervenire
direttamente alla decisione di merito, presa con sentenza che, se non impugnata, acquista
l’efficacia della cosa giudicata sostanziale di cui all’art. 2909cc.
I passaggi attorno ai quali l’art. 24 all’esame ha costruito la previsione di un rito abbreviato come
esito eventuale della domanda cautelare in corso di causa possono essere così descritti:
a) il giudice designato per la trattazione della domanda cautelare, se ritiene che la causa sia
matura per la decisione di merito senza bisogno di ulteriore assunzione di mezzi di prova,
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ne dà comunicazione alle parti presenti e le invita a precisare le rispettive conclusioni di rito
e di merito; nella stessa udienza pronuncia sentenza, al termine della discussione;
b) quando la decisione della causa è attribuita al tribunale in composizione collegiale, il
giudice designato per la trattazione della domanda cautelare fissa l’udienza di discussione,
nei successivi trenta giorni, dinanzi al collegio;
c) il giudice, fatte precisare le conclusioni, può ordinare la discussione orale della causa nella
stessa udienza o, su istanza di parte, in un’udienza successiva e pronunciare sentenza al
termine della discussione;
d) se la complessità della causa impedisce o rende difficoltosa la contestuale redazione della
motivazione, il giudice si limita a dare lettura del dispositivo i udienza: la motivazione verrà
depositata nei successivi quindici giorni;
e) in caso di rinvio della discussione a seguito di istanza di parte, il giudice può sempre
adottare le misure cautelari idonee ad assicurare gli effetti della decisione di merito.
È da segnalare che questo tipo di giudizio non è subordinato alla verifica di requisiti legali tipici e
predeterminati, e può essere “imposto” alle parti dal giudice anche contro la loro volontà.
Le parti, nel corso dell’udienza cautelare, possono essere invitate – anche senza preavviso – a
precisare le conclusioni di rito e di merito, se il giudice competente ad emettere il provvedimento
cautelare in corso di causa ritiene, come si è detto, “che il giudizio sia comunque in condizioni di
essere definito”. 41
C S
APITOLO ETTIMO
GIURISDIZIONE “NON CONTENZIOSA” E PROCEDIMENTI CAMERALI
TUTELE GIURISDIZIONALI “NON CONTENZIOSE”, CAMERALI E NON, NELLA LEGGE E
NELLA DOTTRINA
Abbiamo visto in precedenza i processi e/o procedimenti cognitivi, esecutivi e cautelari, che sono
messi in moto da atti che contengono richieste di tutela di diritti soggettivi, con rito generale o
speciale.
Bisogna ora dire sinteticamente di altri processi i cui atti iniziali non esprimono simili richieste di
tutela.
Opinioni tradizionali accomunano tutti questi processi o molti di essi sotto la definizione di
giurisdizione volontaria o non contenziosa. Ma tale definizione è, per gli autori, inaccettabile.
Dall’analisi delle norme che disciplinano questi processi si dimostra che gli effetti dei relativi atti
finali (che assumono, per lo più, la forma del decreto motivato) non sono imputabili ad alcun
soggetto dell’ordinamento e sono perciò sicuramente “giurisdizionali”.
Ferma restando dunque l’integrale giurisdizionalità di tutte le funzioni di cosiddetta
giurisdizione volontaria o non contenziosa e constatata l’incoerenza di chi continua a
configurarle come di cura o di gestione di interessi, sembra che delle funzioni in discorso si
possono dare due “sistemazioni”.
La prima (Montesano) vede nella giurisdizione “non contenziosa” la tutela di interessi privati e più
di frequente pubblici. Questa tutela “interferisce” con sfere di diritti soggettivi.
Ne dovrebbero derivare le seguenti conseguenze:
a) quando il provvedimento giurisdizionale non contenzioso autorizza atti di diritto privato, il
giudice contenzioso può censurare non quel provvedimento in sé considerato ed il
procedimento che lo ha generato, ma solo le loro illegittimità o ingiustizie che rendono
invalidi quegli atti secondo le norme di diritto privato che li regolano;
b) quando il provvedimento di giurisdizione non contenziosa sacrifica o comprime diritti
soggettivi, non vi è spazio per nessuna censura contenziosa, o quando contro il
provvedimento – pur emesso senza le garanzie del giusto processo – la legge ammette, in
via di opposizione, la piena censura e rimovibilità.
c) Va, per contro, ammessa – pur nel silenzio della legge – la piena censura “contenziosa”,
nella legittimità e nel merito, se il procedimento e il provvedimento hanno disciplina
esclusivamente camerale come è, ad esempio, per il procedimenti e provvedimenti in
materia di potestà dei genitori.
La seconda, più recente “sistemazione” della giurisdizione non contenziosa (Arieta), afferma il
completo e definitivo superamento della nozione di giurisdizione volontaria e la ricostruzione della
giurisdizione camerale quale espressione di forme di tutela che sono dirette a salvaguardare
situazioni giuridiche soggettive che fanno parte di diritti soggettivi.
Nell’ambito di questa ricostruzione, la giurisdizione camerale costituisce una forma di tutela
giurisdizionale autonoma rispetto a quella “normale”, che sfugge ad ogni classificazione basata sui
criteri della cognizione piena e sommaria. 42
CONFINI DELLA GURISDIZIONE CAMERALE E PROCEDIMENTI CAMERALI COME RITI
DIFFERENZIATI DI TUTELE NORMALI DI DIRITTI SOGGETTIVI. LA “CAMERA DI
CONSIGLIO”
Problema centrale e assai dibattuto è quello dei confini del fenomeno della giurisdizione
camerale.
Nel non celato tentativo di assicurare maggiore celerità al processo attraverso la “semplificazione”
delle sue forme di svolgimento, il legislatore assume sovente a modello di riferimento quello
camerale ed in qualche caso lo utilizza senza preoccuparsi della sua “compatibilità” con l’oggetto
dello stesso.
In questi casi i procedimenti camerali sono riti “speciali” di tutele “normali” di diritti soggettivi.
L’espressione “camera di consiglio” identifica una forma di tutela attraverso la quale la legge
vuole sottolineare il potere del giudice di provvedere rispetto alla richiesta di un provvedimento,
accentuando il rilievo che assume la valutazione giudiziaria dell’interesse pubblico.
L’efficacia “espansiva” della normativa contenuta negli artt. 737 e ss c.p.c., trova la sua base
normativa nell’art. 742-bis che, nel presupporre l’applicazione di dette norme ai “procedimenti in
camera di consiglio regolati dai capi precedenti” e che riguardano “materia di famiglia o di stato
delle persone”, estende la detta applicazione a “tutti i procedimenti in camera di consiglio” diversi
da quelli appena richiamati.
PROCEDIMENTI UNILATERALI E BI- O PLURILATERALI
La dottrina ha enucleato due categorie di procedimenti camerali, a seconda che vi partecipi una
sola parte – quella che, di norma, ha dato impulso al procedimento ovvero due o più parti, facendo
riferimento al principio del contraddittorio.
Nei procedimenti unilaterali non può sorgere questione di contraddittorio per la ragione che il
provvedimento è esso stesso unilaterale, essendo destinato ad incidere sulla sfera giuridica di un
unico soggetto; in quelli bi- o plurilaterali, la situazione sostanziale in gioco richiede la
partecipazione di più soggetti.
Ma al di là di questi rilievi, non sembra che la distinzione in esame sia in grado di acquisire valenza
sistematica, dal momento che non può sostenersi che nei procedimenti unilaterali non vi siano
garanzie di contraddittorio e di difesa (beninteso nei confronti dell’unica parte che ha il diritto di
parteciparvi).
LA COMPETENZA CAMERALE
L’art. 737 c.p.c. si limita a prevedere che il ricorso camerale si propone al “giudice competente”,
senza dettare alcuna regola di competenza “statica” in tema di ricerca ed individuazione dello
stesso.
L’assenza di criteri generali si giustifica per il fatto che, di norma, la competenza a pronunciare
provvedimenti camerali è di volta in volta attribuita dalla legge ad un determinato organo
giurisdizionale, nell’ambito dello stesso contesto normativo che contiene la disciplina “sostanziale”
della singola tutela camerale.
Il carattere inderogabile della competenza (art. 28 c.p.c.) esclude ogni patto derogatorio del foro
territoriale ed attribuisce al giudice, sia di prima istanza che di reclamo, il potere officioso di
controllo anche di questo criterio.
FORMA DELL’ATTO INTRODUTTIVO, IMPULSO DEL PROCEDIMENTO E PRINCIPIO DELLA
DOMANDA
L’art. 737 c.p.c. prescrive che i provvedimenti da pronunciarsi in camera di consiglio debbono
essere chiesti con ricorso, che costituisce la forma “normale” dell’atto introduttivo dei procedimenti
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che hanno inizio su impulso di parte, sia essa la parte privata che il pubblico ministero, anche se in
quest’ultimo caso la legge parla talvolta di “richiesta”.
Con la domanda camerale l’istante ha facoltà di agire solo per il conseguimento di quei “risultati”
tipici che la legge espressamente prevede.
La domanda è, dunque, vincolata, quanto al suo contenuto, alla singola previsione normativa, che
delimita l’ambito del potere del giudice nel caso concreto.
LO SVOLGIMENTO DEL PROCEDIMENTO E LA GARANZIA DEL CONTRADDITTORIO
Mancano regole generali sullo svolgimento del procedimento e sulle attività che il giudice camerale
è tenuto a compiere a seguito della proposizione del ricorso o dell’impulso officioso.
Sembra che la legge ha qui voluto impedire il rigido e predeterminato frazionamento del
procedimento camerale in più fasi fra loro distinte, assegnando al giudice il potere, nell’ambito di
un procedimento unitariamente concepito, di modellare l’iter di svolgimento più idoneo al
raggiungimento delle finalità di ciascuna tutela.
Il procedimento si svolge, dunque, in assenza di preclusioni dettate dalla legge, lungi però
dall’essere affidato alla totale discrezionalità o addirittura all’arbitrio del giudice.
Come già accennato, l’integrale applicazione del principio del contraddittorio implica il
necessario rispetto, da parte del giudice camerale, per tutto il corso del procedimento, delle
fondamentali esigenze del diritto di difesa, dal quale consegue:
a) l’obbligo di immediata comunicazione al o ai soggetti futuri destinatari degli effetti del
provvedimento, dell’avvenuta pendenza del procedimento, con invito agli stessi di
esercitare il diritto di difesa;
b) l’obbligo di disporre l’audizione delle parti quando essa sia richiesta da una di esse o dal
pubblico ministero;
c) l’obbligo di portare a conoscenza delle parti il contenuto delle eventuali fonti di prova
inquisitorie acquisite e di provvedere sulle eventuali istanze che queste abbiano avanzato.
L’ISTRUTTORIA CAMERALE
Il terzo comma dell’art. 738 c.p.c. consente al giudice camerale di assumere informazioni.
A prescindere da se sia richiesta o meno l’iniziativa di parte, il giudice camerale è sempre titolare
di poteri inquisitori, sia con riferimento al “mezzo” sia alla “fonte”.
Oltre alla possibilità di deferire indagini ad organi di polizia, è altresì possibile affidare al consulente
tecnico d’ufficio l’incarico di acquisire ogni elemento utile ai fini del richiesto accertamento.
PROVVEDIMENTI CAMERALI E REGIME DI EFFICACIA
La forma del provvedimento camerale è, di norma, quella del decreto motivato, anche se la
legge può preveder la forma dell’ordinanza.
L’art. 741 c.p.c. prevede che il decreto acquista efficacia quando sia decorso il termine per la
proposizione del reclamo, salvo che il giudice, in presenza di ragioni d’urgenza, disponga l’efficacia
immediata dello stesso. In quest’ultimo caso la parte interessata (compreso il pubblico ministero)
può chiedere la sospensione, prima del reclamo, al giudice che l’ha concessa e, successivamente,
al giudice del reclamo.
LA MODIFICA E LA REVOCA
L’art. 742 c.p.c. consente la revoca e la modifica “in ogni tempo” del provvedimento camerale
finale.
Gli autori ritengono che la revoca e la modifica si possano disporre anche officiosamente dal
giudice che, in primo grado o in sede di reclamo, ha pronunciato il provvedimento camerale. Infatti,
si tratta qui di esercitare ancora, a fini di ordine pubblico, lo stesso potere già esercitato con quella
pronuncia e perciò i detti fini verrebbero frustrati se non si consentisse al giudice di riaprire il
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procedimento per valutare le circostanze, non emerse nella precedente fase, che possono
giustificare il rigetto o l’accoglimento, totale o parziale, dell’istanza già accolta o respinta.
IL RECLAMO CAMERALE
L’art. 739 c.p.c. attribuisce un ulteriore controllo endoprocedimentale al giudice superiore in sede
di reclamo.
La parte reclamante (che può essere, oltre al soggetto destinatario passivo del provvedimento,
l’originario istante in caso di rigetto, ma anche di accoglimento solo parziale della domanda) è in
grado di sollecitare il riesame da parte del giudice del reclamo senza alcuna predeterminazione di
vizi da parte della legge (potrebbe dirsi, in questo senso, che il reclamo è, al pari dell’appello, un
mezzo “a critica libera”) deducendo specifici vizi di “merito” o di rito, ovvero lamentando la mera
ingiustizia del provvedimento.
Problema centrale è quello relativo all’estensione dei poteri del giudice del reclamo camerale, in
particolare se quest’ultimo sia vincolato all’esame dei soli vizi dedotti o delle sole censure mosse
circa l’opportunità o l’ingiustizia, ovvero possa estendere il proprio esame ed i propri poteri cognitivi
anche a questioni assorbite nel provvedimento emesso dal primo giudice, nonché agli eventuali
capi o parti del provvedimento reclamato per i quali nessun vizio o censura sia stata mossa né dal
reclamante, né dall’eventuale soggetto che resiste al reclamo.
La seconda soluzione appare imposta dalla natura e funzione della tutela camerale, che è
incompatibile con vincoli o limitazioni dei poteri cognitivi che siano in grado di condizionare
l’esercizio della tutela.
Il reclamo ha, dunque, l’effetto di devolvere in modo pieno e automatico al giudice superiore l’intero
oggetto della tutela e del giudizio che su di essa si è svolto in prima istanza.
Quanto, infine, all’individuazione dei provvedimenti reclamabili, sembra che essa debba aver
riguardo all’esercizio dei poteri camerali “finali”, che concluda o non il procedimento, con la
conseguente esclusione di tutti quei provvedimenti a contenuto “strumentale”, di natura
essenzialmente istruttoria, che servono a definire il procedimento, a consentire cioè al giudice
camerale di esercitare i poteri tipicamente previsti dalla legge.
I PROCEDIMENTI CAMERALI IN MATERIA SOCIETARIA
La materia societaria costituisce ideale banco di prova per apprezzare i caratteri e le potenzialità
della giurisdizione camerale.
I nuovi procedimenti camerali in materia societaria si collocano, nell’ambito della giurisdizione
camerale in senso stretto, in posizione di specialità per quanto concerne le regole del
procedimento, rispetto agli altri procedimenti in camera di consiglio che restano integralmente
sottoposti agli artt. 737 ss c.p.c.
Fondamento normativo è il d. lgs. N. 5/2003, i cui artt. 25, 26 e 27 sono rispettivamente dedicati:
alla forma dell’atto introduttivo e del giudice competente; alla forma ed efficacia del provvedimento;
al reclamo. Si tratta di tre disposizioni che contengono una serie di principi generali applicabili ad
ogni procedimento camerale in materia societaria (unilaterale e bi- o plurilaterale).
Gli artt. 28 e 29 contengono a loro volta la disciplina dei procedimenti camerali unilaterali, mentre
gli artt. 30-33 disciplinano il procedimento nei confronti di più parti.
In sostanza, il legislatore delegato ha strutturato la disciplina dei procedimenti camerali societari su
due livelli, di cui il primo è comune a tutti, mentre il secondo ha riferimento alla natura unilaterale o
bilaterale del procedimento.
PROCEDIMENTI UNILATERALI
La previsione di un rito a sé per i procedimenti unilaterali è da ricollegare alle diversità
dell’oggetto della tutela camerale.
La parte si rivolge al giudice camerale per chiedere l’autorizzazione al compimento di un atto o
l’integrazione, attraverso il provvedimento, dell’efficacia di un atto da essa già compiuto. 45
La presenza di una sola parte e la conseguente richiesta di una tutela camerale “autorizzativa-
omologatoria”, giustificano la composizione monocratica dell’organo decidente, rendono facoltativa
l’assistenza del difensore e la fissazione dell’udienza.
Nei procedimenti unilaterali non sussiste, infatti, conflitto intersoggettivo.
Esiste, invece, o può esistere, un diverso tipo di conflitto, tra il diritto dell’istante e gli interessi
pubblicistici o comunque superindividuali sottoposti al vaglio del giudice camerale che, a ben
vedere, costituisce la ragione stessa dell’intervento del giudice camerale e che quest’ultimo è
chiamato a risolvere.
PROCEDIMENTI BI- O PLURILATERALI
Per quanto concerne i procedimenti bi- o plurilaterali, particolare attenzione deve essere rivolta
all’art. 32 del decreto, secondo il quale nel corso dei procedimenti bi- o plurilaterali, ciascuna parte
può chiedere che sia decisa con efficacia di giudicato una “questione pregiudiziale della quale il
giudice deve conoscere ai fini della definizione del procedimento”.
L’accesso alla tutela normale, attraverso il meccanismo dell’art. 32, serve per un verso ad
escludere che l’oggetto del procedimento camerale possa estendersi ad accertamenti che il
giudice di quest’ultimo può compiere solo incidenter e non con effetti di giudicato; e, nello steso
tempo, a consentire al giudice della tutela normale di compiere quegli stessi accertamenti, con le
garanzie della cognizione piena e con i conseguenti effetti di giudicato.
Infine, l’esigenza di assicurare il rispetto dei principio del giusto processo, impone: a) di attribuire
alla parte interessata il potere di richiedere che il procedimento camerale possa proseguire nelle
forme della tutela normale; b) di consentire al giudice camerale di definire in ogni caso il
procedimento camerale e di provvedere sull’istanza, accogliendola o respingendola; c) di
prevedere la possibilità che il giudice della tutela normale possa revocare o modificare il
provvedimento camerale. P T
ARTE ERZA
PRESUPPOSTI DEL PROCESSO ED ESERCIZIO DELL’AZIONE
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C O
APITOLO TTAVO
I LIMITI ALL’ESERCIZIO DELLA GIURISDIZIONE
LA GIURISDIZIONE COME PRESUPPOSTO PER LA VALIDA INSTAURAZIONE DEL
PROCESSO
Come visto, la giurisdizione è stata esaminata ed intesa, sotto il profilo funzionale, come una
essenziale attività svolta dallo Stato e finalizzata all’emanazione, a mezzo dei giudici, di
provvedimenti che non sono riferibili ad alcun soggetto dell’ordinamento ma all’ordinamento stesso
considerato nella sua universalità.
Adesso, la giurisdizione verrà considerata nel suo concreto operare, cioè come presupposto per
l’instaurazione del processo.
Come riferimento al rapporto giuridico processuale, si è andata formando e consolidando la teoria
dei presupposti processuali, intesi quali presupposti del rapporto processuale, distinti dalle
condizioni dell’azione: mentre queste ultime sono state considerate come condizioni per
l’ammissione di un provvedimento favorevole all’attore, i primi sono stati identificati nei requisiti di
esistenza del processo.
Con la crisi del concetto di rapporto processuale, la teoria dei presupposti processuali ha perso il
suo principale punto di riferimento.
Non è, tuttavia, venuta meno l’esigenza di individuare il rapporto tra giurisdizione e processo e
specialmente di considerare la giurisdizione come uno dei requisiti di vera e propria esistenza del
processo.
Ma perché il processo venga ad esistenza, è necessario che la domanda sia proposta ad un
organo giurisdizionale, cioè ad un soggetto che abbia la qualità di giudice: anche se privo di
giurisdizione, questo giudice ha il potere di emettere quanto meno una pronuncia sul processo,
limitandosi, se del caso, ad accertare il proprio difetto di giurisdizione, cioè la mancanza di ogni
potere giurisdizionale in relazione alla controversia instaurata. 47
La giurisdizione, dunque, non può essere considerata presupposto di mera esistenza del
processo.
Perché il processo non solo risulti esistente, ma sia anche proseguibile, il giudice adito deve avere
il potere di esercitare la funzione giurisdizionale che la legge ad esso riserva: deve avere la
titolarità della funzione giurisdizionale, cioè il potere di attuare l’ordinamento nella sua universalità.
La domanda proposta al giudice munito di giurisdizione fa sorgere, in capo ad esso, il dovere
decisorio, costituendo la fonte del suo potere-dovere di trattare ed, eventualmente, decidere sulla
stessa.
LA PERPETUATIO IURISDICTIONIS
La giurisdizione deve esistere e va accertata con riferimento al momento della pendenza della lite.
Nel testo previdente a quello novellato dalla legge n. 353/1990, l’art. 5 c.p.c. enunciava il principio
secondo il quale la giurisdizione (e la competenza) si determinano con riguardo allo “stato di
fatto” esistente al momento della proposizione della domanda, senza che avessero rilevanza,
rispetto ad esso, i successivi mutamenti dello stato medesimo (c.d. principio della perpetuatio
iurisdictionis).
Il nuovo testo dell’art. 5 ha integrato la previdente disposizione normativa, riconoscendo che la
giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo non solo allo stato di fatto, ma anche
alla “legge vigente” al momento della proposizione della domanda, con l’espressa affermazione
dell’irrilevanza dei “successivi mutamenti della legge”, oltre che delle modificazioni di quello stati di
fatto.
Va precisato che la descritta “insensibilità” si pone regola generale in caso di successione di leggi
processuali relative alla giurisdizione e alla competenza, senza vincolare il legislatore il quale, se
vuole rendere immediatamente applicabile una nuova normativa ai giudizi pendenti alla data di
entrata in vigore della stessa, deve prevederlo espressamente, stabilendo un apposito regime
transitorio con specifica deroga alla regola generale sancita nell’art. 5 c.p.p.
I LIMITI DI ESERCIZIO DELLA FUNZIONE GIURISDIZIONALE CIVILE: LE QUESTIONI DI
GIURISDIZIONE
Si è detto che la definizione di giurisdizione civile si raggiunge “negativamente”, nel senso che è da
considerare “civile” ogni giurisdizione che non sia “penale” o “amministrativa”.
Il potere di esercitare la funzione giurisdizionale in materia civile può incontrare un triplice ordine di
limiti, tutti espressamente previsti dalla legge:
1. nei confronti del convenuto, in relazione ai rapporti tra giurisdizione italiana e giurisdizioni
straniere;
2. rispetto alle magistrature speciali, alle materie cioè riservate alla competenza
giurisdizionale di queste;
3. nei confronti, infine, della pubblica amministrazione e dei pubblici poteri in essa ricompresi,
in presenza della c.d. “improponibilità assoluta della domanda”.
Ciascuna di queste tre categorie di limiti può dar luogo ad un “difetto di giurisdizione” del giudice
ordinario civile, cioè a “questioni di giurisdizione”, eccepite dalle parti i rilevate d’ufficio, sulle
quali lo stesso giudice investito della controversia sul merito è chiamato a pronunciarsi, accertando
il difetto o la sussistenza della giurisdizione rispetto alla controversia medesima.
Ad avviso degli autori, non si possono qualificare di giurisdizione questioni diverse da quelle
indicate dalla legge, proprio in quanto ciascuna di esse individua un limite esterno all’esercizio
della giurisdizione, in relazione al fatto che il potere in questione spetti ad un giudice o, in genere,
ad un organo diverso da quello investito della controversia.
(SEGUE) … IL LIMITE RISPETTO ALLA GIURISDIZIONE STRANIERA NEI CONFRONTI DEL
CONVENUTO 48
Il primo ordine di limiti alla giurisdizione riguarda le controversie nelle quali sia in gioco il rapporto
tra la giurisdizione italiana e giurisdizioni straniere, in relazione alla posizione del solo convenuto,
cioè della parte contro la quale la controversia viene instaurata.
La materia è stata notevolmente modificata dalla legge n. 218/1995 di riforma del sistema
italiano di diritto internazionale privato e processuale.
L’art. 3 della legge fissa l’ambito della giurisdizione italiana, che sussiste:
a) quando il convenuto è domiciliato o residente in Italia. Non ha rilevanza la qualità di
straniero, cioè il criterio della cittadinanza, ma solo la circostanza che il convenuto abbia un
collegamento con il territorio;
b) quando il convenuto ha in Italia un rappresentante che sia autorizzato a stare in giudizio;
c) negli altri casi in cui la giurisdizione italiana è prevista dalla legge.
La giurisdizione italiana è, per contro, esclusa rispetto alle “azioni reali aventi ad oggetto beni
immobili situati all’estero”: l’art. 5 della legge 218 pone infatti tale limite, giustificato dal legame
particolarmente stretto tra le dette azioni e lo Stato nel cui territorio si trova l’immobile.
Al di fuori delle ipotesi appena viste, l’art. 4 prevede che la giurisdizione italiana sussiste quando le
parti “l’abbiano convenzionalmente accettata” e, precisamente, quando l’accettazione sia espressa
o tacita.
L’accettazione espressa della giurisdizione può avvenire sia antecedentemente
all’instaurazione del processo, sia a processo già pendente. Nel primo caso, le parti esprimono la
propria volontà esplicita di accettare la giurisdizione italiana con un atto che ha contenuto
tipicamente negoziale e deve essere consacrato per iscritto; nel secondo, siffatta volontà sarà
incorporata in un atto processuale.
L’ipotesi di accettazione tacita si ricollega alla circostanza che “il convenuto compaia nel
processo senza eccepire il difetto di giurisdizione nel primo atto difensivo”.
Il secondo comma dell’art. 4 della legge contiene, invece, la disciplina della derogabilità
convenzionale della giurisdizione italiana.
Prima della legge del 1995, il codice di procedura civile sanciva il principio generale della
inderogabilità convenzionale della giurisdizione, che consisteva nel divieto di accordi, conclusi tra
le parti, di deroga alla giurisdizione italiana a favore di giurisdizione straniera o di arbitri che
pronunciassero all’estero.
L’art. 4 della l. n. 218/1995, che ha sostituito l’art. 2 c.p.c., ha introdotto quello della derogabilità
convenzionale, che consente alle parti di escludere la giurisdizione italiana sempre che la deroga
sia provata per iscritto e verta su diritti disponibili.
La deroga è, peraltro, “inefficace” se il giudice o gli arbitri indicati “declinano la giurisdizione o
comunque non possono conoscere della causa”.
(SEGUE) … IL LIMITE DELLA GIURISDIZIONE ORDINARIA NEI CONFRONTI DELLE
MAGISTRATURE SPECIALI: IN PARTICOLARE, DEL GIUDICE SPECIALE AMMINISTRATIVO
Con riferimento, in particolare, al giudice speciale amministrativo, il limite in discorso viene in
essere allorché una delle parti in causa sia la pubblica amministrazione e si chieda al giudice la
tutela di interessi legittimi, cioè di situazioni giuridiche sostanziali diverse dai diritti soggettivi, la
cui tutela è sottoposta, di norma, alla giurisdizione ordinaria.
La qualificazione, spesso non agevole, in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo, della
situazione giuridica sostanziale che si fa valere nel processo, costituisce dunque presupposto
rispettivamente per la sussistenza o l’insussistenza della giurisdizione del giudice ordinario.
Il d. lgs. N. 80/1998 e successivamente la legge n. 205/2000, hanno fortemente inciso sui criteri
generali di riparto tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa, introducendo nuove
ipotesi di giurisdizione “esclusiva” del giudice amministrativo (cioè relativa non soltanto agli
interessi legittimi, ma anche ai diritti soggettivi).
Nelle materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, il giudice amministrativo “conosce anche di
tutte le questioni relative a diritti”, restando riservate al giudice ordinario le questioni pregiudiziali
concernenti lo stato e la capacità della persona e la risoluzione dell’incidente di falso. 49
Oltre che ai giudici amministrativi, vi sono giudici speciali alla cui cognizione sono attribuite dalla
legge controversie in materia anche di diritti soggettivi: si pensi alla Corte dei conti, che ha
giurisdizione esclusiva in materia di pensioni e di contabilità pubblica; alle commissioni tributarie,
ecc.
Ed è proprio la presenza nell’ordinamento di diversi giudici speciali a rendere concretamente
possibile l’eventualità che sorgano vere e proprie questioni fi giurisdizione quando il giudice
ordinario e quello speciale, ovvero due giudici speciali, ritengano di avere entrambi la giurisdizione
su una determinata controversia. Quando ciò accade, giudice degli eventuali “conflitti di
giurisdizione” sarà la Corte di cassazione.
(SEGUE) … IL LIMITE DELLA GIURISDIZIONE NEI CONFRONTI DELLA PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE E DEI SUOI POTERI
Il limite della giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione sta a significare che né il
giudice ordinario, né alcun altro giudice dello Stato (compreso quello speciale amministrativo) è
fornito di giurisdizione a conoscere di una controversia promossa dal privato nei confronti
dell’amministrazione “attiva” dello Stato, che abbia a d oggetto una situazione soggettiva che non
può essere qualificata nemmeno in termini di interesse legittimo (nel qual caso rientrerebbe nella
giurisdizione del giudice amministrativo).
Si pensi, per fare un esempio, ai cosiddetti “atti politici” che rientrano nella discrezionalità assoluta
dell’esecutivo e dei quali quest’ultimo risponde con la propria responsabilità politica di fronte al
parlamento ed all’elettorato. Un “atto politico” non è impugnabile né dinanzi al giudice ordinario, né
dinanzi a giudice speciale.
Si parla, in queste ipotesi, di improponibilità assoluta della domanda.
IL REGIME PROCESSUALE DELLE QUESTIONI DI GIURISDIZIONE
Le questioni pregiudiziali sono considerate dal codice come pregiudiziali di rito, in quanto hanno
ad oggetto l’accertamento della sussistenza o meno della giurisdizione, con riferimento ad una
determinata e già instaurata controversia.
Siffatto accertamento deve essere compiuto – logicamente e temporalmente – “prima” di ogni altro
accertamento (in questo senso esso ha carattere “pregiudiziale”) e può condurre, in caso di difetto
di giurisdizione, alla pronuncia di una sentenza “definitiva” che, cioè, chiude il processo dinanzi al
giudice che la pronuncia.
La disciplina contenuta nell’art. 37 c.p.c. concerne le modalità temporali di rilevazione delle
questioni di giurisdizione, nonché l’individuazione dei soggetti (giudice e parti) legittimati al
rilievo o all’eccezione.
Il primo comma dello stesso art. 37 c.p.c. sancisce il principio della rilevabilità – anche d’ufficio da
parte del giudice, in ogni stato e grado del processo – delle questioni di giurisdizione nei confronti
della pubblica amministrazione e dei giudici speciali.
Questo principio esprime il massimo “interesse” da parte del legislatore processuale a consentire il
rilievo di tali questioni senza limiti cronologici, anche d’ufficio, cioè sia su iniziativa delle parti (di
norma, il convenuto), sia anche su impulso officioso del giudice, in virtù i poteri-doveri che la legge
gli attribuisce; tale potere può essere esercitato, per la prima volta, anche in appello o in
Cassazione, sempre che la questione non sia stata oggetto di rilievo e di decisione nel o nei
precedenti gradi del processo.
Le questioni di giurisdizione possono essere introdotte, dal giudice o dalle parti, in ogni fase e
grado del processo, ma sempre nel rispetto del contraddittorio tra le parti le quali, anche di fronte
al rilievo officioso, debbono essere messe in grado di esercitare le rispettive difese attorno alla
questione di giurisdizione, prima che questa sia oggetto di decisione da parte del giudice.
All’interno delle questioni di giurisdizione, una disciplina particolare è dettata dal legislatore
relativamente alla sussistenza della giurisdizione italiana nei confronti del convenuto straniero.
L’art. 11 della legge n. 218/1995 prevede che il difetto di giurisdizione del giudice italiano possa
essere rilevato, in qualunque stato e grado del processo, “soltanto dal convenuto costituito che non
abbia espressamente o tacitamente accettato la giurisdizione italiana”, mentre è rilevato dal
giudice d’ufficio, sempre in qualunque stato e grado del processo, se il convenuto è contumace, se
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ricorre l’ipotesi di cui all’art. 5 della stessa legge, ovvero se la giurisdizione italiana è esclusa per
effetto di una norma internazionale.
In sostanza, il convenuto che si costituisce in giudizio senza eccepire il difetto di giurisdizione non
fa altro che accettare tacitamente la giurisdizione italiana, che sussiste, legittimando l’esercizio
della funzione giurisdizionale da parte del giudice italiano, proprio in virtù di quella accettazione.
IL REGOLAMENTO DI GIURISDIZIONE E L’EFFICACIA DELLE DECISIONI DELLA
CASSAZIONE SULLE QUESTIONI DI GIURISDIZIONE
L’art. 41 c.p.c. consente che, su richiesta di una delle parti, le questioni di giurisdizione di cui all’art.
37 possano essere decise dalle sezioni unite della Corte di cassazione in sede di regolamento di
giurisdizione.
Questa pronuncia, nell’eliminare ogni dubbio circa la sussistenza o meno della giurisdizione,
vincola il giudice adito, impedendo ogni ulteriore, eventuale spreco di attività giurisdizionale.
Il legislatore ha voluto realizzare la finalità:
di consentire la proponibilità dell’istanza di regolamento fino alla pronuncia della sentenza
di merito di primo grado;
di ritenere ammissibile la proposizione dell’istanza di regolamento anche in assenza di
qualsivoglia pronuncia sulla giurisdizione da parte del giudice investito del merito;
di non escludere la proponibilità dell’istanza di regolamento anche in presenza di sentenza
sulla giurisdizione, non potendo quest’ultima essere considerata come sentenza “di merito”
(la questione di giurisdizione è, infatti, una questione di rito).
Secondo un ormai consolidato orientamento della giurisprudenza della Cassazione, è
inammissibile l’istanza di regolamento di giurisdizione proposta a seguito di qualsiasi decisione,
compresa quella sulla sola giurisdizione, emanata dal giudice del merito dinanzi al quale il
processo è stato radicato.
L’istanza di regolamento di giurisdizione si propone con ricorso notificato alle altre parti del
processo a norma degli artt. 364 ss c.p.c. che deve contenere, oltre all’esposizione dei fatti, le
ragioni che secondo l’istante devono condurre alla negazione della giurisdizione del giudice adito.
Copia del ricorso notificato deve essere depositata nella cancelleria del giudice davanti a cui
pende la causa di merito, al fine di consentire a quest’ultimo di provvedere sulla eventuale
sospensione del processo ai sensi dell’art. 367 c.p.c.
La proposizione dell’istanza di regolamento non incide, dunque, sulla potestà decisoria del giudice
il quale, se dispone la sospensione, ravvisa l’opportunità di attendere l’accertamento sulla
questione di giurisdizione da parte delle sezioni unite della Corte di cassazione ma, ove non la
disponga, ordina la prosecuzione del processo al fine di pervenire alla (eventuale) decisione di
merito.
L’aver consentito come legittima la prosecuzione del processo di merito pur in pendenza del
procedimento di regolamento dinanzi alla Cassazione sta significare che:
a) se le sezioni unite della Cassazione accertano dal giudice di merito non potranno più
essere ulteriormente contestati, nell’ulteriore corso del processo, con riferimento alla
giurisdizione;
b) laddove, al contrario, il procedimento di regolamento si concluda con l’accertamento
definitivo, quegli atti e quei provvedimenti ne saranno immediatamente travolti, in quanto
pronunciati su un presupposto che le sezioni unite hanno accertato come insussistente.
Le sezioni unite decidono sull’istanza di regolamento di giurisdizione con ordinanza (e non più con
sentenza).
Controverso è il problema degli effetti dell’ordinanza della Cassazione su questioni di giurisdizione
se, cioè, essi siano limitati al processo nel corso del quale l’istanza di regolamento è stata
sollevata (con effetti “endoprocessuali”) ovvero se, in caso di sopravvenuta estinzione del
processo di merito, vincolino anche tutti i futuri giudici chiamati a pronunciarsi sul medesimo diritto
51
o rapporto giuridico sostanziale già fatto valere nel processo estinto (con effetti, in questo caso,
“panprocessuali”).
Pur nel silenzio dell’art. 310 c.p.c., riteniamo che la medesima efficacia panprocessuale debba
essere riconosciuta anche ai provvedimenti in esame, in quanto la funzione di assicurare
l’obbedienza dei giudici di merito alle leggi sostanziali e processuali, impone – ad avviso degli
autori, dissenziente dall’opinione dominante – che ogni decisione su questione risolta dalle
sentenze della Corte di cassazione costituisca un “precedente assolutamente vincolante” per ogni
giudice investito della medesima domanda, in riguardo alla quale la detta questione è sorta.
Siffatta efficacia vincolante verrà meno se sopravvengono, tra l’estinzione del processo e la
riproposizione della medesima domanda anche davanti allo stesso giudice, fatti nuovi e diversi,
rilevanti ai fini dell’attribuzione della giurisdizione.
C N
APITOLO ONO
LA COMPETENZA
NOZIONE DI COMPETENZA. COMPETENZA STATICA E COMPETENZA DINAMICA
Secondo la nozione tradizionale, la competenza è l’ampiezza o misura della sfera di potestà
giurisdizionale attribuita ai singoli giudici, quale risulta da una serie di previsioni normative, che
trovano tutte riferimento al momento che precede l’instaurazione del processo, quando cioè l’attore
è chiamato ad individuare tale giudice tra tutti quelli della Repubblica, facendo applicazione di
criteri che, in quanto prescindono dalla pendenza del processo, si debbono definite “statici”. 52
Talvolta la legge prevede che il giudice adito – malgrado sia incompetente – “diventa” invece
competente, se nel corso del processo si verificano determinate circostanze da essa stessa
descritte.. si tratterebbe di una sorta di meccanismo di “sanatoria” capace di “assorbire” il presunto
“vizio” originario di competenza.
A bene vedere, però, l’ordinamento non si limita a disciplinare una serie di criteri astratti di
competenza, ma conosce e prevede fattispecie che trovano il proprio fondamento teorico e la
stessa ragione giustificatrice in esigenze strettamente legate alla “dinamica” del processo, cioè al
suo concreto svolgimento.
Tali fattispecie, che possiamo definire di competenza “dinamica”, attribuiscono al giudice adito la
competenza a decidere sul merito, a prescindere e talvolta anche in contrasto con i criteri statici.
In sostanza, dopo l’entrata in vigore del codice di procedura civile del 1940, la nozione di
competenza quale presupposto processuale indispensabile per la valida instaurazione del
processo può ritenersi superata e si è acquisita consapevolezza che la competenza non riguarda
più la proposizione della domanda, bensì lo svolgimento del giudizio per la trattazione della stessa.
In questo contesto la nozione di competenza deve essere considerata come condizione di
esercizio del dovere decisorio sul merito, comprendente sia i poteri di trattazione che di decisione
sulla fondatezza della domanda: in una parola, come requisito di legittimazione ai fini
dell’esercizio del dovere decisorio.
Le fattispecie di competenza dinamica si distinguono in dirette o indirette, a seconda del loro
diverso modo di operare nel processo e di pervenire all’individuazione del giudice competente:
le fattispecie “dirette” producono i loro effetti dal momento della iniziale pendenza del
processo, anche se sottoposti alla condizione risolutiva che il difetto di competenza non sia
eccepito dalle parti o rilevato dal giudice. in pratica, le fattispecie di competenza dinamica
“dirette” sono potenzialmente idonee ad individuare direttamente ed autonomamente il
giudice competente in mancanza di eccezione di parte o di rilievo d’ufficio da parte del
giudice;
le fattispecie “indirette” presuppongono, al contrario, il verificarsi, nel corso di svolgimento
del processo già instaurato, di determinati comportamenti delle parti o la pronuncia di
provvedimenti del giudice, che consentono di individuare o contribuiscono a designare il
giudice competente a conoscere della controversia.
I TRADIZIONALI CRITERI DI COMPETENZA IN SENSO STATICO: MATERIA, VALORE E
TERRITORIO
Per individuare il giudice competente a conoscere di una determinata controversia dinanzi al quale
l’attore deve proporre la domanda (art. 99 c.p.c.), soccorrono diverse
categorie di criteri di competenza, in relazione alla materia (cioè alla natura della controversia o al
tipo di diritto in contestazione), al valore (cioè alla valutazione economica dell’oggetto della
controversia) ed al territorio (cioè all’ubicazione dell’ufficio giudiziario).
Le prime due categorie operano in senso verticale, cioè tenendo conto dei diversi tipi di giudici
previsti dal nostro ordinamento giudiziario; la terza ha esclusivo riferimento alla dislocazione sul
territorio dei vari uffici giudiziari dello stesso tipo ed opera, quindi, in senso orizzontale.
I criteri della materia e del valore si applicano nel senso che, in mancanza di regole di competenza
per materia, il criterio del valore ha carattere generale. I due criteri operano, talvolta,
congiuntamente.
Una volta stabilito il giudice competente in senso verticale, è possibile individuare, attraverso
l’applicazione del criterio orizzontale, il giudice territorialmente competente a conoscere della
controversia.
L’applicazione dei predetti criteri statici consente all’attore di individuare il giudice competente a
conoscere della controversia in primo grado, mentre l’individuazione del giudice competente a
conoscere della stessa controversia in grado si appello deve essere operata in relazione al
giudice che abbia in concreto deciso la causa, dovendosi l’appello proporre dinanzi al giudice
immediatamente superiore, nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha pronunciato la
sentenza impugnata. 53
Con riguardo alla competenza per materia, questo criterio fonda sulla natura e “qualità” della
controversia. Questo criterio può essere definito “forte” per l’impossibilità che esso costituisca tra
le parti oggetto di deroga, sia patrizia (prima del processo), sia processuale (nel corso di
svolgimento), nonché per la sua non modificabilità per ragioni di connessione.
Per quanto attiene alla competenza per valore, essa ha riguardo all’aspetto “quantitativo” della
causa, cioè alla misura del valore economico del bene o del rapporto dedotto in giudizio. La regola
generale è che il valore della causa si determina dalla domanda; le domande proposte
originariamente nello stesso processo contro la stessa persona si sommano tra loro.
Per quanto riguarda alla competenza per territorio, tale criterio opera in senso orizzontale e
consente di individuare, tra i vari giudici dello stesso tipo dislocati sul territorio della Repubblica,
quello competente a conoscere della controversia.
Regola generale è che la controversia deve essere instaurata dinanzi al giudice del territorio di
appartenenza del convenuto, cioè del soggetto contro il quale la causa viene proposta. A questo
fine, gli artt. 18 e 19 c.p.c. individuano il “foro generale” del convenuto, valido cioè in relazione a
tutte le controversie da proporsi nei confronti di persone fisiche o giuridiche.
Per le prime, è competente il giudice del luogo in cui il convenuto ha la residenza o il domicilio e,
se questi non sono conosciuti, quindi solo in via sussidiaria, quello del luogo in cui il convenuto ha
la dimora.
Foro generale delle persone giuridiche è, invece, quello del luogo dove esse hanno la sede,
oppure uno stabilimento.
Accanto ai due fori generali sin qui descritti, l’art. 20 c.p.c. prevede per la cause relative a diritti di
obbligazione due fori speciali facoltativi: quello del luogo in cui è sorta l’obbligazione e quello del
luogo in cui l’obbligazione deve essere eseguita.
Gli artt. 21-27 individuano, infine, i fori speciali esclusivi, che cioè derogano a quelli generali in
relazione a determinate controversie.
In alcuni casi, il codice di procedura civile lega l’individuazione del giudice competente
all’applicazione congiunta di criteri di competenza per materia e per valore. Particolarmente
significativa a questo riguardo è la gamma dell’attribuzione di competenze al giudice di pace.
L’art. 7 c.p.c. riconosce al giudice di pace la competenza a conoscere delle cause relative a beni
mobili di valore non superiore a 2.582,28€, salvo che non siano dalla legge assegnate alla
competenza di altro giudice, ma al secondo comma attribuisce allo stesso giudice di pace la
competenza a conoscere delle cause di risarcimento del danno prodotto dalla circolazione di
veicoli e di natanti, sempre che il valore della controversia non superi gli € 15.493,71.
Infine, il quarto comma attribuisce al giudice di pace la competenza per materia per una serie di
cause (ad esempio, tutte le cause “di vicinato” nei condomini di case), senza alcun limite di valore.
IL PRINCIPIO DI INDEROGABILITÀ CONVENZIONALE DELLA COMPETENZA
L’art. 6 c.p.c. prevede che la competenza non può essere derogata “per accordo delle parti”, salvo
che nei casi stabiliti dalla legge. La ragione di tale divieto deve ricercarsi nell’esigenza di garantire
la precostituzione per legge del giudice “naturale” (art. 25 Cost.).
L’art. 28 c.p.c. elenca alcune ipotesi (ad esempio, le cause nelle quali è necessario l’intervento del
pubblico ministero, i procedimenti cautelari, possessori, in camera di consiglio, e di esecuzione
forzata, ecc) nelle quali il foro territoriale non può essere derogato dall’accordo delle parti.
Al di fuori di tali casi (cosiddetti di competenza per territorio inderogabile o “funzionale”), le
parti possono pattiziamente derogare alla competenza per territorio, pur con le opportune cautele
predisposte dal secondo comma dell’art. 1341 c.c., che impone ad substantiam la specifica
approvazione per iscritto della clausola di deroga, equiparata alle clausole contrattuali cosiddette
“vessatorie”.
LA COMPETENZA DEL TRIBUNALE QUALE GIUDICE UNICO DI PRIMO GRADO. SEDE DEL
TRIBUNALE E SEZIONI DISTACCATE
Il d. lgs. N. 51/1998 ha operato una organica ristrutturazione degli uffici giudiziari di primo grado
secondo il modello del giudice unico. Esso ha soppresso le preesistenti preture circondariali ed ha
contestualmente trasferito le relative competenze e funzioni ai tribunali. 54
Il nuovo ruolo del giudice unico (togato) di primo grado e, in particolare, la sua caratterizzazione
come giudice prevalentemente monocratico, fanno del tribunale ordinario un ufficio oggi diverso da
quello del passato, con una nuova struttura organizzativa che dovrebbe consentire una maggiore
specializzazione dei giudici, soprattutto nei tribunale divisi in sezioni.
L’art. 9 c.p.c. assegna al tribunale la competenza a conoscere di “tutte le cause che non sono di
competenza di altro giudice”.
Con la soppressione degli uffici di pretura, la nuova normativa ha altresì introdotto le sezioni
distaccate di tribunale: la conseguenza più rilevante è che i rapporti tra sede principale e sezione
distaccata non possono mai dar luogo a questioni di competenza.
Alle sezioni distaccate sono assegnate le cause civili a trattazione monocratica, quando il luogo
che determina la competenza territoriale rientri nella circoscrizione delle sezioni stesse, ovvero nel
territorio di uno dei comuni compresi nella circoscrizione in questione.
IL REGIME DELL’INCOMPETENZA
Le fattispecie “dirette” di competenza dinamica sono tutte strettamente legate al fenomeno
dell’incompetenza.
Per quanto riguarda l’incompetenza per territorio semplice, l’art6. 38 prevede che la relativa
eccezione debba essere proposta, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta del convenuto
e debba contenere (altrimenti si ha “per non proposta”) l’indicazione del giudice che “la parte
ritiene competente”).
In questo caso la norma esclude ogni potere officioso del giudice di rilevazione dell’incompetenza,
lasciando al solo convenuto l’iniziativa di eccepire l’eventuale violazione dei criteri statici.
La mancata o intempestiva proposizione, da parte del convenuto, dell’eccezione d’incompetenza
territoriale sono state qualificate dalla dottrina come fattispecie “sananti” che determinano, cioè,
l’automatica eliminazione del “vizio” originario di competenza e la contestuale convalidazione di atti
processuali compiuti dal giudice incompetente.
In altre parole, quest’ultimo “diventerebbe” competente solo nel corso del processo.
A ben vedere, però, l’ordinamento riconosce al convenuto l’interesse a sollevare l’eccezione di
incompetenza territoriale ed il potere di far caducare gli effetti della fattispecie condizionata di
competenza dinamica.
Non si determina, dunque, alcuna sanatoria poiché non vi è un vizio da sanare, né si verifica alcun
fenomeno di legittimazione sopravvenuta in quanto, a prescindere dall’effettivo rispetto dei criteri
statici da parte dell’attore, il giudice adito è “dinamicamente” e sin dall’origine competente a
conoscere e decidere nel merito la controversia, e la sua “legittimazione” non è legata all’inerzia,
più o meno volontaria e consapevole, del convenuto.
Il primo comma dell’art. 38 c.p.c. prevede, inoltre, un unico limite temporale di esercizio del potere
di rilevazione (di parte e d’ufficio) dell’incompetenza per materia, valore e territorio
inderogabile, individuato “non oltre la prima udienza di trattazione”.
Decorso il termine ultimo per l’eccezione o il rilievo officioso dell’incompetenza per materia, valore
o territorio inderogabile, il venir meno dei relativi poteri non danno luogo ad alcun fenomeno di
“legittimazione sopravvenuta del giudice incompetente”.
Il giudice adito, lo si ripete, era già competente al momento della iniziale pendenza del processo, in
virtù di una fattispecie di competenza dinamica, che gli attribuisce il potere di decisione sul merito,
a lui stesso negato dalle norme di competenza statica.
L’ACCORDO PROCESSUALE DI DEROGA. LA SENTENZA DECLINATORIA DI
COMPETENZA
Il secondo comma dell’art. 38 c.p.c. consente alle parti, con riferimento alla competenza per
territorio semplice, di aderire all’indicazione del giudice competente fatta dal convenuto nella
comparsa di risposta, contestualmente alla proposizione dell’eccezione d’incompetenza territoriale,
attribuendo a tale accordo l’effetto di “tener ferma” la competenza del giudice indicato.
Si tratta di una fattispecie “indiretta” di competenza in senso dinamico, attraverso la quale si
consente alle parti di risolvere il contrasto sul foro territoriale attraverso la combinazione di due
attività: l’accettazione concorde di tutte le parti dell’indicazione del giudice ad quem, e la
55
riassunzione della causa dinanzi a quest’ultimo, per impulso della parte più diligente, entro un
termine perentorio.
Un ruolo particolare tra le fattispecie indirette di competenza dinamica è assegnato a quella che si
verifica allorché il giudice adito, ritenendosi incompetente, pronuncia sentenza declinatoria
designando, come impostogli dall’art. 44 c.p.c., il giudice ritenuto competente, anche a prescindere
da qualsiasi richiesta di parte.
Nell’ipotesi regolata dall’art. 44 c.p.c., la designazione del giudice ad quem è, dunque, contenuta in
un provvedimento giurisdizionale (la sentenza d’incompetenza) e presuppone l’accertamento e la
conseguente applicazione dei criteri statici da parte del giudice, sia ai fini della declinatoria della
propria competenza, sia soprattutto dell’indicazione del giudice ritenuto competente.
LA DECISIONE SULLA COMPETENZA
L’ultimo comma dell’art. 38 c.p.c. consente al giudice di decidere subito sulla questione di
competenza (cioè a prescindere della decisione sul merito della causa) qualora ne valuti la
concreta “potenzialità impediente”, cioè l’attitudine a dar luogo ad una pronuncia di incompetenza
che chiuderà il giudizio dinanzi a sé.
È opportuno osservare che:
a) la decisione è resa “ai soli fini della competenza”, cioè senza pregiudizio alcuno per il
merito della causa;
b) la decisione è normalmente emanata “in base a quello che risulta dagli atti” senza
procedere ad apposita istruzione, salvo che l’eccezione del convenuto o il rilievo del giudice
rendano necessario assumere sommarie informazioni che appaiano indispensabili al fine di
decidere sulla sola competenza.
L’EFFICACIA DELLE SENTENZE SULLA COMPETENZA PRONUNCIATE DAL GIUDICE DI
MERITO
L’effetto di incontestabilità che l’art. 44 c.p.c. assegna alla sentenza declinatoria di competenza
è da ricollegare ai principi di competenza dinamica per effetto dei quali il giudice legittimato a
decidere la controversia viene ad essere individuato, durante la pendenza della lite, anche a
prescindere o addirittura in contrasto con i criteri statici.
L’incontestabilità in parola non è diretta a produrre autonomi e stabili effetti, ma a ricercare ed
individuare il giudice competente.
Si debbono individuare, nella pronuncia in esame, due distinti accertamenti: il primo consiste nel
definitivo riconoscimento, da parte del giudice a quo, dell’assenza del suo dovere di decidere sul
merito e tale accertamento negativo non si sottrae ai principi del giudicato formale; il secondo,
invece, costituito dalla designazione del giudice ad quem, fa parte della fattispecie indiretta di
competenza dinamica e trae da essa la propria giustificazione.
Per questo, la prevalente dottrina afferma la mera efficacia “endoprocessuale” (cioè limitata al
processo in corso) di tali sentenze, con la conseguenza della loro totale caducazione a seguito
dell’estinzione del processo.
I REGOLAMENTI DI COMPETENZA “NECESSARIO” E “FACOLTATIVO”. L’EFFICACIA
DELLE DECISIONI DELLA CASSAZIONE SULLE QUESTIONI DI COMPETENZA
Gli artt. 42 e ss c.p.c. contengono la disciplina del regolamento di competenza, che è un mezzo
di impugnazione attraverso il quale è concesso alle parti di richiedere ed ottenere dalla Corte di
cassazione accertamento definitivo e vincolante circa l’individuazione del giudice competente a
conoscere della controversia.
A differenza del regolamento di giurisdizione, il regolamento di competenza presuppone sempre la
previa pronuncia di una sentenza (definitiva o non definitiva) sulla competenza stessa: questa
caratteristica è in grado, sembra, di eliminare ogni dubbio circa la natura dello stesso, nel senso
che il regolamento (ad istanza di parte) è un vero e proprio mezzo di impugnazione sia pure
“speciale”. 56
L’istituto del regolamento di competenza non trova applicazione per le sentenze del giudice di
pace. in questo caso, il mezzo di impugnazione con il quale la parte può far valere la questione di
incompetenza è rappresentato dall’appello.
Occorre distinguere tra il regolamento di competenza “ad istanza di parte” e quello “d’ufficio”.
Il regolamento ad istanza di parte può essere necessario (art. 42 c.p.c.) o facoltativo (art. 43
c.p.c.), a seconda che la decisione impugnata contenga esclusivamente una pronuncia sulla
competenza, ovvero che alla stessa si accompagni la decisione sul merito o su una questione
preliminare di merito.
Il carattere “necessario” del regolamento va inteso nel senso che tale mezzo costituisce l’unico
rimedio che la legge pone a disposizione della parte interessata per censurare, ed eventualmente
far caducare, la decisione sulla competenza. Per contro, in presenza di sentenza che abbia
pronunciato sulla competenza insieme al merito, l’art. 43 c.p.c. prevede la mera possibilità che
essa sia impugnata con regolamento di competenza, che la norma definisce per questo
“facoltativo”.
Ciò rende possibile il concorso tra i mezzi d’impugnazione (il regolamento di competenza e
l’appello) in caso di pluralità di parti soccombenti se, come si è detto, una parte sceglie di fare
istanza di regolamento (impugnando solo il capo della sentenza relativo alla competenza) ed altra
parte sceglie di proporre l’impugnazione ordinaria.
Al verificarsi di questa eventualità, la legge prevede:
se una delle parti soccombenti propone l’appello, le altre parti non perdono la facoltà di
proporre istanza di regolamento, da esercitarsi entro il termine di legge;
se l’istanza di regolamento viene proposta dopo la notificazione dell’atto di appello, il
processo è sospeso in attesa della decisione della Cassazione sul regolamento.
Gli artt. 47 e 49 c.p.c. descrivono il procedimento da seguirsi in caso di proposizione del
regolamento di competenza.
Quest’ultimo si propone con ricorso rivolto alla Corte di cassazione e notificato alle altre parti entro
il termine perentorio di trenta giorni dalla comunicazione della sentenza sulla sola competenza
ovvero dalla notificazione dell’impugnazione ordinaria, nel caso di regolamento facoltativo.
Con la pronuncia di regolamento – che assume la forma dell’ordinanza – la Corte di cassazione
statuisce definitivamente sulla competenza identificando, in riguardo a tutti i possibili criteri di
competenza, un solo giudice legittimato alla trattazione e decisione della controversia nel merito.
La pronuncia di regolamento da parte della Corte di cassazione – a differenza di quella emessa dal
giudice di merito – ha efficacia “panprocessuale” ed è espressamente sottratta agli effetti
caducatori dell’estinzione del processo. Essa ha, pertanto, effetti vincolanti per tutti i futuri giudici
della causa i quali non possono declinare la propria competenza.
Ove, in violazione di detto divieto, il giudice della causa si dichiari incompetente, avverso questa
sentenza è esperibile un nuovo regolamento di competenza, ma la Corte non dovrà riesaminare la
questione di competenza, bensì limitarsi a prendere atto della precedente statuizione da essa già
emessa e cassare la sentenza del giudice di merito che sia stata impugnata con il secondo
regolamento di competenza.
IL REGOLAMENTO “D’UFFICIO”
Per comprendere le ragioni della previsione del regolamento di competenza “d’ufficio” contenuta
nell’art. 45 c.p.c., occorre premettere che il codice di procedura civile del 1940 ha apportato
incisive deroghe al principio in base al quale ogni giudice è giudice anche della propria
competenza.
Come si è detto, in base all’art. 44 c.p.c., il giudice originariamente adito ha il potere-dovere di
designare, contestualmente alla dichiarazione della propria incompetenza, il giudice da lui ritenuto
competente a conoscere della controversia.
Questa previsione è stata in certo senso “compensata” da quella di cui al citato art. 45 c.p.c. che
riconosce al giudice ad quem (cioè a quello indicato dal giudice dichiaratosi incompetente) il
potere-dovere di richiedere “d’ufficio” il regolamento alla Corte di cassazione, nel caso in cui si
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ritenga a sua volta incompetente, ma esclusivamente per ragioni di materia o di competenza
territoriale inderogabile.
Il legislatore ha, quindi, voluto da un lato sottrarre il giudice ad quem alla efficacia d’incontestabilità
della designazione operata da un altro giudice “di pari grado”; e, dall’altro, impedire allo stesso
giudice ad quem la pronuncia di ulteriore sentenza declinatoria della competenza (dopo quella già
emessa dal giudice a quo).
In pratica, l’istanza di regolamento “d’ufficio” ex art. 45 c.p.c. presuppone sempre un conflitto
“virtuale” di competenza, in quanto, non potendo il giudice ad quem pronunciare con sentenza la
propria incompetenza, non ha modo di verificarsi un conflitto “reale” negativo (cioè l’ipotesi che i
due giudici si dichiarino entrambi incompetenti).
A differenza di quello ad istanza di parte, il mezzo in esame non potendo avere natura
impugnatoria per la qualità del soggetto che lo propone (il giudice), presenta caratteri di assoluta
specialità che non consentono il suo inserimento in alcuna categoria o schema concettuale già
conosciuti. C D
APITOLO ECIMO
ESERCIZIO DELL’AZIONE E DOMANDA GIUDIZIALE
DIRITTO DI AZIONE E PRINCIPIO DELLA DOMANDA
Alle funzioni di tutela giurisdizionale dei diritti che si attuano per mezzo del processo ordinario di
cognizione, il giudice provvede su domanda di parte, previo esercizio del diritto di azione. 58
Per individuare l’esatto significato della nozione di azione occorre tener conto del fatto che varie
norme del codice sembrano0 identificare l’esercizio dell’azione con la proposizione della domanda.
Tale identificazione appare confermata, ad esempio, dall’art. 310 c.p.c. che, con il prevedere che
“l’estinzione del processo non estingue l’azione”, sta a significare che la domanda nel processo
estinto può essere riproposta in un nuovo processo.
Anche l’art. 99 c.p.c. sembra ravvisare nell’esercizio dell’azione la manifestazione della volontà di
far valere il tutelando diritto, nel mentre gli artt. 100 e 81 c.p.c. non parlano di manifestazione di
volontà di far valere il diritto, ma di condizioni per farlo valere, e richiedono l’esistenza
dell’interesse ad agire.
L’azione ed il suo collegamento con la domanda assumono anche i seguenti significati:
a) l’azione è, anzitutto, il diritto civico di adire gli organi giurisdizionali, che spetta in via
astratta ad ogni soggetto;
b) si dice azione anche il potere di insistere nella domanda proposta, che nasce dall’atto
introduttivo e si consuma solo con la pronuncia di merito, salvo il diritto di riproporla, ove il
processo non si chiuda con una pronuncia di merito, in un nuovo processo.
la domanda costituisce, dunque, l’atto di esercizio del primo potere processuale che l’ordinamento
riconosce all’attore: oltre ad individuare l’oggetto del processo, la domanda si caratterizza quale
potere di impulso per effetto del quale ha origine il fenomeno processuale. Questo potere di
impulso è attribuito dalla legge al monopolio della parte e rappresenta una indispensabile garanzia
di terzietà del giudice (nemo iudex sine actore).
LE CONDIZIONI DELLA TUTELA DIVERSE DALL’ESISTENZA DEL DIRITTO: LA
LEGITTIMAZIONE AD AGIRE E L’INTERESSE AD AGIRE
Di norma, la domanda è legittimamente proposta dal soggetto che si afferma titolare del diritto o
del rapporto giuridico sostanziale che si fa valere in giudizio.
La coincidenza dell’attore e del convenuto con i soggetti che sono destinatari degli effetti della
tutela invocata (legittimazione ad agire) costituisce oggetto di una verifica che il giudice è tenuto
a compiere anche ex officio, preliminarmente all’esame di merito, in ogni stato e grado del
processo.
Allo stesso modo è condizione della tutela che questa non possa essere concessa se non nei
confronti di chi è per legge il destinatario dell’effetto o degli effetti in cui la tutela si concreta
(legittimazione a contraddire).
Ulteriore condizione necessaria dell’azione e della tutela invocata – richiesta dall’art.100 c.p.c. – è
costituita dall’interesse ad agire: al fine di conseguire la tutela, occorre dimostrare, caso per
caso, che il risultato del processo perseguito dall’attore è il mezzo necessario per ottenere un bene
che sia materia del diritto soggettivo e che gli strumenti sostanziali non abbiano fornito o
mantenuto.
Per dirla con le parole del Chiovenda: il processo “deve dare per quanto è possibile a chi ha
un diritto tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire”.
GLI EFFETTI PROCESSUALI E SOSTANZIALI DELLA DOMANDA
La domanda deve essere considerata, oltre che nel suo aspetto statico d’individuazione
dell’oggetto della decisione (c.d. thema decidendum), anche nel suo profilo dinamico, che si
ricollega alle vicende genetiche del fenomeno processuale.
Dalla notificazione della domanda l’ordinamento fa discendere il primo tra gli effetti processuali,
espressamente sancito dall’art. 39 c.p.c., cioè quello della pendenza della lite (o litispendenza in
senso fisiologico), che fissa il momento iniziale del processo.
Vi sono, poi, altri effetti processuali che si producono all’atto della proposizione della domanda: si
pensi al momento determinante della giurisdizione e della competenza, che ha riguardo alla legge
vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda (c.d.
perpetuatio iurisdictionis). 59
Poiché la domanda si concreta sempre in un atto processuale con il quale si chiede che il giudice
provveda sul diritto o sul rapporto giuridico sostanziale dedotto, oltre agli effetti tipicamente
processuali, la legge contempla alcuni effetti sostanziali distinguibili in due tipologie:
1. effetti che sono disposti dalla legge per dare maggiore efficienza al provvedimento di
merito e alla sua forza di tutela;
2. effetti sostanziali che sono, invece, disposti in ragione della volontà dell’attore di far valere
il diritto contro il convenuto, della quale la domanda è sicura manifestazione.
La distinzione sopra posta è produttiva di rilevanti conseguenze. Se, infatti, il processo si estingue
o comunque si conclude con sentenza non in merito, gli effetti sostanziali della domanda sono
travolti e vengono meno, come previsto dalla regola generale contenuta nell’art. 30 c.p.c.
Per quegli effetti, invece, che discendono dalla manifestazione della volontà di far valere il diritto
contro il convenuto, solo l’analisi delle singole normative può chiarire se la domanda è equiparata
ad altre manifestazioni sostanziali della detta volontà o se questa è presa in considerazione dalla
legge solo in quanto diretta alla tutela giurisdizionale del diritto.
Nella prima ipotesi gli effetti sostanziali sopravvivono alla definizione non in merito del processo,
ad esempio all’estinzione; nella seconda ipotesi la chiusura non in merito del processo fa cadere
gli effetti sostanziali della domanda, non avendo questa raggiunto lo scopo di assicurare la tutela
giurisdizionale del diritto.
LA DOMANDA GIUDIZIALE E IL PROBLEMA DELLA SUA “IDENTIFICAZIONE”. IL PETITUM
I criteri di identificazione dell’azione sono considerati come criteri di identificazione della
domanda giudiziale.
I risultati raggiunti dalla moderna teoria dell’azione hanno da tempo reso evidente che l’”oggetto”
che si deve identificare è la domanda, intesa come mezzo attraverso il quale la parte fa valere in
giudizio un diritto o rapporto giuridico, invocandone la tutela giurisdizionale.
Va però subito osservato che la domanda giudiziale non può essere valutata soltanto con
riferimento all’atto introduttivo del processo (atto di citazione, ricorso) e “cristallizzata” al momento
in cui esso ha inizio con quell’atto: la domanda è, infatti, sottoposta a fenomeni dinamici che si
sviluppano nel corso del processo attraverso l’esercizio di poteri e/o facoltà delle parti di
“precisazione” e di “modificazione”.
Una tradizione più che secolare identifica gli elementi individuatori della domanda nei soggetti, nel
petitum e nella causa petendi.
Il requisito soggettivo (personae) d’identifica tenendo conto del soggetto attivo e passivo, cioè
dell’attore e del convenuto, che vanno individuati con riferimento ai soggetti del rapporto giuridico
sostanziale affermato, che, una volta dedotto in giudizio, fa conseguire ad essi la qualità di parte.
Il petitum è l’oggetto della domanda, identifica ciò che si chiede con essa.
È possibile distinguere il petitum immediato da quello mediato. Il primo consiste nel provvedimento
che viene richiesto al giudice (di condanna, di mero accertamento, ecc), identifica, cioè, il tipo di
tutela giurisdizionale invocata; il petitum mediato è, invece, il “bene della vita” che il soggetto che
propone la domanda vuole conseguire nei confronti dell’altra parte (una somma di denaro, una
prestazione discendente da contratto, ecc.).
(SEGUE) … LA CAUSA PETENDI
È sul secondo requisito oggettivo (la causa petendi) che ancora oggi continuano a sussistere
gravi incertezze interpretative.
Etimologicamente causa petendi significa “ragione del domandare”, titolo giuridico sul quale la
domanda si fonda, comprendente “i fatti e gli elementi di diritto costituenti le ragioni della
domanda”.
Ma questa definizione, per la sua evidente genericità, è inidonea a descrivere la realtà sostanziale
che sta a base della domanda introduttiva e ad individuare modalità ed eventuali limiti entro i quali
il diritto o rapporto giuridico sostanziale affermato entra a far parte della domanda, contribuendo
per ciò stesso, ad identificarla. 60
Per meglio fissare il significato ed i riflessi della causa petendi, occorre muovere dagli artt. 24 Cost,
2907 c.c. e 99 c.p.c., che indicano chiaramente che l’oggetto del processo non èp costituito mai da
fatti o da atti, ma sempre e solo da diritti, cioè proprio il diritto fatto valere con la domanda, con la
quale l’attore è chiamato ad indicare i fatti costitutivi ed identificativi del diritto affermato.
La dottrina dominante – sulle orme di Chiovenda – distingue, al riguardo, i diritti (e correlative
domande) autodeterminati dai diritti (e correlative domande) eterodeterminati, affermando che per i
primi il mutamento del fatto costitutivo non comporta, per i secondi comporta, mutamento di causa
petendi.
I diritti autodeterminati sono quelli che non possono sussistere simultaneamente, con lo stesso
contenuto, tra gli stessi soggetti: sono, cioè, diritti che s’individuano sulla base della sola
indicazione del loro contenuto, anche indipendentemente dal fatto genetico (si pensi al diritto di
proprietà e agli altri diritti assoluti, nonché ai diritti reali di godimento).
Ad esempio, se si agisce in giudizio rivendicando, supponiamo a titolo contrattuale, la proprietà di
un certo fondo e poi, in corso di causa, ai allega un diverso titolo di proprietà, vi sarà una mera
“modificazione” della domanda in corso di causa (c.d. emendatio libelli) ammessa dalla
giurisprudenza ai sensi dell’art, 183 c.p.c.
I diritti eterodeterminati sono, invece, quei diritti che possono simultaneamente sussistere , con
identico contenuto, tra gli stessi soggetti: essi s’individuano necessariamente dalla indicazione del
loro fatto costitutivo, nel senso che ciascuno di essi nasce con il proprio rispettivo fatto costitutivo,
che è sempre diverso per ogni diritto. Tali sono tutti i diritti relativi e anche i diritti reali di garanzia
(pegno, ipoteca).
Ad esempio, se si agisce in giudizio chiedendo la condanna del debitore al pagamento di mille
euro a titolo contrattuale, ed in corso di causa si chiede la condanna al pagamento della medesima
somma a titolo di risarcimento del danno, non vi è una modificazione, ma una domanda totalmente
nuova, avente alla sua base un diverso fatto costitutivo del diritto di credito azionato (non più il
contratto ma l’illecito aquiliano).
IDENTITÀ DI DOMANDE E COMUNANZA DI CRITERI DI IDENTIFICAZIONE: LITISPENDENZA
E CONTINENZA
Vediamo adesso importanti fenomeni processuali, quali la litispendenza, la continenza e la
connessione.
Nel suo significato etimologico, il termine litispendenza significa “pendenza della lite”: l’ultimo
comma dell’art. 39 c.p.c. identifica tale momento nella notificazione dell’atto di citazione, allorché il
convenuto prende conoscenza dell’atto introduttivo redatto dall’attore. Il processo risulta, ad ogni
effetto, pendente e vengono a prodursi gli effetti sostanziali e processuali della domanda.
Nel suo significato “patologico”, la litispendenza indica la contemporanea pendenza di due o più
cause identiche davanti a diversi uffici giudiziari.
La natura del fenomeno è chiara: l’ordinamento non può e non vuole tollerare che, nello stesso
tempo, siano pendenti davanti a giudici diversi due o più cause tra loro identiche, e ciò sia per
generiche ragioni di economia processuale, sia soprattutto per prevenire e comunque e evitare
possibili decisioni e giudicati contrastanti sulla medesima azione.
Se le due o più cause tra loro identiche risultano pendenti dinanzi al medesimo ufficio giudiziario,
trova applicazione il primo comma dell’art. 273 c.p.c., che sancisce l’obbligo di riunione, anche
d’ufficio, delle cause da parte del giudice.
Se, invece, le due o più cause identiche pendono davanti ad uffici giudiziari diversi, si è in
presenza del fenomeno della litispendenza e sorge la necessità di eliminare il “doppione”,
paralizzando l’iter procedimentale di una causa e consentendo all’altra di proseguire.
Trova in questo caso applicazione il criterio della “prevenzione”: il giudice successivo adito
deve, anche d’ufficio, in qualsiasi stato e grado del processo, dichiarare con sentenza la
litispendenza di cause e, con separata ordinanza, disporre la cancellazione della causa di ruolo
(secondo la giurisprudenza, questo meccanismo non trova applicazione allorché le due o più
cause identiche pendano in gradi diversi di giudizio – ad esempio, primo grado ed appello).
Per quanto attiene alla verifica, da parte del giudice, circa l’effettiva identità delle due o più cause,
non può che farsi rinvio al discorso circa i criteri di identificazione della domanda. Due o più cause
sono identiche quando presentano gli stessi elementi di identificazione della domanda. 61
Quanto alla natura della sentenza che dichiara la litispendenza, si tratta di sentenza di rito che ha
carattere definitivo (in quanto chiude il processo dinanzi al giudice che l’ha pronunciata),
impugnabile solo con il regolamento di competenza necessario (art. 42 c.p.c.). infatti, la sentenza
in questione è stata assimilata dalla legge, solo ai fini della sua impugnabilità (e del conseguente
controllo da parte della Corte di cassazione), alle pronunce contenenti accertamento sulla
competenza.
Diverso fenomeno rispetto alla litispendenza è disciplinato dal secondo comma dell’art. 39 c.p.c.
che, pur non enunciando ma anzi presupponendo la nozione di continenza, fa riferimento
all’ipotesi che le due (o più) cause, contemporaneamente pendenti dinanzi a giudici (sempre nel
senso di uffici giudiziari) diversi, non siano assolutamente identiche, ma abbiano il petitum più o
meno ampio, tale da ricomprendere o essere ricomprese nel petitum dell’altra, ferma restando
l’identità sia dell’elemento soggettivo che della causa petendi.
In questo caso, non si tratta semplicemente di eliminare il “doppione”, ma di consentire la
trattazione congiunta delle due cause da parte di un unico giudice che, solo se competente, è
quello adito per primo e, nel caso in cui non è competente, è quello adito per secondo, con
conseguente riassunzione della causa davanti a quest’ultimo.
Anche la sentenza di continenza può essere impugnata, come quella di litispendenza, solo con il
regolamento di competenza necessario.
(SEGUE) … LA CONNESSIONE
Il codice di procedura civile prende in considerazione il fenomeno della connessione in una serie
di norma, in considerazione del collegamento tra diversi rapporti giuridici sostanziali che sono
oggetto di diverse domande giudiziali e, dunque, di diverse “cause”.
In generale, la connessione è una relazione tra due o più cause contemporaneamente pendenti
davanti allo stesso o a diverso giudice, che si caratterizza per il fatto che tali cause hanno tra loro
in comune uno o più, ma non tutti, gli elementi di identificazione della domanda.
Tale identità solo parziale (che, quando è totale, dà luogo al diverso fenomeno della litispendenza)
può giustificare – per evidenti ragioni di economia processuale – la trattazione congiunta delle
stesse (simultaneus processus).
La connessione può essere soggettiva o oggettiva.
La connessione soggettiva si determina quando le due (o più) cause hanno in comune il solo
elemento soggettivo, quando cioè esse hanno ad oggetto rapporti sostanziali che intercorrono fra i
medesimi soggetti. Questa situazione si risolve, se le cause sono proposte contemporaneamente
in un unico processo, nel cumulo (iniziale) oggettivo, che consente di proporre contro la stessa
parte, nel medesimo processo, “più domande anche non altrimenti connesse”.
La connessione oggettiva si ha quando le due o più cause hanno in comune almeno uno degli
elementi oggettivi (petitum o causa petendi) e dà luogo, sempre nel caso di contemporanea
proposizione in uno stesso processo, al cumulo (iniziale) soggettivo.
Le due o più cause tra loro connesse, come accennato, possono essere contemporaneamente
pendenti davanti allo stesso o a diverso giudice: nella prima ipotesi il giudice, anche d’ufficio, può
disporne la riunione.
Se, invece, le due o più cause connesse pendono dinanzi a giudici diversi, l’art. 40 c.p.c. prevede
la possibilità che si realizzi il simultaneus processus, con la pronuncia di una sentenza di
connessione da parte del giudice adito per secondo in favore di quello preventivamente adito,
dinanzi al quale le parti devono riassumere la causa.
Anche attraverso la sentenza di connessione, che ha carattere definitivo in quanto chiude il
processo davanti al giudice che la pronuncia, è esperibile unicamente il regolamento di
competenza necessario ex art. 42 c.p.c.
L’effetto modificativo della competenza riguarda in questi casi esclusivamente i criteri del territorio
semplice e, talvolta, del valore, e mai i criteri di competenza “forti” (materia e territorio
inderogabile).
Si tratta dei fenomeni di accessorietà, garanzia, cumulo soggettivo, causa riconvenzionale, ai quali
è opportuno dedicare separati cenni.
ACCESSORIETÀ (ART. 31 C.P.C.) 62
Il concetto di accessorietà identifica il rapporto di collegamento tra due cause proposte in cumulo
originario che, oltre ad avere i medesimi soggetti, si caratterizzano per il fatto che la decisione
della causa accessoria dipende da quella della causa principale, nel senso che il rigetto della
domanda principale determina il rigetto della domanda accessoria, mentre l’accoglimento della
domanda principale non determina necessariamente l’accoglimento di quella accessoria.
La regola generale è che la domanda accessoria può essere proposta al giudice territorialmente
competente per la causa principale.
La connessione per accessorietà va distinta dalla continenza, in quanto il rapporto tra causa
accessoria e causa principale, a differenza di quello tra causa continente e causa contenuta,
presuppone l’accoglimento della prima in caso di accoglimento della seconda.
L’accessorietà va anche distinta dalla pregiudizialità in quanto la domanda accessoria si propone o
con la domanda principale o in un momento successivo a questa.
GARANZIA (ART. 32 C.P.C.)
Il fenomeno della garanzia ricorre quando una delle parti della causa principale (cioè il garantito),
sia esso attore o convenuto, fa valere nei confronti di un terzo (garante) la pretesa di essere tenuta
indenne nell’ipotesi in cui dovesse soccombere in quella causa.
Il legislatore consente la proposizione della domanda di garanzia dinanzi allo stesso giudice
competente per la causa principale.
Se la domanda di garanzia eccede la competenza per valore del giudice adito, questi deve
rimettere entrambe le cause al giudice superiore, assegnando alle parti termine perentorio per la
riassunzione.
CUMULO SOGGETTIVO (ART. 33 C.P.C.)
La legge consente che distinte cause contro più persone, che dovrebbero essere proposte davanti
a giudici diversi, possono essere proposte, se sono connesse per l’oggetto o per il titolo, davanti al
giudice del luogo di residenza o domicilio di una di esse “per essere decise nello stesso processo”.
CAUSA RICONVENZIONALE (ART. 36 C.P.C.)
Il fenomeno si verifica allorché il convenuto proponga, nei confronti dell’attore, domanda
riconvenzionale, cioè una domanda che, pur potendo essere proposta in separato ed autonomo
processo, viene fatta valere nello stesso giudizio già pendente, sempre che sia legata a quella
originaria da identità di titolo, cioè di causa petendi.
Anche nelle ipotesi di domanda riconvenzionale, l’effetto derogatorio della competenza è limitato al
criterio del territorio semplice, nel senso che il simultaneus processus davanti al giudice
originariamente investito della cognizione sulla domanda principale potrà aversi solo se
quest’ultimo sia competente (per materia, per valore o, eventualmente, territorio inderogabile) a
conoscere della domanda riconvenzionale.
Se competente a decidere la domanda riconvenzionale in base a criterio di materia o di valore è un
giudice diverso e superiore, l’intera causa deve essere rimessa a quest’ultimo; se, invece, il
simultaneus processus davanti al giudice superiore non sia possibile, è necessario disporre la
separazione delle due cause e non sarà possibile la decisione congiunta.
(SEGUE) … LA CONNESSIONE PER PREGIUDIZIALITÀ E L’ECCEZIONE DI
COMPENSAZIONE
Per intendere il fenomeno della connessione per pregiudizialità, è necessario fare cenno ad
alcune nozioni che offrono le premesse indispensabili per identificare l’ambito di operatività dell’art.
34 c.p.c.: ci riferimento alla distinzione tra questioni preliminari di merito e questioni
pregiudiziali di merito. 63
Nel corso dell’iter che porta alla sentenza di merito possono sorgere questioni la cui soluzione
precede logicamente la decisione sulla domanda, anche se ciò non impedisce che tali questioni
vengano risolte nella stessa sentenza che decide su tutta la domanda.
Nell’ambito delle dette questioni si deve operare una fondamentale distinzione tra le questioni
preliminari di merito e le questioni pregiudiziali di merito: le prime ineriscono al diritto o rapporto
dedotto e non possono essere oggetto di autonomo e diverso processo tra le stesse parti; le
seconde, al contrario, sono estranee al petitum originario e sono autonomamente deducibili in
separato processo.
Il fenomeno della connessione per pregiudizialità viene in essere allorché* una questione
pregiudiziale (di merito) debba essere, per legge o con espressa domanda di parte, decisa con
efficacia di giudicato: quando ciò accade si determina una “trasformazione” della questione
pregiudiziale in causa pregiudiziale, cioè in una causa legata a quella originaria da vincoli di
comunanza oggettiva (oltre che soggettiva). In altre parole, la questione pregiudiziale, pur potendo
essere oggetto di autonomo giudizio, si trasforma in causa e deve essere decisa congiuntamente a
quella originariamente proposta.
Poiché la “trasformazione” ora descritta – detta anche accertamento incidentale – si realizza solo
in presenza di uno dei due presupposti indicati dall’art. 34 (volontà di legge o espressa domanda di
parte), la questione pregiudiziale può ben restare tale ed, in questo caso, viene risolta dal giudice
ai soli fini della decisione di quella causa.
Ciò significa che, in quest’ultimo caso, l’autorità della cosa giudicata non investirà tutta la
pronuncia del giudice ma solo quella parte di essa che corrisponde alla domanda.
Nel caso dell’art. 34 c.p.c., il legislatore limita l’effetto derogatorio della competenza al criterio del
territorio semplice: se la questione pregiudiziale (che deve trasformarsi in causa pregiudiziale)
appartiene per materia o per valore alla competenza di giudice superiore, il giudice originariamente
adito deve rimettere tutta la causa a quest’ultimo, assegnando alle parti un termine perentorio per
la riassunzione.
Inoltre, il codice (art- 35) tratta correttamente anche il fenomeno di connessione che si realizza a
seguito della proposizione di eccezione di compensazione.
Quest’ultima è, per il suo contenuto, equivalente ad una domanda di accertamento incidentale di
chi “oppone” in giudizio il proprio credito (c.d. “controcredito”) al credito vantato dall’attore.
Se il credito opposto in compensazione è contestato ed eccede la competenza per valore del
giudice adito, questi può decidere sulla domanda originaria pronunciando la c.d. condanna con
riserva di eccezioni (e rimettendo le parti davanti al giudice competente per la decisione relativa
all’eccezione di compensazione), solo se la domanda originaria è fondata su titolo non controverso
o facilmente accertabile.
In assenza di queste condizioni il giudice, a norma dell’art. 34 c.p.c., rimette tutta la causa al
giudice superiore per la decisione simultanea sia della domanda originaria che dell’eccezione di
compensazione.
L’ECCEZIONE DI RITO E DI MERITO, IN SENSO STRETTO E IN SENSO LATO
Se con la domanda si fanno di norma valere fatti costitutivi di un diritto o di un rapporto giuridico
sostanziale, con l’eccezione il convenuto svolge una o più difese dirette, in generale, a
neutralizzare l’iniziativa dell’attore e a far sì che la domanda di quest’ultimo non trovi accoglimento
per motivi sia di rito sia di merito.
Occorre in primo luogo distinguere, a seconda del loro oggetto, tra eccezioni processuali o di
rito ed eccezioni di merito, e tener conto che ad entrambe si applica il disposto dell’art. 112 c.p.c.
che fa divieto al giudice di “pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere proposte solo
dalle parti”.
Questa norma autorizza la distinzione tra eccezioni in senso stretto, che possono essere sollevate
solo dalla parte e mai d’ufficio dal giudice, ed eccezioni in senso lato che, invece, possono essere
conosciute anche ex officio dal giudice.
Il potere di eccezione spetta ad ogni parte, quindi anche all’attore, non soltanto rispetto
all’eventuale proposizione di domande riconvenzionali del convenuto, ma anche in relazione ad
ogni attività che l’altra parte intenda contestare o alla quale intenda opporsi, per qualsiasi ragione,
processuale o di merito. 64
Per quanto concerne, in particolare, l’eccezione di rito, con essa si introduce nel dibattito
processuale una questione attinente l’idoneità o meno del processo a concludersi con la decisione
di merito; essa può avere ad oggetto l’assenza di un presupposto processuale (la giurisdizione o la
competenza del giudice adito) ma anche, ad esempio, la validità di singoli atti del processo o
eventuali difetti di rappresentanza, assistenza o autorizzazione delle parti a stare in giudizio.
Con l’eccezione di merito la parte (sia l’attore, sia il convenuto, sia l’eventuale parte intervenuta)
svolge difese dirette a paralizzare la domanda o l’eccezione dell’altra per motivi di merito che
attengono, cioè, l’accertamento del diritto o del rapporto giuridico sostanziale dedotti in giudizio.
Con l’eccezione di merito in senso lato si fanno valere fatti che esplicano di per sé efficacia
estintiva, impeditivi o modificativa del diritto invocato, ovvero implicano l’inesistenza o l’inefficacia
dello stesso fatto costitutivo. Questi fatti vanno rilevati dal giudice, ai fini della decisione, anche
nell’assenza di una specifica iniziativa di parte, in obbedienza al richiamato principio – posto
dall’art. 112 c.p.c. – che il giudice deve ex officio rigettare la domanda infondata.
Tra le eccezioni di merito in senso stretto previste dal codice civile ricordiamo: le eccezioni di
compensazione ex art. 1242 c.c., di annullamento del contratto ex art. 1442 c.c., di rescissione ex
art. 1449 c.c., di inadempimento ex art. 1460 c.c., di prescrizione ex art. 1938 c.c., di decadenza
ex art. 1969 c.c.
Occorre, infine, affrontare l’importante problema relativo all’individuazione del criterio per
distinguere tra eccezioni in senso lato ed eccezioni in senso stretto, ove manchino in
proposito esplicite norme. Sembra agli autori che tra le eccezioni di rito, siano in senso lato tutte
quelle che riguardano l’esercizio di poteri processuali del giudice (ad esempio, inammissibilità,
improponibilità di impugnazioni e di istanze, improcedibilità del giudizio), mentre siano da
considerarsi in senso stretto le altre eccezioni di rito.
LA CORRISPONDENZA TRA CHIESTO E PRONUNCIATO
L’art. 112 c.p.c. sancisce, da un lato, l’obbligo del giudice (“deve”) di pronunciare su tutta la
domanda e non oltre i limiti di essa e, dall’altra, il divieto per lo stesso di pronunciare d’ufficio su
eccezioni che possono essere proposte solo dalle parti (eccezioni in senso stretto).
Questa regola è descritta con l’espressione “corrispondenza tra chiesto e pronunciato”.
Il principio in discorso è strettamente collegato a quello della domanda, nel senso che l’istanza di
parte determina essa stessa i limiti della pronuncia del giudice, fissa cioè il thema decidendum,
rispetto al quale non è consentita al giudice né l’omissione di pronuncia né la pronuncia di più di
quanto richiesto (ultrapetizione), o di cosa diversa da quella richiesta (extrapetizione).
Per quanto concerne il divieto di pronunciare su eccezioni proponibili solo dalle parti (eccezioni in
senso stretto), esso certamente rappresenta un ulteriore vincolo per il giudice, ma non incide
sull’obbligo in capo allo stesso di pronunciare su tutte le eccezioni comunque proposte dalle parti,
ben potendo le stesse eccezioni restare “assorbite”, cioè risultare dallo svolgimento del giudizio,
irrilevanti ai fini della decisione.
I GIUDIZI DI EQUITÀ NORMATIVA E LE SENTENZE DI EQUITÀ SU RICHIESTA DELLE PARTI
Come si evince dall’art. 113 c.p.c. vi sono casi – i giudizi di equità normativa – in cui la stessa
legge dice al giudice di decidere “secondo equità” riconoscendo che non sia possibile o necessario
sottoporre la decisione agli schemi di “diritto scritto” e di normazione generale.
Inoltre, il secondo comma dello stesso art. 113 prevede che, nelle cause in cui il valore non eccede
1.100 euro, il giudice di pace deciderà secondo equità.
Nei giudizi di equità, a ben vedere, il giudice applica e non crea la norma, dovendo ricercare i
criteri di giudizio in complessi normativi diversi da quelli dell’ordinamento statale o comunque nella
natura del concreto rapporto misurata con parametri economici, etici e sociali e secondo regole
meramente soggettive, scelte di volta in volta dalla coscienza del giudicante.
Detto ciò, all’equità può attribuirsi carattere integrativo.
Radicalmente diversa da quelle testé esaminate sono le sentenze di equità su richiesta della
parti che il giudice, sia in primo grado che in appello, pronuncia ai sensi dell’art. 114 c.p.c., in
materia di diritti disponibili delle parti “quando queste gliene fanno concorde richiesta”. 65
Qui non è la legge che recepisce complessi normativi diversi da quello dell’ordinamento statale,
ma sono le parti che sollecitano una decisione di equità, in questo caso “sostitutiva”, chiedendo
cioè al giudice una pronuncia funzionalmente non dissimile da un lodo arbitrale di equità. Anche
qui tuttavia non abbiamo la “giustizia del caso singolo”, ma il dovere del giudice di trarre il suo
criterio di giudizio dalla interpretazione della volontà negoziale delle parti, oltre che dal contesto in
cui si sono formati i rapporti dedotti in giudizio.
Le sentenze pronunciate dal giudice di pace secondo equità, nonché le sentenze di equità su
richiesta delle parti, non sono appellabili, ma possono essere impugnate per Cassazione.
P Q
ARTE UARTA
I SOGGETTI DEL PROCESSO 66
C UNDICESIMO
APITOLO
GIUDICE, PARTI E DIFENSORI
PRINCIPI COSTITUZIONALI DELL’IMPARZIALITÀ E TERZIETÀ DEL GIUDICE E LE
GARANZIE DELL’ASTENSIONE E RICUSAZIONE
La legge costituzionale n. 2 del 1999 ha introdotto nel testo dell’art. 111 Cost, tra le garanzie del
“giusto processo” quelle dell’imparzialità e della terzietà del giudice.
A parere degli autori, l’imparzialità va intesa come regola di equidistanza dalle parti, che consente
al giudice di trattare e decidere la causa “secondo giustizia”, senza essere influenzato dalla
presenza di “collegamenti” esterni al processo con una delle parti che, ove sussistenti,
determinerebbero una presunzione di parzialità.
La terzietà è una regola di equidistanza dall’oggetto della decisione (o comunque della causa) che
deve consentire al giudice di rendere la decisione in condizioni tali da assicurare una posizione di
equidistanza rispetto all’esercizio di poteri in senso lato decisori nella stessa causa.
Stante al nuovo quadro costituzionale, occorre rilevare che la garanzia di imparzialità del giudice
civile, unitariamente intesa, è oggi assicurata dalle norme degli artt. 51 e ss c.p.c. che prevedono
iniziative rimesse o all’impulso dello stesso giudice (attraverso l’astensione obbligatoria e quella
facoltativa), ovvero alle parti alle quali è attribuita la facoltà di proporre istanza di ricusazione,
ancorché nei soli casi di astensione obbligatoria.
L’art. 51, primo comma, c.p.c. contiene l’elencazione dei casi di astensione obbligatoria. Si
potrebbe ritenere che la garanzia di terzietà sia messa in pericolo non in presenza della c.d.
prevenzione (e, dunque, della esigenza di evitare che il giudice sia posto in condizione di
contraddire se stesso), ma del previo esercizio di poteri decisori pur sommari che si siano tradotti
67
in provvedimenti idonei a concludere un autonomo giudizio o fase di giudizio, ovvero di poteri
cautelari ante causam che sono comunque resi nell’esito di autonomo (seppur strumentale)
giudizio, distinto da quello di merito.
Accanto ai motivi di astensione obbligatoria, il secondo comma dell’art. 51 c.p.c. indica le “gravi
ragioni di convenienza”, quale motivo di astensione facoltativa, sussistendo le quali il giudice può
fare istanza scritta al capo dell’ufficio, chiedendo a quest’ultimo l’autorizzazione ad astenersi.
Per quanto attiene alle conseguenze della mancata astensione – con esclusione dell’ipotesi in cui
sussiste un interesse proprio e diretto in capo al giudice – nessuna invalidità viene fatta discendere
dalla mancata dichiarazione, da parte del giudice, della sussistenza di motivi di astensione
obbligatoria.
In questi ultimi casi la giurisprudenza ritiene che il potere di ricusazione costituisca un onere per
la parte la quale, se non lo esercita, non ha altro strumento processuale per far valere il difetto di
capacità del giudice.
Sull’istanza di ricusazione decide il presidente del tribunale (se è ricusato un giudice di pace) o il
collegio (se è ricusato uno dei componenti del tribunale o della corte) con ordinanza non
impugnabile che, in caso di accoglimento dell’istanza, deve contenere la designazione del giudice
chiamato a sostituire quello ricusato.
LA RESPONSABILITÀ CIVILE DEL GIUDICE
Il giudice, in quanto titolare di un rapporto di pubblico impiego, è soggetto alla generale previsione
dell’art. 28 Cost. che sancisce l’obbligo di funzionari e dipendenti dello Stato di rispondere
direttamente, secondo le leggi penali, civili e amministrative, delle conseguenze degli atti compiuti
in violazione di diritti.
La legge n. 117/1988, che non ha potuto non tener conto dell’esito del referendum popolare del
novembre 1987 e della conseguente abrogazione degli artt. 55 e 56 c.p.c., ha radicalmente
innovato la materia della responsabilità civile del giudice per danni cagionati nell’esercizio delle
funzioni giurisdizionali, in quanto ha tipizzato un’azione risarcitoria “diretta” da parte del cittadino
nei confronti dello Stato ed una successiva azione di rivalsa dello Stato nei confronti del giudice.
L’art. 2 della stessa legge individua il fatto generatore della responsabilità nel comportamento,
nell’atto o nel provvedimento giudiziario posti in essere dal magistrato con dolo o colpa grave
nell’esercizio delle sue funzioni ovvero nel diniego di giustizia, che abbiano prodotto un danno
ingiusto.
In particolare, il diniego di giustizia è, dall’art. 3, identificato nel rifiuto, omissione o ritardo del
magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando siano decorsi senza giustificato motivo
ulteriori trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria dell’istanza della parte diretta ad ottenere
il provvedimento.
Legittimato passivo dell’azione di risarcimento del danno contro lo Stato è il Presidente del
Consiglio dei ministri, mentre la competenza è del tribunale del luogo in cui ha sede la corte
d’appello del distretto più vicino a quello in cui è compreso l’ufficio giudiziario al quale apparteneva
il magistrato al momento del fatto.
L’azione in oggetto può essere promossa solo quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di
impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari.
Entro un anno dal risarcimento, lo Stato esercita l’azione di rivalsa nei confronti del giudice, la cui
misura, salvo che il fatto non sia stato commesso con dolo, non può superar4e una somma pari al
terzo di una annualità dello stipendio.
Il procuratore generale presso la Corte di cassazione per i magistrati ordinari hanno, infine,
l’obbligo di esercitare l’azione disciplinare nei confronti del magistrato “per i fatti che hanno dato
causa all’azione di risarcimento”.
IL PUBBLICO MINISTERO
Se il pubblico ministero è stato nel passato, e fino agli anni ’40, il rappresentante del potere
esecutivo presso l’autorità giudiziaria, alle dirette dipendenze del ministro della giustizia, oggi non
è più possibile dubitare circa la natura di tale organo. 68
Inquadrato nell’ordinamento giudiziario (con le stesse modalità di reclutamento di tutti gli altri
giudici) e munito di garanzie di indipendenza dagli altri poteri dello Stato (in particolare
dall’esecutivo), il pubblico ministero non è un organo amministrativo ma è investito di veri e propri
poteri giurisdizionali.
Molte funzioni giurisdizionali oggettive attuano norme di ordine pubblico che hanno, cioè, ad
oggetto interessi generali, collettivi o comunque superindividuali, ed impongono, in presenza
di determinate situazioni, lo svolgimento di processi destinati a produrre una serie di effetti.
È questa la ragione per la quale la legge attribuisce al pubblico ministero il potere di promuovere
processi in cui si attuano norme di ordine pubblico, in casi che possono essere solo quelli previsti
dalla legge, senza possibilità di applicazione analogica o estensiva (art. 14 preleggi).
Il pubblico ministero, dunque, non ha il potere, o meglio il potere-dovere di agire per ottenere la
prevalenza dell’uno o sull’altro degli interessi sui quali inciderà il provvedimento giurisdizionale
finale, ma solo il potere-dovere di promuovere il processo una volta constatata l’esistenza di una
delle situazioni previste dalla legge.
Durante il processo, egli ha inoltre il potere di acquisire le cognizioni di fatto e di sollevare le
questioni di diritto che ravvisi utili o necessarie per la migliore decisione.
L’art. 69 c.p.c. si limita a sancire il principio in base al quale il pubblico ministero esercita l’azione
civile “nei casi stabiliti dalla legge”. L’attribuzione di un potere autonomo di agire si spiega con la
precisa volontà della legge di consentire l’instaurazione del processo anche in caso di inerzia delle
parti private.
I poteri del pubblico ministero agente sono gli stessi di quelli che competono ad ogni parte che
promuove l’azione, ma con il preciso limite derivante dall’impossibilità di compiere atti di
disposizione del diritto. osì, il pubblico ministero non può confessare, prestare giuramento; e non
può nemmeno rinunciare all’azione o agli atti del giudizio, né accettare la rinuncia agli atti fatta da
altra parte del giudizio.
L’art. 70 c.p.c. regola, inoltre, l’ipotesi di intervento del pubblico ministero nel corso di un
processo già instaurato, prevedendo due diverse tipologie di intervento: necessario e facoltativo.
Quanto all’intervento necessario, il pubblico ministero “deve” intervenire in una serie di ipotesi
tassativamente elencate che costituiscono altrettante ipotesi di litisconsorzio necessario, nelle
quali cioè la legge impone la partecipazione necessaria al processo di tale organo.
Si parla di intervento facoltativo quando egli abbia il “potere” di intervenire in ogni altra causa in cui
ravvisi un pubblico interesse attuale e concreto.
Mentre nei casi di intervento obbligatorio la valutazione circa l’esistenza del pubblico interesse è
fatta, una volta per tutte, dal legislatore, nelle ipotesi di intervento facoltativo la legge assegna allo
stesso pubblico ministero il potere, discrezionale ed insindacabile, di accertare in concreto la
sussistenza dell’interesse pubblico, di cui è tutore.
NOZIONE DI PARTE DEL PROCESSO. IL PRINCIPIO COSTITUZIONALE DI PARITÀ DELLE
PARTI
Anche se la legge processuale non definisce espressamente il concetto, le parti del processo
s’identificano in quei soggetti (attore, convenuto, interventore volontario o coatto( i quali, a seguito
del compimento di determinati atti processuali, acquistano la qualità di parti di quel processo e la
titolarità all’esercizio di una serie di poteri e facoltà processuali finalizzati a dare impulso e a
consentire lo svolgimento della vicenda processuale e la produzione di effetti dei quali quegli stessi
soggetti sono destinatari immediati.
In ogni processo vi sono e vi debbono essere almeno due parti tra loro contrapposte.
Il nuovo testo dell’art. 111 Cost., modificato dalla legge costituzionale n. 2/1999, reca anche un
riferimento espresso al principio di “parità” delle pareti del processo.
Si tratta di un principio che costituisce diretta profanazione del principio di eguaglianza di cui all’art.
3 Cost., e che si lega strettamente all’altro principio di imparzialità e terzietà del giudice.
CAPACITÀ DI STARE IN GIUDIZIO E FORME DI RAPPRESENTANZA PROCESSUALE 69
La nozione di capacità processuale (o di stare in giudizio) è descritta dall’art. 75 c.p.c. che
identifica nelle “persone che hanno il libero esercizio dei diritti che si fanno valere” i soggetti
“capaci di stare in giudizio”.
Hanno la capacità di stare in giudizio i soggetti che sono capaci di agire in quanto abbiano
raggiunto la maggiore età e non si trovino in stato di interdizione o di inabilitazione e che possono,
in mancanza di ulteriori limitazioni sancite dalla legge, esercitare personalmente il loro diritto
facendolo valere nel processo (ad esempio il fallito non ha la capacità di stare in giudizio nelle
controversie relative a rapporti patrimoniali coinvolti nel fallimento, pur conservando la capacità di
far valere nel processo i diritti di natura personale non compresi nel fallimento).
Per descrivere la capacità di stare in giudizio, in giurisprudenza si parla spesso anche di
legittimazione processuale o ad processum, considerata quale presupposto di regolare
costituzione del rapporto processuale il cui accertamento, positivo o negativo, può essere
compiuto dal giudice in ogni stato e grado del processo (tale nozione va peraltro distinta da quella
di legittimazione ad agire o ad causam).
Tra le persone che non hanno il libero esercizio dei propri diritti, cioè prive della capacità
processuale e che non possono stare in giudizio “se non rappresentate, assistite o autorizzate
secondo le norme che regolano la loro capacità”, non sono comprese quelle colpite da incapacità
naturale, ma solo quelle che siano incapaci di agire, come i minori, o che siano state legalmente
private della capacità di agire con sentenza di interdizione o di inabilitazione o con provvedimento
di nomina di un tutore o di un curatore provvisorio.
Analogamente a quanto accade nei rapporti sostanziali, per l’esercizio dei diritti dei soggetti
incapaci soccorrono gli strumenti della rappresentanza processuale (legale e volontaria) e
dell’assistenza.
Con lo strumento della rappresentanza legale, a determinati soggetti è attribuita, appunto dalla
legge, la legittimazione processuale, cioè il potere di stare in giudizio non in nome proprio ma in
nome dell’incapace (rappresentato), fermo restando che quest’ultimo resta il destinatario finale
degli effetti del processo; ad esempio, i minori degli anni 18 sono legalmente rappresentati in
giudizio dai genitori.
L’assistenza riguarda, invece, i soggetti semincapaci (inabilitati e minori emancipati) i quali sono
sottoposti dalla legge ad un diverso trattamento processuale, giustificato dalla diversità della loro
posizione soggettiva rispetto a quella degli incapaci.
Il terzo comma dell’art. 75 c.p.c. individua le modalità attraverso le quali stanno in giudizio le
persone giuridiche, riconoscendo la legittimazione processuale a quei soggetti che, secondo la
legge o lo statuto della persona giuridica, hanno il potere di agire in nome della stessa nei rapporti
sostanziali.
In realtà, il rapporto che lega la società al proprio legale rappresentante è di natura organica in
quanto l’attività compiuta dal titolare dell’organo è imputabile direttamente alla persona giuridica
nel momento stesso in cui è posta in essere.
Diverso dai fenomeni di rappresentanza legale è quello della rappresentanza volontaria,
disciplinato dall’art. 77 c.p.c.: la legittimazione processuale viene, infatti, dalla legge conferita solo
allorché sia stata conferita la rappresentanza per iscritto. È, dunque, necessario che il
rappresentante sostanziale riceva dal proponente apposita procura scritta ad agire (o resistere) in
giudizio.
Eventuali vizi di rappresentanza processuale, legale e volontaria, di assistenza o di autorizzazione,
sono rilevati d’ufficio dal giudice il quale assegna alle parti un termine per la costituzione della
persona alla quale spetta la rappresentanza o l’assistenza o per il rilascio delle necessarie
autorizzazioni, “salvo che si sia avverata una decadenza”.
Se manca il potere rappresentativo, la domanda proposta dal falsus procurator non produce alcun
effetto nei confronti del soggetto rappresentato, salva la possibilità di sanatoria da parte di
quest’ultimo, il quale deve altresì ratificare tutti gli atti compiuti sino a quel momento, ponendosi
come destinatario di tutti gli effetti già prodotti e da produrre.
LA SOSTITUZIONE PROCESSUALE
L’art. 81 c.p.c. nel prescrivere che nessuno possa “far valere nel processo in nome proprio un
diritto altrui”, non fa che ribadire il principio generale secondo il quale ciascun soggetto di norma fa
70
valere in giudizio in nome proprio un diritto proprio (c.d. indisponibilità del diritto alla tutela
giurisdizionale”), salvo le eccezioni che la legge può espressamente prevedere e che integrano,
appunto, altrettante ipotesi di sostituzione processuale.
Si tratta della c.d. legittimazione straordinaria ad agire, con la quale l’ordinamento consente
eccezionalmente ad un soggetto (esattamente individuato dalla legge) di far valere, in nome
proprio (e non già in qualità di rappresentante, il quale agisce sempre in nome altrui) un diritto di
altri, senza l’autorizzazione del suo titolare ed, anzi, se del caso, contro la volontà dello stesso, per
ottenerne la tutela in giudizio.
Basti pensare alla responsabilità patrimoniale del debitore (art. 2740 c.c.) che, in caso di inerzia di
quest’ultimo a far valere le ragioni creditorie che vanta nei confronti di terzi, giustifica l’azione
surrogatoria da parte del suo creditore, ai sensi dell’art. 2900 c.c.
Poiché il sostituto è dalla legge legittimato a far valere un diritto di cui è titolare altro soggetto,
quest’ultimo (sostituito), anche in ossequio all’art. 24 Cost. deve essere chiamato a partecipare al
giudizio, di cui è litisconsorte necessario e del quale subirà gli effetti diretti del giudicato.
LA SUCCESSIONE NEL PROCESSO
L’art. 110 c.p.c. disciplina l’ipotesi del venir meno di una parte (persona fisica o giuridica) “per
morte o per altra causa”, ed indica gli effetti di tale fenomeno sul processo in corso, disponendo la
possibilità che lo stesso sia proseguito da parte del successore universale o in suo confronto.
Così come nei rapporti sostanziali la successione a titolo universale comporta il subingresso in
tutti i diritti o rapporti dei quali era titolare il de cuius, anche nel processo si deve consentire al
successore a titolo universale di subentrare nella posizione processuale del soggetto estinto,
acquisendo gli stessi poteri ed oneri.
Se a venir meno è una persona fisica, ad essa subentrano l’erede o gli eredi. Se ad estinguersi è
una persona giuridica (ciò che accade, in genere, per fusione o incorporazione), al venir meno
della società si accompagna l’individuazione della nuova società risultante dalla fusione o la
società incorporante; sarà, dunque, la nuova società a poter proseguire i giudizi in corso.
L’art. 111 c.p.c. ha riguardo alla diversa ipotesi di successione a titolo particolare nel diritto
controverso, cioè di trasferimento del solo diritto o rapporto in contestazione o di una ben
individuata serie di rapporti comprendenti quello controverso che può verificarsi, sempre in epoca
successiva all’instaurazione del processo, sia mortis causa che inter vivos.
Nel caso di trasferimento per atto tra vivi, la soluzione offerta dalla legge è quella che più
garantisce la parte contrapposta all’alienante in quanto, nonostante il trasferimento, non si
verificano mutamenti tra i soggetti della lite ed “il processo prosegue tra le parti originarie”. Per
contro, nel caso di trasferimento mortis causa, proprio per il fatto che la parte è venuta a mancare,
il processo è proseguito dal successore a titolo universale o in suo confronto.
È incontestabile che, ove intervenga, il successore a titolo particolare nel diritto controverso ha il
potere di svolgere tutte le attività processuali consentite al suo dante causa, comprese quelle che
comportano la disposizione del diritto medesimo.
IL LITISCONSORZIO NECESSARIO E FACOLTATIVO
Con il termine “litisconsorzio” s’intende la pluralità di parti nel processo, cioè l’esistenza nello
stesso processo di più attori (litisconsorzio attivo) o di più convenuti (litisconsorzio passivo), o
contemporaneamente di più attori e di più convenuti (litisconsorzio misto).
Quando la pluralità (iniziale) di parti nello stesso processo è imposta dalla legge si è in presenza
del litisconsorzio necessario: ciascun soggetto acquista la qualità di litisconsorte necessario ed
ha diritto di partecipare al processo.
Non è, però, sufficiente la pura e semplice esistenza di una pluralità di parti del rapporto
sostanziale per attribuire, meccanicamente, la qualità di litisconsorte necessario a ciascuna di esse
(basti pensare alle ipotesi di solidarietà – attiva o passiva – dell’obbligazione che, pur nella
sussistenza di più soggetti creditori o debitori della stessa somma di denaro o della stessa
prestazione, non danno luogo a litisconsorzio necessario in quanto la struttura del rapporto è dalla
legge congegnata in modo tale che ogni creditore può esigere l’intero, salvo l’esercizio del diritto di
rivalsa nei confronti degli altri concreditori o condebitori). 71
È necessario, al contrario, che si determinino effetti che, per la struttura del rapporto, possono
nascere e quindi essere accertati o costituiti dal giudice solo nei confronti di una pluralità di
soggetti.
Per quanto attiene alle conseguenze di ordine processuale discendenti dal litisconsorzio
necessario, il secondo comma dell’art. 102 c.p.c. dispone – nell’ipotesi in cui il giudizio non sia
stato promosso da tutti o nei confronti di tutti i soggetti coinvolti nel rapporto giuridico in contesa –
che il giudice ordini l’integrazione del contraddittorio in un termine perentorio da lui stabilito.
Saranno poi le parti (o per meglio dire, la parte più diligente che abbia interesse alla prosecuzione
del giudizio), alle quali l’ordine è rivolto, a dover provvedere alla integrazione del contraddittorio
entro il termine fissato dal giudice.
In caso di mancata integrazione del contraddittorio, il processo si estingue.
Il rigore della “sanzione” qui comminata dal legislatore si giustifica proprio con il riconoscimento
della assoluta impossibilità della prosecuzione del processo senza la partecipazione di tutte le parti
(assai controversa in dottrina, come in giurisprudenza, è la questione circa la sorte della decisione
pronunciata a contraddittorio non integro; a questo riguardo si può osservare che, a processo
concluso, la sentenza pronunciata senza una parte necessaria resta certamente priva di ogni e
qualsiasi effetto nei confronti del litisconsorte pretermesso e, in questo senso, è ben possibile
parlare di sentenza inutiliter data. Si discute se la sentenza resti efficace tra le parti che hanno
partecipato al giudizio, ovvero se essa sia annullabile solo su iniziativa del litisconsorte
pretermesso – per quest’ultima soluzione sembra orientata la giurisprudenza).
Pur costituendo un’ipotesi di litisconsorzio originario, del tutto diversa è la natura del
litisconsorzio facoltativo che viene a realizzarsi, secondo quanto disposto dall’art. 103 c.p.c.,
allorché più parti “possono”, e non “devono”, agire o essere convenute nello stesso processo.
La legge consente questa possibilità anzitutto in presenza di connessione di cause per l’oggetto
(petitum) o per il titolo (causa petendi) del quale dipendono: connessione dalla quale può derivare
il cumulo soggettivo.
Le ipotesi di connessione per l’oggetto o per il titolo danno luogo al litisconsorzio facoltativo c.c.
“proprio”. Ma l’art. 103 c.p.c. consente altresì la proposizione cumulativa e simultanea di più
cause quando la decisione dipende, totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche
questioni.
Si tratta di litisconsorzio facoltativo c.d. “improprio” che, però, presuppone che il giudice adito
sia competente a conoscere di tutte le cause secondo le regole ordinarie.
GLI INTERVENTI VOLONTARI
La pluralità di parti nel medesimo processo può essere iniziale ma anche successiva alla originaria
pendenza del processo stesso.
Una delle forme attraverso le quali si realizza il litisconsorzio successivo è costituita dall’intervento
di un terzo nel processo. tale intervento può essere volontario o coatto.
Nel primo caso il terzo interviene per sua spontanea ed autonoma determinazione nel senso che,
essendo a conoscenza della pendenza di un processo tra altri soggetti, decide di partecipare allo
stesso ove sussistano determinati presupposti previsti dalla legge.
Nel secondo caso, l’intervento è “provocato” o dalla chiamata ad opera di una delle parti originaria,
ovvero dall’ordine del giudice.
INTERVENTO PRINCIPALE (ART. 105 C.P.C. PRIMO COMMA)
È l’intervento svolto dal terzo nei confronti di tutte le parti del processo in corso per far valere un
proprio diritto relativo all’oggetto i dipendente dal titolo già dedotto nel processo, dunque
strettamente legato alla titolarità di un diritto o di un rapporto connesso con quello già oggetto di
controversia. Ciò comporta l’allargamento dell’oggetto del processo sia sotto il profilo soggettivo,
che delle domande sulle quali il giudice è chiamato a provvedere.
INTERVENTO LITISCONSORTILE O ADESIVO AUTONOMO (ART. 105 C.P.C. PRIMO
COMMA) 72
Ancora, il primo comma dell’art. 105 c.p.c. prevede che il terzo possa intervenire non già nei
confronti di tutte le parti originarie del processo in corso, ma solo di alcune di esse, sempre per far
valere un proprio diritto, connesso per l’oggetto o per il titolo con quello dedotto nel giudizio già
pendente.
Il terzo interveniente propone, in questo caso, una domanda solo nei confronti di una (o più, ma
non tutte) delle parti originarie, che va ad affiancarsi a quella già proposta dall’attore, ovvero alla
domanda riconvenzionale proposta dal convenuto.
Anche in questo caso il terzo potrebbe agire in via autonoma, ma la legge processuale gli
consente di intervenire nel giudizio già pendente, per consentire al giudice di decidere in
simultaneus processus su entrambe le cause connesse.
A seguito dell’intervento all’esame si verifica l’allargamento dell’oggetto del processo, con il terzo
interveniente che assume ad ogni effetto la qualità di parte.
INTERVENTO ADESIVO DIPENDENTE (ART. 105 C.P.C. SECONDO COMMA)
È sicuramente la categoria d’intervento volontario più controversa, in quanto prevede la generica
possibilità per il terzo d’intervenire quando “vi abbia un proprio interesse”, “per sostenere le ragioni
di alcuna delle parti”.
L’interesse in questione può essere pregiudicato a seconda dell’esito della lite; da ciò sorge
l’interesse del terzo a partecipare al giudizio, all’esito del quale quel pregiudizio potrebbe
verificarsi.
Si è già detto che il terzo,una volta che sia intervenuto in giudizio, acquista per ciò stesso la qualità
di parte che non gli attribuisce però, di per sé, identici poteri delle parti originarie.
Per quanto concerne, in particolare, il terzo interventore in via adesiva dipendente, secondo
l’opinione dominante in giurisprudenza i poteri dello stesso sono limitati dallo svolgimento di difesa
nell’ambito delle domande ed eccezioni già svolte dalla parte adiuvata e non comprendono né atti
di disposizione del diritto, né atti d’impulso del processo diretti a far proseguire lo stesso in caso di
rinuncia delle parti principali, né atti diretti all’impugnazione della sentenza (in tal senso si è
pronunciata anche la Corte costituzionale).
Agli autori sembra, in difformità rispetto a questo orientamento, che non possa essere negato il
potere di autonoma impugnazione della sentenza in capo a chi sia intervenuto adesivamente per
prevenire gli effetti riflessi, a sé sfavorevoli, della sentenza recettiva della domanda adiuvata
attraverso l’intervento.
Se, infatti, anche l’interventore in via adesiva dipendente fa valere in giudizio un proprio diritto, ci
sembra che la garanzia di difesa prevista dall’art. 24 Cost. giustifichi, se non imponga, il detto
potere di autonoma impugnazione che, pur essendo circoscritto alla finalità di “neutralizzare” gli
effetti riflessi della sentenza, non può che travolgere, ove accolta, la sentenza anche nei suoi effetti
principali.
Su questa strada si è posto anche il legislatore processuale più recente, ci pare significativo che il
secondo comma dell’art. 15 del d. lgs. N. 5/2003 riconosce espressamente al terzo interventore
adesivo dipendente la legittimazione ad impugnare la sentenza emanata all’esito del giudizio al
quale egli ha partecipato.
GLI INTERVENTI “COATTI”
L’art. 106 c.p.c., nel descrivere l’intervento ad istanza di parte, attribuisce a ciascuna parte il
potere di chiamare nel processo già pendente il terzo “al quale ritiene comune la causa o dal quale
pretende di essere garantita”, individuando in tal modo una duplice serie di ipotesi nelle quali il
terzo, per iniziativa di parte, viene ad essere coinvolto nella vicenda processuale in corso e ad
acquistare la qualità di parte.
La prima serie di ipotesi è dalla legge individuata con riferimento alla nozione di “comunanza di
causa”.
Questa espressione dovrebbe essere riferita solo ad ipotesi in cui il soggetto, del quale si
domanda l’intervento, è indicato come parte, o possibile parte, della causa già instaurata, in luogo
di una delle parti originarie o accanto ad esse. 73
La giurisprudenza suole, tuttavia, estendere il concetto anche ad ipotesi di connessione di più
cause e perfino oltre, tanto da consentite la chiamata in quei casi nei quali l’opportunità, per una
delle parti, di chiamare in causa un terso è legata al tipo di difesa che l’altra parte assume all’atto
della costituzione in giudizio.
La seconda serie di ipotesi di chiamata ex art. 106 è costituita dalle pretese di garanzia che una
delle parti può avanzare nei confronti del terzo (chiamata in garanzia), per ottenere nei confronti di
quest’ultimo (garante) una sentenza che accerti il diritto del garantito di essere tenuto indenne
dalle conseguenze derivanti dalla pretesa dell’altra parte.
Al pari che nelle altre forme di intervento, nei casi di intervento ad istanza di parte il terzo chiamato
acquista la qualità di parte e la titolarità di tutti i poteri ad essa connessi, con ampliamento
dell’oggetto del giudizio, dovendo il giudice statuire anche sulla domanda svolta nei confronti del
terzo.
Secondo quanto disposto dall’art. 107 c.p.c., l’intervento per ordine del giudice (c.d. iussu
iudicis) si verifica quando il giudice, reputando “opportuno” che il processo si svolga anche in
confronto di un terzo “al quale la causa è comune”, ordina l’intervento in causa dello stesso.
L’ordine può essere emesso “in ogni momento” del giudizio di primo grado.
IL DIFENSORE. LA PROCURA ALLE LITI
Nel compimento degli att6i del processo ed in occasione delle udienze, le parti non operano di
norma da sole, ma con l’assistenza dei difensori (gli avvocati), cioè di soggetti muniti di specifiche
capacità tecnica ed iscritti in apposito ordine professionale.
I difensori possono compiere e ricevere, nell’interesse della parte, tutti fòli atti del processo (ad
eccezione di quelli espressamente riservati alla parte – art. 84 c.p.c.).
Nei processi dinanzi ai giudici di pace le parti possono stare in giudizio personalmente nelle cause
il cui valore non eccede gli euro 516,46 mentre, negli altri casi, la presenza del difensore è di
norma necessaria.
L’atto in virtù del quale la parte sta in giudizio con il ministero del difensore si chiama procura alle
liti (art. 83 c.p.c.). questa può essere generale, cioè per ogni controversia, anche futura per cui, in
questo caso, deve essere conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata; o speciale, in
relazione ad una ben determinata controversia.
La procura può essere in ogni tempo revocata dalla parte ed il difensore può sempre rinunciarci,
ma la revoca e la rinuncia non hanno effetto nei confronti dell’altra parte fino a quando non sia
avvenuta la sostituzione del difensore.
IL DOVERE DI LEALTÀ E PROBITÀ DELLE PARTI E DEI DIFENSORI
Il primo comma dell’art. 88 c.p.c. fa carico alle parti e ai difensori di ispirare la propria condotta nel
processo ai criteri di lealtà e probità.
La generica previsione trova specifica espressione nel divieto alle parti di usare, negli scritti
presentati e nei discorsi pronunciati davanti al giudice, “espressioni sconvenienti od offensive”.
Anche se l’art. 88 c.p.c. non contiene alcuna specifica previsione sanatoria in caso di violazione
dei doveri di lealtà e probità, occorre ricordare che l’art. 116 c.p.c. consente al giudice di desumere
argomenti di prova dal comportamento, in generale, delle parti nel processo, e che l’art. 92 c.p.c.
attribuisce al giudice il potere di condannare la parte, indipendentemente dalla soccombenza, al
rimborso delle spese processuali causate dall’altra parte in conseguenza della violazione dei
doveri descritti nello stesso art. 88.
IL REGIME DELLE SPESE DEL PROCESSO
Gli artt. 90-98 c.p.c. si occupano della “responsabilità delle parti per le spese processuali” e, più in
generale, del regime al quale sono sottoposte le spese che si rendono necessarie per promuovere
e consentire lo svolgimento del processo.
Come regola generale, nel corso del processo è ciascuna parte che deve provvedere ad anticipare
le spese degli atti che compie e di quelli che chiede, salvo l’esonero previsto in favore dei soggetti
ammessi al patrocinio a spese dello Stato. 74
Con la sentenza che chiude il processo, il giudice condanna la parte soccombente al rimborso
delle spese in favore dell’altra, liquidandone l’ammontare, unitamente agli oneri di difesa. Come
vedremo, si ha soccombenza allorché non vi sia corrispondenza tra conclusioni, anche di rito, e
“dispositivo sostanziale” della sentenza, sia essa di merito che di rito.
Natura espressamente risarcitoria ha, invece, la condanna della parte per responsabilità c.d.
aggravata che presuppone, di norma, l’integrale mancato riconoscimento delle ragioni fatte valere
dalla parte stessa (cioè la sua soccombenza). Il primo comma dell’art. 96 c.p.c. si riferisce
all’ipotesi della parte soccombente che abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa
grave (lite temeraria), mentre il secondo comma si riferisce alla parte che abbia agito “senza la
normale prudenza”, nei casi in cui sia stata accertata l’inesistenza del diritto nell’esecuzione di un
provvedimento cautelare, nella trascrizione di una domanda giudiziaria od iscrizione di ipoteca
giudiziaria i, infine, nell’inizio o compimento di un procedimento di esecuzione forzata.
La condanna presuppone l’istanza della parte danneggiata nel senso che, di norma, essa non può
pronunciarsi d’ufficio. La liquidazione, nel senso di quantificazione, dei danni può invece avvenire
anche d’ufficio, sempre che la parte abbia provato la sussistenza del danno, ovvero che dagli atti
del processo risultino elementi idonei ad accertarne l’esistenza e permetterne la valutazione da
parte del giudice, anche in via equitativa.
P Q
ARTE UINTA
GLI ATTI DEL PROCESSO 75
C D
APITOLO ODICESIMO
LA TIPOLOGIA DEGLI ATTI DEL PROCESSO
NOZIONE DI ATTO DEL PROCESSO E SUA STRUMENTALITÀ
Atto processuale è, in generale, ogni attività che ha un’immediata e diretta incidenza
nell’instaurazione del processo e nell’ulteriore svolgimento dello stesso, fino al suo risultato finale.
La strumentalità degli atti del procedimento rispetto all’atto finale comporta la strutturazione
giuridica degli atti del processo in funzione del finale effetto giurisdizionale, e consente di chiarire
l’assoluta prevalenza da un lato dell’aspetto formale e, dall’altro, del criterio dello scopo che all’atto
assegna la legge e che, una volta raggiunto, ne rende irrilevante la difformità dello schema legale.
LA FORMA DEGLI ATTI. IL PRINCIPIO DI LIBERTÀ DELLE FORME ED IL CRITERIO DELLO
SCOPO
La forma dell’atto giuridico identifica i mezzi e le modalità di espressione dell’atto, cioè il suo
“esteriorizzarsi” nella realtà che, nel caso dell’atto processuale, è quella del processo, e si
distingue dal contenuto che descrive l’oggetto (“intrinseco”) dell’atto.
A differenza del codice civile, il codice di procedura civile (art. 132, n. 4) non definisce
espressamente la forma come un requisito degli atti processuali.
Da più parti si parla di “forma-contenuto”, proprio per sottolineare che la legge processuale,
quando disciplina un atto del processo, non vuole descrivere solo le modalità di compimento e di
esteriorizzazione, ma anche il suo contenuto, per così dire, “necessario”.
Il vecchio codice di procedura civile del 1940, forse mosso dalla preoccupazione di evitare un
eccessivo formalismo, ha sancito all’art. 121 il principio della libertà delle forme.
In base a questo principio, salvo quelli per i quali la legge richiede “forme determinate”, gli atti del
processo possono essere compiuti “nelle forme più idonee al raggiungimento del loro scopo”. Ma,
a ben vedere, ben pochi sono gli atti per i quali la legge non preveda espressamente requisiti di
forma, sicché ad essa deve riconoscersi carattere residuale.
La scelta del legislatore di ancorare la libertà delle forme al raggiungimento dello scopo impone di
soffermarsi sull’esatto significato del criterio dello scopo.
Lo scopo dell’atto è sempre e soltanto quello assegnato dalla legge processuale e mai quello che il
soggetto (o l’autore) dell’atto persegue. 76
A differenza di quanto accade per gli atti di diritto privato, negli atti processuali l’elemento volitivo
del soggetto non ha, di norma alcuna rilevanza, nel senso che non costituisce elemento che
determina o concorre a determinare gli effetti dell’atto. Ciò che conta è il compimento, nella forma
prevista dalla legge o, in mancanza, in quella idonea a consentire la realizzazione dello scopo ad
esso assegnato dalla legge.
GLI ATTI DI PARTE. FORMA SCRITTA E FORMA ORALE. CONCETTOI DI UDIENZA
L’art. 125 c.p.c. detta alcune regole generali sugli atti del processo che sono esercizio di poteri che
la legge attribuisce alle parti, richiamando una serie di atti alcuni dei quali danno inizio al processo
(citazione, ricorso), altri ne preannunziano l’avvio (il precetto per il processo di esecuzione), altri
ancora si formano a processo già pendente (comparsa di risposta e controricorso nel giudizio di
cassazione).
Si tratta di atti in prevalenza “scritti” che devono di norma essere anche “sottoscritti”, costituendo
la sottoscrizione elemento indispensabile per l’accertamento della provenienza dell’atto e per
l’imputazione dei relativi effetti al suo autore.
L’inciso contenuto nell’art. 125 c.p.c. (“salvo che la legge disponga altrimenti”) consente alla legge
processuale di prevedere le ipotesi nelle quali alcuni di questi atti tipici, e precisamente quelli
introduttivi del giudizio, possono rivestire la forma orale, anziché quella scritta (si pensi all’art. 316
c.p.c. che consente la proposizione della domanda “verbalmente” dinanzi al giudice di pace).
La forma scritta e quella orale non sono le uniche alle quali l’ordinamento attribuisce rilevanza. È
già in fase di avanzata sperimentazione un sistema che consentirà che tutti gli atti e provvedimenti
del processo possano essere validamente compiuti come documenti informatici, sottoscritti con
firma digitale, al fine della formazione di un fascicolo d’ufficio informatico.
Tale previsione costituisce ulteriore espressione del principio di libertà delle forme.
Le attività processuali che si debbono compiere in forma orale hanno luogo nel corso delle
udienze, che identificano i momenti di luogo e di tempo nei quali il giudice entra in contatto con le
parti e i loro difensori ai fini della trattazione della causa. Di norma le udienze debbono svolgersi
presso la sede dell’ufficio giudiziario, secondo apposito calendario redatto, all’inizio di ogni anno
giudiziario, dal capo dell’ufficio.
Si distinguono le udienze tenute (e dirette) dal giudice singolo da quelli dinanzi il giudice collegiale
(dirette in questo caso dal presidente del collegio).
Le udienze di discussione della causa sono di norma pubbliche a pena di nullità (art. 128 c.p.c.),
mentre quelle di trattazione, davanti all’istruttore, non sono pubbliche.
Le attività che si compiono nel corso delle udienze sono descritte nel processo verbale che viene
redatto dal cancelliere sotto la direzione del giudice, il quale lo sottoscrive unitamente al
cancelliere. Di esso non si dà lettura, salvo espressa istanza di parte. Il verbale fa fede fino a
querela di falso, con riferimento alla descrizione delle attività ivi documentate e delle persone
intervenute.
IL TEMPO DI COMPIMENTO DELL’ATTO. NOZIONE DI PRECLUSIONE
I termini processuali sono periodi di tempo stabiliti, di regola, dalla legge (termini legali) ma
anche dal giudice (termini giudiziari), per il compimento di singoli atti del processo.
Vi sono termini che devono trascorrere prima che possa compiersi un determinato atto e che si
definiscono dilatori; mentre acceleratori sono quei termini entro i quali è possibile il compimento
dell’atto.
I termini acceleratori, a loro volta, si distinguono in ordinatori e perentori.
I termini ordinatori regolano lo svolgimento delle attività processuali senza che la loro
inosservanza sia idonea a produrre decadenza dal potere di compiere l’atto, ovvero inefficacia
dell’atto compiuto dopo la scadenza del termine. Possono essere, prima della loro scadenza,
abbreviati o prorogati dal giudice, anche d’ufficio.
I termini perentori sono termini la cui decorrenza comporta decadenza dal potere di compiere
l’atto e non possono essere né abbreviati, né prorogati dal giudice, nemmeno sull’accordo delle
parti. 77
Secondo quanto dispone il secondo comma dell’art. 152 c.p.c., i termini stabiliti dalla legge sono
ordinatori, tranne che la legge stessa non li dichiari espressamente perentori.
Il mancato o tardivo compimento dell’atto processuale entro il termine perentorio fissato dalla legge
o dal giudice determina, quindi, la decadenza dal potere di compiere successivamente quell’atto.
Questo fenomeno può anche essere inquadrato nell’ambito delle preclusioni, che si identificano
nella perdita o estinzione del diritto o della facoltà di compiere un determinato atto o attività
processuale.
Le preclusioni sono indispensabili per un corretto ed ordinato svolgimento del processo.
È bene chiarire che il modello di preclusioni adottato nel vigente ordinamento processuale per i
giudizi di rito cognitivo ordinario e speciale è di tipo “rigido”. Infatti, i modi e i tempi di formazione
della preclusione sono disposti direttamente dalla legge, senza integrazioni discrezionali da parte
del giudice, al quale è affidato il compito di verificare il puntuale rispetto di detti tempi.
L’istituto della rimessione in termini costituisce l’unico rimedio, di carattere eccezionale, idoneo a
superare la decadenza prodottasi.
I PROVVEDIMENTI DEL GIUDICE: NOZIONE
In generale può dirsi che i provvedimenti sono tutti gli atti processuali con i quali il giudice
esercita e dà attuazione alla funzione giurisdizionale, comprensivi non soltanto di quelli finali, ma
anche dei provvedimenti che preparano e in certo modo consentono la pronuncia del successivo
atto finale.
L’art. 131 c.p.c. prende in considerazione tre distinti tipi di provvedimenti, vale a dire la sentenza,
l’ordinanza ed il decreto, precisando che è la legge a prescrivere “in quali casi” il giudice pronuncia
ciascuno di essi ed aggiungendo che, in mancanza di tale prescrizione, i provvedimenti sono dati
in qualsiasi forma idonea al raggiungimento del loro scopo.
La sentenza è il tipico provvedimento a contenuto decisorio, normalmente sul merito, cioè sul
diritto o rapporto giuridico sostanziale fatto valere con la domanda, ma anche sul rito, cioè
sull’idoneità del processo a condurre alla decisione di merito.
L’ordinanza e il decreto sono provvedimenti a contenuto ordinatorio, che servono cioè a consentire
la trattazione ed istruzione del processo, da distinguersi tra loro in quanto il decreto è di solito
pronunciato inaudita altera parte, senza cioè la previa instaurazione del contraddittorio con l’altra
parte.
Ma non si deve pensare che il giudice possa emettere solo sentenze, ordinanze e decreti, in
quanto vi sono anche atti “innominati” o a “forma libera” che il giudice può e, talvolta, deve
compiere, in conseguenza o in relazione strumentale con altri provvedimenti, soprattutto istruttori
(si pensi, ad esempio, agli atti che il giudice compie nel corso del libero interrogatorio delle parti e,
soprattutto, alle domande che il giudice può rivolgere alle parti e che la legge non sottopone ad
alcun vincolo formale).
(SEGUE) … SENTENZA, ORDINANZA E DECRETO
La sentenza costituisce, come detto, il tipico provvedimento giurisdizionale decisorio con il quale il
giudice pronuncia la decisione sulla controversia ad esso sottoposta, sia nel merito sia,
eventualmente, soltanto nel rito.
L’art. 132 c.p.c. elenca i requisiti “formali” della sentenza, disponendo che essa deve essere
pronunciata in nome del popolo italiano (con l’intestazione “Repubblica italiana”) e deve contenere:
1) l’indicazione del giudice che l’ha pronunciata; 2) l’indicazione delle parti e dei loro difensori; 3) le
conclusioni delle parti e del pubblico ministero; 4) la “concisa esposizione” dello svolgimento del
processo e dei motivi in fatto e in diritto della decisione; 5) il dispositivo, la data della deliberazione
e la sottoscrizione del giudice.
La sentenza di merito, accogliendo o respingendo (in tutto o in parte) la domanda, decide sul
diritto o rapporto giuridico sostanziale fatto valere con la domanda, attribuendo i torti e le ragioni,
ovvero concedendo o negando le richieste tutele che possono essere di mero accertamento, di
condanna o di carattere costitutivo o determinativo.
È controverso se siano di merito anche le sentenze che, pur non accogliendo o respingendo in
alcun modo le domande, risolvono questioni preliminari di merito. 78
La sentenza di rito (che cioè risolve questioni di rito, quali la giurisdizione, la competenza, ecc.)
decide uno i più problemi attinenti all’idoneità o meno del processo, come instaurato dalle parti, a
far pervenire alla decisione di merito.
Sia le sentenze di merito che le sentenze di rito possono essere definitive o non definitive, a
seconda che rispettivamente definiscano, cioè concludano o meno il processo dinanzi al giudice
che le ha pronunciate.
L’ordinanza è il provvedimento – al quale di norma la legge processuale attribuisce funzione non
decisoria, ma ordinatoria – con il quale si regola lo svolgimento dell’iter processuale fino alla
pronuncia finale. Deve essere “succintamente motivata” e può essere emessa in udienza o fuori
udienza, nonché comunicata alle parti a cura del cancelliere (art. 134 c.p.c.).
Dalla norma in esame si ricava, altresì, che l’ordinanza presuppone il contraddittorio tra le parti e
tale elemento concorre a distinguerla dal decreto.
Oltre ad essere utilizzata come provvedimento meramente ordinatorio, ci si ricorre anche in altre
ipotesi:
a) per la pronuncia di provvedimenti sommari non cautelari, sia nel corso di processi di
ordinaria cognizione, sia a conclusione di procedimenti sommari autonomi;
b) per la pronuncia di provvedimenti sommari cautelari, sia in corso di causa che ante
causam;
c) per definire procedimenti di espropriazione forzata.
Anche per il decreto le prescrizioni contenute nell’art. 135 c.p.c. sono scheletriche, in quanto
prevedono la pronuncia d’ufficio o su istanza anche verbale della parte, l’assenza di motivazione
(salvo che questa sia espressamente richiesta dalla legge) e la stesura dello stesso in calce al
ricorso.
Le caratteristiche elencate consentono, comunque, di tracciare i profili di differenziazione tra
decreto ed ordinanza.
A differenza della seconda, il decreto è di norma pronunciato inaudita altera parte, cioè in
mancanza del contraddittorio con l’altra parte; inoltre, sempre di norma, non contiene alcuna
motivazione, mentre l’ordinanza deve sempre essere motivata.
Nondimeno, vi sono importanti ipotesi in cui la legge processuale prevede l’emanazione di decreti
motivati (si pensi al decreto che definisce il procedimento camerale).
COMUNICAZIONI E NOTIFICAZIONI
Le comunicazioni e le notificazioni assolvono, entrambe, alla funzione di far conoscere alle parti e
ai loro difensori il contenuto di atti o di provvedimenti, ma con strumenti tra loro diversi.
La comunicazione è un atto proprio del cancelliere per mezzo del quale questi “dà notizia” alle
parti, al pubblico ministero, al consulente, agli altri ausiliari del giudice ed ai testimoni, dei
provvedimenti emessi dal giudice.
Si tratta, come risulta dall’art. 136 c.p.c., di una forma “abbreviata” di comunicazione con la quale
non si trasmette copia integrale del provvedimento, bensì del solo dispositivo. Il destinatario sarà,
dunque, informato dell’avvenuta emissione del provvedimento e del dispositivo di quest’ultimo, ma
non delle (eventuali) motivazioni che precedono il dispositivo.
Al contrario della comunicazione, la notificazione è un atto dell’ufficiale giudiziario attraverso il
quale, su istanza di parte o su richiesta del pubblico ministero o del cancelliere, egli provvede a
consegnare o a far recapitare al destinatario copia integrale (e conforme all’originale) di un atto
scritto, di norma ma non necessariamente (si pensi alla sentenza) formato dallo stesso soggetto
che richiede la notificazione.
Scopo della notificazione è quello di far conseguire la certezza legale della conoscenza dell’atto in
capo al destinatario, in presenza della quale si producono gli effetti propri dell’atto medesimo.
La notificazione costituisce atto (dell’ufficiale giudiziario) autonomo rispetto all’atto che viene
notificato. Pertanto, i vizi che possono investire la notificazione sono distinti da quelli dell’atto
notificato e non si trasmettono ad esso.
Gli artt. 138 e 149 c.p.c. prevedono forme “ordinarie” di notificazione che variano in relazione alle
modalità di “trasmissione” della copia dell’atto da notificare (a mani, per posta, ecc.). 79
Di regola, è la consegna (al soggetto legittimato a riceverla) di copia conforme all’originale dell’atto
da notificarsi che perfeziona la notificazione, mentre solo in casi eccezionali la legge consente il
perfezionamento della stessa attraverso modalità diverse.
Le forme della notificazione a mezzo di ufficiale giudiziario sono descritte negli artt. 138 e ss c.p.c.
e comprendono innanzitutto la notificazione in mani proprie del destinatario in qualunque luogo
egli sia reperito: per questa ragione, la notificazione in mani proprie è quella che dà maggiori
garanzie di certezza circa il recapito dell’atto e la sua conoscenza legale.
Sempre che non sia espressamente vietato dalla legge, la notificazione può essere eseguita anche
a mezzo del servizio postale.
Questa forma di notificazione è obbligatoria, per l’ufficiale giudiziario, per gli atti da notificare fuori
del comune in cui ha sede il proprio ufficio, e facoltativa negli altri casi.
A proposito della notificazione a mezzo posta, occorre rilevare come sia particolarmente
importante indicare il momento perfezionativo della notificazione, sia per il mittente che per il
destinatario.
Ha osservato la Corte costituzionale che gli effetti della notificazione a mezzo posta devono essere
ricollegati – per quanto riguarda il notificante – al solo compimento delle formalità a lui direttamente
imposte dalla legge, ossia alla consegna dell’atto da notificare all’ufficiale giudiziario, essendo la
successiva attività di quest’ultimo e dei suoi ausiliari sottratte in toto al controllo ed alla sfera di
disponibilità del notificante medesimo.
Per contro, per quanto riguarda il destinatario, la notificazione si perfeziona solo alla data di
ricezione dell’atto, attestata dall’avviso di ricevimento, con la conseguente decorrenza da quella
stessa data di qualsiasi termine imposto al destinatario medesimo.
Va inoltre evidenziato che la notificazione e la comunicazione, qualora abbiano ad oggetto un
documento informatico sottoscritto con firma digitale, potranno essere effettuate anche in via
telematica.
Infine, la materia delle notificazioni costituisce oggetto di normativa internazionale e comunitaria. A
questo riguardo occorre menzionare la Convenzione relativa alla notifica all’estero di atti giudiziari
ed extragiudiziari adottata a L’Aja nel 1965 e, soprattutto, il Regolamento del Consiglio d’Europa n.
1348/2000.
Il sistema del Regolamento fa perno sulle autorità individuate all’interno di ciascuno Stato membro
quali “organi mittenti” ed “organi riceventi”, competenti a trasmettere gli atti che devono essere
notificati o comunicati in altro Stato membro e, rispettivamente, a ricevere gli atti giudiziari od
extragiudiziari provenienti da altro Stato membro.
La data di notificazione è quella in cui l’atto è stato notificato secondo la legge dello Stato membro
richiesto. C T
APITOLO REDICESIMO
LA NULLITÀ DEGLI ATTI DEL PROCESSO
LE REGOLE SULLA NULLITÀ. IL CRITERIO DEL RAGGIUNGIMENTO DELLO SCOPO
I principi generali che governano la nullità degli atti processuali sono rinvenibili nei tre commi
dell’art. 156 c.p.c.
Il primo comma stabilisce un principio di tassatività: è la legge a predeterminare in via generale ed
astratta i casi di nullità valutando, una volta per tutte, in quali ipotesi la difformità dallo schema
legale sia tale da giustificare la sanzione di nullità, con ciò sottraendo analoghe valutazioni al
giudice. 80
Il secondo comma dell’art. 156 contiene una rilevante deroga del principio generale, in quanto
consente, anche al di fuori di espressa comminatoria di legge, la pronuncia della nullità quando
l’atto manchi dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo. La valutazione
che il primo comma ha inteso sottrarre al giudice è qui, per così dire, in buona parte “recuperata”,
nel senso che il giudice può, senza ulteriori vincoli, pronunciare la nullità stessa ove ravvisi
l’incapacità dell’atto a realizzare lo scopo ad esso assegnato dall’ordinamento.
Il terzo comma dell’art. 156 sancisce, infine, la regola che impedisce al giudice la pronuncia della
nullità quando l’atto abbia raggiunto “lo scopo a cui è destinato”.
Il raggiungimento dello scopo costituisce lo sbarramento che impedisce la pronuncia della nullità di
un atto che avrebbe potuto essere dichiarata sia si sensi del primo che del secondo comma.
La strumentalità degli atti processuali serve a spiegare l’assoluta prevalenza del criterio dello
scopo dell’atto che, una volta raggiunto, ne rende irrilevante la difformità dallo schema legale.
NULLITÀ RELATIVE E NULLITÀ ASSOLUTE
L’art. 157 c.p.c. statuisce che la nullità non può essere pronunciata senza istanza di parte (che ben
potrebbe restare inerte), salvo i casi in cui la legge disponga che sia pronunciata d’ufficio.
È opportuno distinguere le nullità relative che, in quanto possono essere pronunciate solo su
istanza di parte, sono considerate “sanabili” a seguito dell’inattività della stessa parte, dalle nullità
assolute che, essendo svincolate dall’iniziativa di parte, sono di norma insanabili nel corso del
procedimento.
Il altre parole, la parte legittimata al rilievo è chiamata solo a scegliere se attivarsi o restare inerte,
nel senso che, ove si attivi, essa ha diritto a vedere pronunciata la nullità (naturalmente se
sussistono i presupposti di legge) senza dimostrare eventuali pregiudizi.
Per quanto attiene alle nullità assolute, cioè rilevabili d’ufficio anche dal giudice, particolare
attenzione è dedicata dal codice (art. 158 c.p.c.) alle nullità derivanti da vizi relativi alla costituzione
del giudice ed all’intervento del pubblico ministero (si pensi ai casi di irregolare composizione
dell’organo giudicante, ovvero di mancata partecipazione del pubblico ministero ai giudizi nei quali
il suo intervento è necessario.
Siffatte nullità, in quanto assolute, sono definite insanabili, salvo quanto disposto dall’art. 131 c.p.c.
in materia di assorbimento delle nullità nei motivi di gravame. Le nullità assolute, se non rilevate, si
convertono in vizi della sentenza e rimangono di fatto sanate se la sentenza non è impugnata e
passa in giudicato.
ESTENSIONE DELLA NULLITÀ. LA NULLITÀ PARZIALE. LA CONVERSIONE DELL’ATTO
NULLO
Poiché l’atto processuale non è isolato ma s’inserisce nella serie di atti del procedimento, si pone il
problema, risolto dall’art. 159 c.p.c. primo comma, di individuare i limiti di estensione della nullità.
La regola è che la nullità non travolge mai gli atti precedenti, ma solo quelli successivi che non
siano “indipendenti” da quello nullo (c.d. nullità derivata); tale estensione richiede che l’atto nullo
sia il necessario presupposto di quelli successivi.
Allo stesso modo, il secondo comma dell’art. 159 c.p.c. stabilisce che la nullità di una parte
dell’atto non colpisce le altre parti che ne sono indipendenti (nullità parziale): si pensi alla
sentenza che pronunci su più cause riunite per connessione e che sia nulla con riferimento solo ad
una causa).
L’ultimo comma dell’art. 159 c.p.c. contempla il fenomeno della c.d. conversione dell’atto nullo
per il quale, ove il vizio di nullità impedisca un determinato effetto, l’atto può tuttavia produrre gli
“altri effetti ai quali è idoneo”.
NULLITÀ DELLA SENTENZA E PRINCIPIO DI ASSORBIMENTO (O CONVERSIONE) DELLE
NULLITÀ NEI MOTIVI DI GRAVAME
Il primo comma dell’art. 161 c.p.c. sancisce il principio che la nullità delle sentenze soggette ad
appello o a ricorso per cassazione può essere fatta valere soltanto “nei limiti e con le regole
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proprie” di tali mezzi di impugnazione (c.d. principio di assorbimento delle nullità nei motivi di
gravame).
Per aversi nullità della sentenza occorre che non si sia verificata la sanatoria di una nullità relativa
di un atto della serie procedimentale, oppure che la nullità sia assoluta e tale da investire tutti gli
atti successivi fino alla sentenza o, infine, che il vizio investa direttamente la sentenza. Ma è anche
necessario che il giudice, in sede di pronuncia della sentenza, non si avveda del vizio ed eserciti i
propri poteri decisori (anche sul merito) emettendo una sentenza che è affetta da nullità.
Il primo comma dell’art. 161 c.p.c. fissa una regola speciale che prescrive le modalità attraverso le
quali la nullità della sentenza può essere fatta valere.
Essa costituisce il punto di arrivo di una lunga evoluzione, che ha inizio con il passaggio dall’actio
nullitatis (quale azione di mero accertamento della inefficacia della sentenza nulla) alla quaerela
nullitatis (come specifico rimedio impugnatorio), fino alla scomparsa di quest’ultima e
all’attribuzione al giudice dell’impugnazione del potere di accertare e di pronunciare la nullità della
sentenza di primo grado in presenza di specifico motivo fatto valere dalla parte interessata.
Si sostiene in dottrina che il carattere d’insanabilità delle nullità non può ritenersi circoscritto al
giudizio di primo grado e che la clausola di “salvezza” dell’art. 161 c.p.c. vada intesa nel senso che
la proposizione dell’impugnazione della sentenza è condizione indispensabile perché il giudice
possa, d’ufficio, rilevare nel corso del giudizio d’appello o di cassazione le nullità stesse.
La giurisprudenza più recente sembra orientata ad escludere in capo al giudice d’appello ogni
potere di rilevazione officiosa e a riconoscere che i vizi in esame convertano tout court in motivi di
gravame e debbano essere fatti valere nei limiti e con le forme proprie dei mezzi d’impugnazione.
Se essi non vengono fatti valere in questo modo, il giudice dell’impugnazione non può, pertanto,
rilevarli d’ufficio.
SENTENZA NON SOTTOSCRITTA E ATTO INESISTENTE
Il principio di assorbimento trova applicazione quando la sentenza manchi della sottoscrizione
del giudice (art. 161 secondo comma c.p.c.).
Questo vizio è ritenuto dalla legge talmente grave che, al riguardo, si parla anche di “nullità-
inesistenza” o, più semplicemente, di inesistenza, per sottolineare l’impossibilità di sottoporre
questo vizio a qualsiasi tipo di sanatoria.
Questa nozione, ad avviso degli autori, è usata il più delle volte fuori luogo. Sembra, infatti, che di
inesistenza in senso proprio si possa parlare solo quando manca assolutamente, all’autore
dell’atto, il potere che egli con questo vorrebbe esercitare ( ad esempio, una sentenza, un decreto
o ordinanza emesso dal cancelliere).
È evidente l’assoluta insanabilità dell’inesistenza della sentenza o, in generale, dell’atto finale del
procedimento, che sarà in questi casi del tutto inidoneo ad acquisire l’autorità del giudicato formale
e a definire il procedimento.
LA RINNOVAZIONE DELL’ATTO NULLO
Stando al primo comma dell’art. 162 c.p.c., il giudice, allorché pronuncia la nullità, deve disporre
“quando sia possibile” la rinnovazione degli atti ai quali la nullità di estende.
I limiti della rinnovazione sono di due tipi: l’atto nullo deve essere rinnovabile sia per sua natura
intrinseca (non è, ad esempio, rinnovabile la testimonianza resa da soggetto incapace), sia per
mancanza di impedimenti materiali (ad esempio, quando il testimone è nel frattempo deceduto).
In secondo luogo, la rinnovazione non può essere disposta se, al momento della pronuncia della
nullità, sia scaduto il termine perentorio per il compimento dell’atto.
Quest’ultimo limite è legato all’ulteriore problema del rapporto tra atto nullo ed atto rinnovato, in
relazione agli effetti di quest’ultimo. Salvo che la legge non disponga diversamente, si tratta di
effetti ex nunc che si producono, cioè, dal momento in cui la parte interessata ponga in essere
l’atto oggetto dell’ordine giudiziale di rinnovazione. 82
P S
ARTE ESTA
LE PROVE 83
C Q
APITOLO UATTORDICESIMO
LE PROVE
NOZIONE DI PROVA
Per comprendere cosa sia e a cosa serva la prova nel processo civile è sufficiente osservare che i
fatti, posti dall’attore a fondamento della domanda (costitutivi) e dal convenuto a sostegno delle
proprie difese (estintivi, modificativi ed impeditivi), rappresentano affermazioni meramente
ipotetiche e necessitano di essere verificati, al fine di consentire al giudice di applicare la regola
iuris al caso concreto.
La prova può definirsi, in generale, come uno strumento di rappresentazione ed accertamento di
determinati fatti che si assumono dalle parti come storicamente accaduti, in grado di fondare e di
influire sul convincimento del giudice.
La codificazione vigente riproduce, sul modello francese, la bipartizione della disciplina delle
prove tra codice civile e codice di procedura civile, anche se si può osservare che, mentre il
codice di procedura civile regola l’assunzione nel processo dei mezzi di prova, il codice civile ne
configura inderogabilmente i “tipi normativi” e detta le regole della ripartizione, tra i soggetti del
processo, dell’onere della prova.
IL PRINCIPIO DI DISPONIBILITÀ DELLA PROVA. I MEZZI DI PROVA “D’UFFICIO”
L’art. 115 c.p.c. fissa il principio secondo il quale il giudice, salvi i casi previsti dalla legge, deve
porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero (c.d.
principio di disponibilità della prova).
Occorre precisare che si può essere tentati di parzialità nella valutazione di quelle fonti di
conoscenza (fatti materiali) che si sono personalmente ed autonomamente ricercate ed acquisite,
ma non nelle fonti, già presenti nel processo, per essere state da altri allegate, che vengono
esaminate per il loro possibile uso ai fini della decisione.
In altri termini, si deve distinguere tra la fonte materiale di prova – cioè il contenuto probatorio –
che, cercata e trovata fuori del processo, vi entra per iniziativa o indicazione di chi, appunto, l’ha
cercata e trovata, e il mezzo istruttorio di quella fonte, cioè il procedimento tipizzato dalla legge
che, sull’impulso dello stesso soggetto che ha acquisito quella fonte, o di altri, viene svolto per far
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assumere nel processo la fonte medesima, cioè per valutarne l’utilità o meno ai fini della decisione
in fatto.
Ne consegue che l’imparzialità “psicologica” del giudice decidente è garantita, e l’inquisitorietà del
processo è evitata, solo se i poteri officiosi conferiti al giudice vengono limitati all’assunzione
istruttoria di una fonte di prova che le parti private o il pubblico ministero abbiano previamente già
allegate.
LA RIPARTIZIONE DEGLI ONERI PROBATORI TRA LE PARTI. FATTI NOTORI E FATTI
PACIFICI
L’art. 2697 c.c. ripartisce tra le parti gli oneri di provare i fatti da ciascuna allegati, assegnando
all’attore l’onere di provare i fatti costitutivi degli effetti di cui l’attore stesso chiede la dichiarazione
o la costituzione, ed al convenuto l’onere di provare i fatti estintivi, impeditivi o modificativi di questi
effetti (onere della prova in senso soggettivo).
Sono fatti costitutivi quei fatti che la legge considera rilevanti ai fini della produzione di quegli
effetti giuridici sostanziali che l’attore invoca; fatti impeditivi sono quei fatti che incidono sulla
mancanza dei presupposti del fatto costitutivo, impedendo alla fattispecie costitutiva di produrre i
propri effetti; mentre i fatti estintivi o modificativi hanno la capacità di far estinguere o modificare
il diritto fatto valere dall’attore.
Grava sulla parte che ha formulato la domanda o l’eccezione l’onere di provare i fatti che ne
stanno alla base: actore non probante reus absolvitur.
L’ordinamento prevede alcune deroghe espresse alla regola di ripartizione dell’onere della prova,
giustificate dalla natura del fatto da provare.
La prima deroga riguarda i fatti notori.
Il secondo comma dell’art. 115 c.p.c. consente al giudice, senza bisogno di prova, di porre a
fondamento della decisione quelle nozioni di fatto che rientrano nella “comune esperienza”. Spetta
al giudice, comunque, decidere sulla rilevanza dei fatti notori ai fini della decisione della causa.
La seconda deroga riguarda i fatti pacifici.
Non vi è necessità di fornire la prova anche dei fatti affermati da una parte, e posti a fondamento o
della domanda o dell’eccezione, la cui esistenza sia stata ammessa esplicitamente dall’altra parte
o sia presupposto necessario delle sue difese, essendo in questo caso il giudice vincolato nel
decidere alle ragioni di fatto enunciate nelle difese delle parti.
TIPICITÀ DEI MEZZI DI PROVA
Il catalogo dei mezzi di prova che il nostro ordinamento conosce e disciplina è “chiuso”, nel senso
che i mezzi di prova sono quelli tipicamente previsti dalla legge.
Sul significato e sulla stessa esistenza del principio di tipicità dei mezzi di prova non vi è accordo in
dottrina, al cui interno si è da tempo sviluppato un acceso dibattito attorno alle cosiddette “prove
atipiche”.
Occorre osservare che non esistono, al di fuori di quelli previsti dalla legge, strumenti idonei a far
acquisire al processo le medesime fonti di prova acquisibili con i mezzi tipici.
Tipicità dei mezzi di prova significa, dunque, che il giudice non ha alcun potere discrezionale
nell’usare, ai fini dell’acquisizione delle fonti di convincimento, mezzi diversi da quelli tipicamente
predisposti dalla legge per l’acquisizione di quel determinato contenuto probatorio.
Le parti hanno il diritto di sapere attraverso quali strumenti, tra quelli precostituiti per legge, le
singole fonti dio prova possano essere assunte ed usate dal giudice ai fini della decisione, proprio
per evitare che questi tragga il proprio convincimento da un suo processo mentale alla cui
formazione e al cui controllo le parti stesse siano rimaste estranee.
Le prove atipiche non possono essere equiparate a quelle tipiche anche per una serie di ragioni
che si ricavano dal diritto positivo.
Infatti:
a) l’art. 116 c.p.c., nel consentire al giudice di desumere argomenti di prova dalle risposte al
libero interrogatorio e dal comportamento processuale delle parti, ha escluso che le dette
fonti di informazione possano divenire comportamenti esclusivi della valutazione giudiziale
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ai fini della decisione. Gli argomenti di prova non sono propriamente prove, ma strumenti
logico-critici per valutare le prove tipiche. In sostanza, gli argomenti di prova possono
“corroborare” il convincimento del giudice ma giammai, di per sé soli, fondarlo.
b) L’art. 320 c.p.c. sta a dimostrare che non possono fondare di per sé il libero convincimento
del giudice fatti la cui cognizione sia stata comunque acquisita fuori del processo.
CLASSIFICAZIONE DELLE PROVE
La dottrina individua tradizionalmente alcune tipologie di classificazione dei diversi mezzi di prova
che occorre richiamare:
1. prova diretta e prova indiretta. Il criterio distintivo è dato dal diverso tipo di percezione del
giudice, se direttamente legata al fatto ovvero mediata da un altro fatto che consenta di
risalire al primo. Più di recente, si è definita diretta la prova che verte sul fatto principale ed
indiretta quella che ha ad oggetto un fatto secondario da cui possono ricavarsi elementi utili
a dimostrare il fatto principale;
2. prova critica e prova storica. La distinzione può intendersi o nel senso che la prova
storica implica un’attività percettiva da parte del giudice, mentre quella critica presuppone
un’attività deduttiva, oppure relativamente al tipo di rappresentazione, quale capacità di
fornire “l’idea corrispondente al fatto”: capacità che caratterizzerebbe le prove storiche
(documenti, testimonianze), al contrario di quelle critiche (le presunzioni), che non
fornirebbero alcuna rappresentazione del fatto, ma che consentirebbero al giudice di
ricostruirlo induttivamente, partendo da un fatto per arrivare ad un altro fatto.
3. prove precostituite e prove costituende. Si dicono precostituite le prove che si formano
al di fuori del processo, a prescindere dal “tempo” della loro formazione (documenti). Sono
costituende le prove che, invece, si formano nel corso del processo di fronte al giudice
(testimonianza, confessione, giuramento).
4. prova diretta e prova contraria. La prova diretta mira – in tale specifica accezione – a
dimostrare l’esistenza del fatto da provare e, in questo senso, può anche definirsi come
prova positiva o affermativa, mentre la prova contraria ha per scopo il dimostrare che quello
stesso fatto non esiste o non si è verificato e, dunque, può essere definita anche come
prova negativa.
L’”INGRESSO” DELLA PROVA NEL PROCESSO. IL GIUDIZIO DI AMMISSIBILITÀ E DI
RILEVANZA DELLE PROVE COSTITUENDE
Occorre distinguere le modalità di acquisizione delle prove nel processo a seconda che si tratti di
prova precostituita o di prova costituenda.
Le prove precostituite hanno ingresso nel processo in virtù della produzione, cioè dell’attività della
parte la quale provvede ad inserire nel proprio fascicolo il documento p altra cosa utile alla prova,
indicandone gli estremi o direttamente nell’atto introduttivo (se la produzione avviene
contestualmente alla costituzione in giudizio), ovvero nel verbale dell’udienza in cui avviene la
produzione.
Una volta che il documento sia stato prodotto in giudizio, esso entra a far parte del materiale
istruttorio a disposizione del giudice ai fini della decisione.
Le modalità d’ingresso delle prove costituende sono assai più complesse in quanto non è
sufficiente la richiesta della sola parte, ma occorre che il giudice con apposito provvedimento
(ordinanza), ammetta la prova richiesta e provveda successivamente ad assumerla, cioè ad
acquisirla al processo.
In particolare, il giudice è chiamato a valutare se l’istanza di prova è stata formulata nel rispetto dei
limiti di ammissibilità che il codice civile prescrive per ciascun mezzo, nonché se il mezzo richiesto
sia rilevante ai fini della decisione.
Ai fini dell’ammissione della prova costituenda, il giudice deve inoltre compiere una valutazione di
“rilevanza” della prova richiesta dalla parte. 86
Mentre il giudizio di ammissibilità ha carattere prevalentemente vincolato, nel senso che si
risolve nell’applicazione al caso concreto di regole predeterminate dalla legge, il giudizio di
rilevanza è una valutazione di concreta utilità del mezzo, e dei suoi ipotetici risultati, a dimostrare
o concorrere a dimostrare il fatto oggetto di prova e a fondare il convincimento del giudice ai fini
della decisione finale.
LE REGOLE DI VALUTAZIONE DELLA PROVA. PROVA LIBERAMENTE APPREZZABILE E
PROVA LEGALE
Il primo comma dell’art. 116 c.p.c. dispone che il giudice deve valutare la prova “secondo il suo
prudente apprezzamento”, salvo che la legge disponga altrimenti, sancendo, in tal modo, la
fondamentale distinzione tra prova libera o liberamente apprezzabile dal giudice (che costituisce la
regola) e prova legale (che costituisce l’eccezione).
Con la prova legale il legislatore non fa altro che sottrarre al giudice ogni valutazione sull’efficacia
della prova, vincolandolo a ritenere per vero il fatto oggetto della prova in base ad una valutazione
che la stessa legge opera una volta per tutte.
Ad esempio, l’atto pubblico fa “prova legale “ di quanto il notaio attesta essere avvenuto in sua
presenza, la confessione fa “prova legale” del fatto a sé sfavorevole confessato dalla parte.
La prova libera, invece, è quella liberamente valutabile dal giudice il quale non è sottoposto dalla
legge ad alcun vincolo o criterio predeterminato, ma stabilisce caso per caso l’efficacia di ogni
prova, ai fini della formazione del proprio convincimento, senza che questa libertà di valutazione si
risolva in arbitrio.
Ad esempio, il giudice non è vincolato dalle dichiarazioni rese dal testimone quando, in presenza di
altri elementi di prova, può ritenere non attendibili.
LA PROVA PER PRESUNZIONI
Il codice civile disciplina, tra i mezzi di prova, anche le presunzioni che, secondo la definizione
contenuta nell’art. 2727 c.c., consistono nelle conseguenze che la legge o il giudice trae da un
fatto noto per risalire ad un fatto ignoto.
Si distinguono in: presunzioni legali, che traggono la loro fonte da singole disposizioni di legge,
che non fanno altro che dispensare da qualunque prova coloro a favore dei quali esse sono
stabilite, senza conseguenze sull’accertamento del fatto; le presunzioni assolute che sono quelle
che escludono la prova contraria; le presunzioni relative che si risolvono in un’inversione
dell’onere della prova, imponendo all’altra parte la prova contraria.
Infine, ci sono le presunzioni semplici cioè quelle “non stabilite dalla legge”) che sono
ragionamenti logici che, partendo da un fatto noto, attraverso la valutazione di “ciò che
comunemente accade in casi simili”, consentono di pervenire all’esistenza di un fatto ignoto da
provare (factum probandum).
Le condizioni che la legge pone per accedere alla presunzione semplice dono due:
1. gravità e precisione delle presunzioni.
queste nozioni si riferiscono al grado di convincimento che la presunzione è idonea a generare, nel
senso che il fatto ignoto deve essere, sulla base di un adeguato grado di probabilità, conseguenza
non equivoca del fatto noto, in base ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti;
2. concordanza.
Si ha prova del fatto solo se vi sono più presunzioni convergenti nel senso di dimostrane
l’esistenza.
LE PROVE PRECOSTITUITE: A) L’ATTO PUBBLICO E LA SCRITTURA PRIVATA
In relazione alla sua struttura ed al suo autore, il documento si distingue in pubblico e privato. 87
L’atto pubblico è quel documento redatto, con le formalità richieste dalla legge, da notaio o da
altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l’atto è formato,
debitamente sottoscritto da tutte le parti..
L’atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento e delle
dichiarazioni delle parti e dei fatti che il pubblico ufficiale attesti avvenuti in sua presenza o da lui
compiuti: piena prova significa che l’atto pubblico costituisce prova legale dei fatti come
rappresentati, che non possono essere diversamente apprezzati dal giudice.
L’unico mezzo che l’ordinamento mette a disposizione delle parti per inficiare e porre nel nulla
l’efficacia di prova legale è quello della querela di falso civile.
La scrittura privata è quel documento che viene in essere senza prescrizione di forme, capace di
conservare durevolmente la rappresentazione di un accadimento o la dichiarazione di uno o più
soggetti che vi appongono in calce la loro sottoscrizione, così facendo proprio ed assumendo la
paternità di quanto in esso rappresentato.
Tra i requisiti ora descritti, la sottoscrizione è quello di maggior rilievo in quanto individua l’autore
del documento e svolge una funzione essenziale: con essa l’autore si assume la paternità delle
dichiarazioni documentate nella scrittura e per questo la sottoscrizione deve essere autografa.
L’efficacia della scrittura privata consiste nella piena prova, fino a querela di falso, della
provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta, ma essa è subordinata al riconoscimento
legale o giudiziale della sottoscrizione.
Il riconoscimento legale (“si ha per conosciuta”) richiede che la sottoscrizione sia autenticata da
notaio od altro pubblico ufficiale.
Il riconoscimento giudiziale costituisce invece fenomeno più complesso in quanto, a seguito della
produzione in giudizio della scrittura privata, può verificarsi:
a) che la parte, che sia già costituita in giudizio, nei cui confronti la scrittura privata è stata
prodotta, compaia e dichiari espressamente di riconoscere la propria sottoscrizione
(riconoscimento espresso);
b) che la parte, sempre costituita, non disconosca la sottoscrizione o dichiari di non
conoscerla nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla produzione: poiché la
legge pone a carico di questa parte l’onere del tempestivo disconoscimento, in caso di
mancato assolvimento di tale onere, la conseguenza è il riconoscimento (tacito);
c) che la parte, nei cui confronti la scrittura sia stata prodotta, sia rimasta contumace, cioè
assente dal processo. anche in questo caso l’art. 215 c.p.c. fa discendere l’effetto del
riconoscimento tacito.
Per quanto concerne la data della scrittura, la relativa dichiarazione fa prova tra le parti negli stessi
limiti in cui fanno prova le altre dichiarazioni contenute nel documento, con la conseguenza che la
prova di essa può essere data con qualsiasi mezzo.
(SEGUE) … B) GLI ALTRI DOCUMENTI, IN PARTICOLARE IL DOCUMENTO INFORMATICO
Oltre all’atto pubblico e alla scrittura privata, il codice civile elenca una serie di altri documenti, la
cui efficacia probatoria è subordinata alla ricorrenza di determinati presupposti.
Si tratta, in particolare, del telegramma (art. 2705 c.c.), che ha la stessa efficacia probatoria della
scrittura privata se l’originale consegnato all’ufficio di partenza è sottoscritto dal mittente; e delle
riproduzioni meccaniche (fotografiche, cinematografiche, fonografiche) di fatti e cose che
svolgono efficacia di piena prova dei fatti e delle cose rappresentati, se colui contro il quale esse
sono prodotte in giudizio non ne disconosce la conformità ai fatti ed alle cose medesimi.
I più recenti progressi delle tecnologie della documentazione, hanno portato alla ribalta nuovi e
sofisticati strumenti di documentazione, inducendo il legislatore ad introdurre discipline
“extracodicistiche” del documento, della sua forma e della sua efficacia.
Si tratta di documenti non cartacei, costituiti da una memoria elettronica che consente di percepire
la manifestazione di volontà che l’agente ha espresso in una forma che non è né orale, né scritta,
ma “digitale”. 88
Il documento informatico sottoscritto con firma elettronica “soddisfa il requisito legale della prova
scritta” e “fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha
sottoscritto”.
Per comprendere come possa pervenirsi all’equiparazione del documento informatico al
documento scritto, occorre tenere conto che, mentre nella scrittura privata è la sottoscrizione che
fornisce la prova della provenienza della stessa, “imputandola” ad un determinato soggetto il quale
appone il proprio nome con scrittura autografa, la semplice digitazione sulla tastiera del computer
del proprio nome non è in grado di realizzare il medesimo effetto (chiunque può digitare qualsiasi
nome). È stato legalizzato, quindi, un sistema di imputazione soggettiva del documento informatico
attraverso il sistema della firma digitale che, attraverso la combinazione di “chiavi” crittografiche
(asimmetriche) informatiche, consente di risalire all’autore del documento.
LA VERIFICAZIONE DELLA SCRITTURA PRIVATA E LA QUERELA DI FALSO CIVILE
Le funzioni giurisdizionali che si attuano nei processi di querela di falso e di verifica principale di
scrittura privata rientrano tra le ipotesi di tutele costitutive sanzionatorie, dirette a reprimere una
situazione antigiuridica.
Il carattere repressivo della querela di falso consiste nella eliminazione della pubblica fede che
assiste gli atti pubblici e le scritture private autenticate o riconosciute e, nel caso di rigetto della
stessa, nel negativo accertamento del diritto all’eliminazione della “pubblica prova legale”.
Per contro, la verifica principale di scrittura non elimina, ma crea una peculiare efficacia
documentale-sostanziale ed ha, anch’essa, carattere repressivo di una situazione antigiuridica,
consistente nella violazione dell’obbligo di cooperazione del soggetto passivo al riconoscimento
della scrittura.
Il procedimento (incidentale) di verificazione, che ha ad oggetto prevalente la sottoscrizione,
presuppone che la parte produca in giudizio la scrittura privata e che l’altra parte (nei cui confronti
essa è prodotta) disconosca, cioè neghi formalmente la propria sottoscrizione (o la propria
scrittura) nella prima udienza o nella prima difesa successiva alla produzione.
Sull’istanza di verificazione pronuncia con sentenza, a seguito degli opportuni accertamenti, il
medesimo giudice investito anche del merito della controversia.
La querela di falso civile costituisce l’unico mezzo previsto dall’ordinamento per porre nel nulla la
piena prova in cui consiste la pubblica fede, che assiste l’atto pubblico e la scrittura privata
autenticata, riconosciuta e verificata.
In particolare, con il procedimento di querela di falso si può far accertare sia la falsità materiale
(per contraffazione, per alterazione), sia ideologica dell’atto pubblico.
La querela di falso può proporsi sia in via principale che incidentale (cioè in corso di causa) e, in
quest’ultima ipotesi, in ogni stato e grado del giudizio, finché la verità del documento non sia stata
accertata con sentenza passata in giudicato o, per meglio dire, finché la querela di falso non sia
stata respinta con sentenza passata in giudicato.
Nel procedimento di falso è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero e tale necessaria
partecipazione si ricollega all’interesse superindividuale alla tutela della pubblica fede.
LE PROVE COSTITUENDE: A) LA CONFESSIONE
La confessione è la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e
favorevoli all’altra parte.
La dichiarazione confessoria può essere resa sia stragiudizialmente, cioè al di fuori del processo,
che giudizialmente, cioè di fronte al giudice nel corso del processo.
La dichiarazione stragiudiziale può essere resa per iscritto (si pensi alla quietanza di pagamento)
e, in questo caso, la prova della stessa è documentale e si applicano le regole già esaminate per i
documenti e per la produzione in giudizio degli stessi. Se la dichiarazione è resa verbalmente,
sempre al di fuori del processo, essa può essere provata per testimoni, salvo che verta su oggetto
sul quale la prova testimoniale non sia ammissibile.
La confessione giudiziale può essere spontanea o provocata mediante interrogatorio formale.
L’interrogatorio formale è deferito da una parte all’altra parte nel corso del processo; poiché l’art.
89
231 c.p.c. prescrive che la parte interrogata debba rispondere “personalmente”, è da escludersi
che l’interrogatorio possa essere reso dal difensore.
L’efficacia della confessione resa giudizialmente e della confessione stragiudiziale è quella tipica
della prova legale, purché non verta su fatti relativi a diritti non disponibili.
(SEGUE) … B) IL GIURAMENTO
Anche il giuramento è una dichiarazione che la parte rende, con l’osservanza di precise formalità,
solo di fronte al giudice, cioè nel corso di svolgimento del processo, sulla verità di fatti che sono
oggetto di causa e che, contrariamente alla dichiarazione confessoria, può anche giovare alla
parte che la rende.
Esistono tre tipi di giuramento, che costituiscono altrettante ipotesi di prove costituende:
1. il giuramento decisorio.
È il giuramento che una parte deferisce all’altra per farne dipendere la decisione totale o parziale
della causa. Esso deve avere per oggetto fatti specifici non solo rilevanti, ma decisivi ai fini
dell’accoglimento o del rigetto della domanda o dell’accertamento di un “punto di fatto” posto a
fondamento della stessa.
La parte alla quale sia deferito il giuramento può decidere di prestarlo, di non prestarlo ovvero di
riferirlo all’altra parte.
Il giuramento è prestato dalla parte personalmente ed è ricevuto dal giudice istruttore.
Per quanto concerne l’efficacia probatoria, è importante sottolineare come l’art. 2738 c.c. non
ammetta l’altra parte a provare il contrario e non consenta alla stessa nemmeno di chiedere la
revocazione della sentenza, qualora il giuramento sia stato dichiarato falso, ma solo di domandare
il risarcimento dei danni in caso di condanna penale per falso giuramento.
Proprio questa efficacia incontrovertibile di prova legale ha indotto alcuni autori a dubitare
dell’effettiva legittimità che il giuramento decisorio riveste, ed a suggerire di limitarne l’ammissibilità
ai soli casi in cui non sia possibile raggiungere altrimenti la prova del fatto.
2. il giuramento suppletorio.
È il giuramento deferito d’ufficio dal giudice ad una delle parti quando la domanda o le eccezioni,
pur non essendo del tutto sfornite di prova, non sono pienamente provate. Si tratta di un mezzo di
prova integrativo al quale il giudice può ricorrere in presenza della c.d. semipiena probativo.
3. il giuramento estimatorio.
È il giuramento, anch’esso deferito d’ufficio dal giudice per stabilire il valore della cosa domandata
ove non sia possibile accertarlo altrimenti. L’efficacia del giuramento estimatorio è quella tipica
della prova legale, in quanto vincola il giudice a dichiarare vittoriosa la parte che ha giurato e
soccombente l’altra parte, senza che quest’ultima possa essere ammessa a provare la falsità delle
dichiarazioni oggetto del giuramento stesso.
(SEGUE) … C) LA PROVA TESTIMONIALE
La prova testimoniale consiste nelle dichiarazioni (narrazioni) che soggetti necessariamente diversi
dalle parti in causa rendono alla presenza del giudice attraverso forme e modalità predeterminate
dalla legge.
Il codice civile fissa una serie di limiti di ammissibilità della prova testimoniale dei contratti.
In particolare:
l’art. 2721 c.c. esclude la prova testimoniale dei contratti quando il valore dell’oggetto
eccede i 2,58E. La ratio del limite sta nella considerazione che di norma obbligazioni di una
certa rilevanza economica sono assunte dalle parti per iscritto.
Non è ammessa la prova di patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, per i
quali si alleghi che la stipulazione sia stata anteriore o contemporanea. 90
Se il patto aggiunto o contrario è stato oralmente raggiunto in epoca posteriore alla
formazione del documento, il giudice può consentire la prova solo se appaia verosimile che
quei patti siano stati raggiunti.
L’art. 2725 c.c. esclude, di norma, la prova quando – per legge o per volontà delle parti –
un contratto deve essere provato per iscritto. Si tratta di quei casi nei quali la legge
richiede la forma scritta ad substantiam o ad probationem ed impone, pertanto, che la
prova non possa essere data se non con la produzione del documento.
Dei limiti di ammissibilità della prova testimoniale si qui esaminati va distinto quello che il codice di
rito fissa in relazione alle persone che possono rendere la testimonianza, escludendo dalla
stessa i soggetti che hanno nella causa un “interesse che potrebbe legittimare la loro
partecipazione al giudizio” (art. 246 c.p.c.).
Altri limiti, sanciti dagli artt. 247 e 248 c.p.c., relativi al divieto di testimoniare del coniuge, dei
parenti e degli affini e all’audizione dei minori degli anni quattordici, sono stati cancellati dalle
sentenze della Corte cost. in quanto fondati su un giudizio preventivo, da parte del legislatore, di
inattendibilità delle dichiarazioni di tali soggetti, che è stato ritenuto in contrasto con il principio del
libero convincimento del giudice il quale, solo a posteriori, può e deve compiere la valutazione di
attendibilità della prova.
L’interrogatorio del testimone deve vertere sui fatti attorno ai quali il teste è chiamato a deporre,
ma il giudice può, d’ufficio o su istanza di parte, rivolgere al teste tutte le domande ritenute utili a
chiarire i fatti medesimi.
A differenza degli altri mezzi di prova, la legge non detta alcuna indicazione sull’efficacia
probatoria della testimonianza, in quanto ha preferito rimettere al libero apprezzamento del
giudice il giudizio sull’attendibilità della decisione finale.
(SEGUE) … D) L’ISPEZIONE, L’ESIBIZIONE, LA RICHIESTA DI DOCUMENTI ALLA
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
Vanno inquadrate tra le prove costituende due ulteriori strumenti probatori: l’ispezione e
l’esibizione.
Ai sensi dell’art. 118 c.p.c. il giudice può ordinate, anche d’ufficio, alle parti e ai terzi di consentire
sulla loro persona o su cose mobili o immobili in loro possesso le ispezioni ritenute indispensabili
per conoscere i fatti di causa.
Si tratta di un mezzo di prova attraverso il quale il giudice acquisisce la percezione diretta di cose o
di aspetti e situazioni inerenti a persone.
L’ispezione non deve comportare grave danno per la parte o per il terzo.
Se la parte rifiuta di eseguire l’ordine d’ispezione senza che sussistano i giustificati motivi, il
giudice può, da questo rifiuto, desumere argomenti di prova ai sensi dell’art. 116 c.p.c.
Per quanto attiene all’esibizione, va premesso che i documenti o altre cose mobili utili alla prova –
che siano nella disponibilità della parte che intende avvalersene – possono da questa essere
direttamente prodotti in giudizio ed allegati al proprio fascicolo di parte; se sono, invece, nella
disponibilità dell’altra parte o di un terzo, l’acquisizione al processo è possibile attraverso l’ordine di
esibizione che il giudice può pronunciare su istanza di parte, dettando i provvedimenti opportuni
circa tempo, luogo e modalità dell’esibizione.
Anche l’esibizione non deve comportare grave danno per la parte o per il terzo, né la violazione di
segreti. L’ordine, inoltre, deve presupporre che i documenti o le altre cose da esibirsi contengano
la prova su fatti rilevanti della causa e non può essere emesso con finalità esplorative.
La parte che non esegue l’ordine di esibizione esercita una legittima facoltà di difesa. Tale
comportamento può fornire al giudice argomenti di prova in base alla previsione generale dell’art.
116 c.p.c., riguardante il “contegno delle parti…nel processo”.
Nel contesto dell’esibizione va inquadrato anche il potere del giudice di richiedere d’ufficio alla
pubblica amministrazione “informazioni scritte relative ad atti e documenti”.
Presupposto dell’esercizio di tale iniziativa officiosa è l’impossibilità di ottenere il documento per
via di esibizione dalla parte, in quanto quest’ultima non è in grado di “accedervi” direttamente,
anche se deve escludersi ogni funzione sostitutiva dell’onere probatorio su di essa incombente. 91
LA CONSULENZA TECNICA E L’ESAME CONTABILE
La consulenza tecnica non può essere considerata un mezzo di prova.
Il giudice, anche d’ufficio, può disporre di avvalersi dell’opera del consulente tecnico al fine di
acquisire quelle cognizioni tecniche che egli reputa necessarie o solo opportune ai fini della
decisione, per far svolgere indagini e per domandare “chiarimenti alle parti”, assumere
“informazioni da terzi” ed “eseguire piante, calchi e rilievi”.
Nello svolgimento dell’attività del consulente deve essere garantito il rispetto del principio del
contraddittorio e, a tal fine, le parti possono nominare un proprio consulente (appunto il consulente
tecnico di parte), il quale ha diritto di partecipare ai singoli atti e può presentare osservazioni ed
istanze. La mancata comunicazione alle parti (e ai rispettivi consulenti) del giorno, ora e luogo di
inizio delle operazioni peritali dà luogo, di conseguenza, alla nullità della consulenza.
IL RENDIMENTO DEI CONTI
Il procedimento di rendimento dei conti non è solo un mezzo di prova, in quanto esso può anche
essere instaurato con autonomo giudizio.
Presupposto del procedimento è l’obbligo, di fonte legale o negoziale, che una parte ha nei
confronti di un’altra di fornire il conto, cioè di documentare è giustificare una determinata attività nei
suoi aspetti essenzialmente (ma non esclusivamente) contabili.
A seguito dell’ordinanza con la quale il giudice dispone la presentazione del conto, questo deve
essere depositato in cancelleria con i relativi documenti giustificativi almeno cinque giorni prima
dell’udienza fissata per la discussione dello stesso. Se il conto viene accettato il giudice pronuncia
ordinanza non impugnabile (cui è attribuita qualità di titolo esecutivo) di pagamento delle somme
che risultano dovute.
L’impugnazione del conto dà luogo ad una successiva fase processuale di discussione, nel corso
della quale il giudice può disporre, prima della decisione, gli opportuni mezzi di prova. 92
P S
ARTE ETTIMA
PRINCIPI DEL PROCESSO DI COGNIZIONE ORDINARIA 93
C Q
APITOLO UINDICESIMO
LE FASI INTRODUTTIVA E PRELIMINARE
IL PROCESSO DI COGNIZIONE ORDINARIA QUALE TUTELA “NORMALE”
Il processo di ordinaria cognizione costituisce la tutela “normale” del nostro sistema di giustizia
civile, quella forma di tutela cioè che è destinata a concludersi con un provvedimento avente forma
di sentenza.
Nella sentenza è contenuto l’accertamento pieno ed esauriente sul diritto o rapporto giuridico in
contestazione come dedotto in giudizio, di cui parla l’art. 2909 c.c. Si tratta di una pronuncia
attorno alla quale, una volta che sia divenuta incontrovertibile (nel senso di non più impugnabile
dalle parti nelle forme ordinarie) si forma, per volontà di legge, il c.d. “giudicato sostanziale”.
Le norme contenute negli artt. 163-310 c.p.c. disciplinano le modalità di svolgimento del processo
di cognizione di primo grado davanti al tribunale decidente in composizione collegiale. Ad esso fa
riferimento anche il processo davanti al tribunale in composizione monocratica.
Vi sono altre forme di tutela giurisdizionale “normale”, destinate anch’esse alla formazione del
giudicato sostanziale, che si attuano però attraverso processi a rito speciale, processi cioè che, in
considerazione delle peculiarità dei diritti e/o dei rapporti giuridici sostanziali che ne costituiscono
l’oggetto, si svolgono secondo regole procedimentale diverse da quelle generali, tipiche della tutela
normale.
Si parla, in questo caso, di “riti differenziati” quali, ad esempio, il processo del lavoro, il processo
locatizio, il processo dinanzi al giudice di pace e, più di recente, il processo societario.
È utile sottolineare che dalle forme sin qui sinteticamente descritte di tutela “normale” vanno tenute
distinte quelle altre forme di tutela giurisdizionale che, proprio in quanto rese sulla base di
cognizioni sommarie, si definiscono esse stesse sommarie, cautelari o non cautelari, in relazione
ai loro presupposti ed al diverso rapporto con la tutela “normale”.
Queste forme di tutela non danno mai luogo a sentenze che contengono l’accertamento descritto
nell’art. 2909 c.c., non sono, cioè, dirette alla formazione del giudicato sostanziale, ma hanno il
preciso scopo di rendere effettiva al massimo grado la tutela giurisdizionale dei diritti, di attuare
cioè, o di concorrere ad attuare il principio di cui all’art. 24 Cost., secondo il quale, per usare le
parole del Chiovenda, “il processo deve dare per quanto possibile a chi ha un diritto tutto quello e
proprio quello che egli ha diritto di conseguire”.
L’ATTO DI CITAZIONE: CONTENUTO, NULLITÀ E SANATORIA
L’atto di citazione costituisce il primo atto d’impulso e d’instaurazione del processo di ordinaria
cognizione, con il quale l’attore formula e propone la domanda giudiziale chiedendo la tutela
giurisdizionale del diritto o rapporto giuridico sostanziale da lui posto a fondamento della domanda.
La citazione ha due destinatari, essendo diretta da un lato al giudice individuato dallo stesso attore
come competente secondo i criteri statici (art. 99 c.p.c.), al quale è rivolta l’invocazione della tutela,
e dall’altro, alla parte convenuta, nei cui confronti sono rivolti gli effetti della domanda.
I requisiti dell’atto di citazione sono analiticamente descritti nel terzo comma dell’art. 163 c.p.c. e
comprendono: l’indicazione del tribunale davanti al quale la domanda è proposta; le generalità
dell’attore e del convenuto, nonché delle persone che rispettivamente li rappresentano o li
assistono; la determinazione della “cosa oggetto della domanda” (petitum); l’esposizione dei fatti e
degli elementi di diritto che costituiscono le ragioni della domanda (causa petendi); l’indicazione
specifica dei mezzi di prova dei quali l’attore intende valersi; le generalità del procuratore e
94
l’indicazione della procura, ove questa sia stata già rilasciata; l’indicazione del giorno dell’udienza
di comparizione con conseguente invito al convenuto a costituirsi nel termine di venti giorni prima
dell’udienza indicata nell’atto di citazione e l’avvertenza che la costituzione oltre detti termini
comporta le decadenze di cui all’art. 167 c.p.c.
L’attore ha, oltre che il dovere, l’interesse a dedurre compiutamente tutti i fatti e le ragioni di diritto
posti a fondamento della domanda, anche per costringere il convenuto a prendere posizione sugli
stessi con analoga completezza sin dal momento della comparsa di risposta.
L’atto di citazione, debitamente sottoiscritto dal difensore, deve essere, su istanza dell’attore o
dello stesso difensore, notificato al convenuto a cura dell’ufficiale giudiziario. Dalla data di
notificazione decorrono gli effetti sostanziali e processuali della domanda.
La mancanza o l’incompleta formulazione del contenuto dell’atto di citazione possono dar luogo a
varie specie di nullità.
A questo riguardo, l’art. 164 c.p.c. opera una netta distinzione tra vizi processuali e vizi sostanziali
della citazione, introducendo per ciascuna categoria di vizi un diverso regime di sanatoria.
I VIZI PROCESSAULI DELL’ATTO DI CITAZIONE
Sono i vizi consistenti nell’omissione o nell’assoluta incertezza dell’identificazione del tribunale
adito e del soggetto convenuto, nel mancato rispetto del termine minimo fissato dalla legge per la
comparizione del convenuto, nell’omissione della data dell’udienza di comparizione o
dell’avvertimento delle decadenze conseguenti alla mancata o tardiva costituzione.
Se il convenuto non si costituisce nei termini a lui assegnati, il giudice dispone la rinnovazione
della citazione, che deve essere effettuata dall’attore nel termine perentorio ordinato dal giudice
stesso (altrimenti il giudice ordina la cancellazione della causa dal ruolo e il processo si estingue;
se il convenuto si costituisce, il processo prosegue per la decisione di merito) con decorrenza degli
effetti processuali e sostanziali fin dalla prima notificazione.
I VIZI SOSTANZIALI DELL’ATTO DI CITAZIONE
Il quarto comma dell’art. 164 c.p.c. vuole nulla la citazione non solo se è omessa o risulta
assolutamente incerta l’indicazione della “cosa oggetto della domanda”, ma anche se manca
l’esposizione dei fatti che costituiscono le ragioni della domanda, cioè la causa petendi.
I vizi ora descritti sono sostanziali in quanto rendono l’atto non solo processualmente invalido, ma
anche inidoneo ad individuare il diritto che si vuol far valere in giudizio.
Anche questi vizi sono sanati, se il convenuto non si costituisce, dalla rinnovazione della citazione
(da effettuarsi nel termine perentorio ordinato dal giudice), ovvero dalla costituzione del convenuto:
ma, in quest’ultima ipotesi, il giudice anche d’ufficio deve fissare all’attore un termine perentorio
per integrare la domanda, sicché ad esso va riconosciuto un vero e proprio potere-dovere di
controllo, anche a prescindere dall’eccezione del convenuto, circa l’esistenza dei vizi sostanziali.
In caso di omissione od intempestività della rinnovazione, o di mancata integrazione della
citazione, si verificherà l’estinzione del processo.
Per contro, in caso di sanatoria, la legge prevede espressamente che “restano ferme le decadenze
maturate e salvi i diritti quesiti anteriormente alla rinnovazione”.
COSTITUZIONE DELLE PARTI, COMPARSA DI RISPOSTA E PRECLUSIONI A CARICO DEL
CONVENUTO
Entro il termine di dieci giorni dalla notificazione dell’atto di citazione, l’attore ha l’onere di costituirsi
in giudizio, cioè di svolgere un ulteriore atto d’impulso necessario perché il processo già pendente
prosegua nel suo iter procedimentale (la costituzione consiste nel materiale deposito, nella
cancelleria del giudice adito, della nota d’iscrizione a ruolo e del fascicolo dell’attore, contenente
l’originale dell’atto di citazione notificato, la procura e i documenti offerti in comunicazione. Nota
d’iscrizione e fascicolo sono presi in consegna dal cancelliere ai fini dell’iscrizione a ruolo della
causa e della formazione del fascicolo d’ufficio).
Il convenuto, dal canto suo, ha l’onere di costituirsi, di norma, almeno venti giorni prima
dell’udienza di comparizione fissata nell’atto di citazione, depositando in cancelleria la comparsa
95
di risposta, nella quale lo stesso convenuto deve proporre tutte le proprie difese, prendendo
posizione sui fatti posti a fondamento della domanda, indicare i mezzi di prova di cui intende
valersi e formulare le conclusioni.
L’art. 167 c.p.c. stabilisce che il termine per il deposito in cancelleria della comparsa di risposta,
cioè per la costituzione in giudizio, rappresenta anche il momento in cui maturano, a carico del
convenuto, importanti preclusioni, relative alla proposizione di eventuali domande riconvenzionali e
all’istanza di chiamata in causa di terzi.
IL GIUDICE ISTRUTTORE E LA CONDUZIONE DEL PROCEDIMENTO
Il codice del 1940, volendo assicurare la presenza attiva del giudice in ogni fase del processo, di
fronte all’alternativa tra giudice unico e giudice collegiale, ha adottato una tipica soluzione “di
compromesso” assegnando al giudice istruttore la sola funzione di istruire e preparare la causa per
la decisione, ed all’organo collegiale (di cui l’istruttore è componente nella qualità di giudice
relatore) quella di decidere la causa ad esso rimessa dall’istruttore.
La distinzione tra le due fasi è, in sé stessa considerata incompatibile con le esigenze di un
processo che si voglia realmente improntare a criteri di oralità, immediatezza e concentrazione.
Le scelte qui esaminate sono state già oggetto di incisiva revisione da parte del legislatore del
1990, e confermate dalla riforma attuata con il d. lgs. N. 51/1998 che ha introdotto il giudice unico
di primo grado.
Pur senza arrivare alla completa abolizione dell’organo collegiale, è stata introdotta la figura del
tribunale in composizione monocratica costituita dal giudice istruttore in funzione di giudice
unico, cui è stata riservata la decisione di tutte le controversie, salvo di quelle espressamente
riservate al collegio.
Tutto ciò ha accentuato la centralità del giudice istruttore, esaltandone non soltanto la naturale
funzione di conduzione del procedimento, ma anche la potestà decisoria.
L’art. 175 c.p.c. assegna al giudice istruttore “tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento
del procedimento”, nonché il potere-dovere di fissare, oltre che le udienze successive, i “termini
entro i quali le parti debbono compiere gli atti processuali”.
I provvedimenti che il giudice istruttore è chiamato a pronunciare assumono la forma
dell’ordinanza (sempre motivata), la quale non può mai pregiudicare la decisione della causa.
Questo principio sta a significare che l’organo decidente (sia esso lo stesso istruttore o il collegio)
non è mai vincolato dal contenuto dell’ordinanza. Inoltre, il carattere non decisorio ma
intrinsecamente organizzatorio e provvisorio delle ordinanze in questione, le rende modificabili o
revocabili dallo stesso giudice che le ha pronunciate.
L’UDIENZA PRELIMINARE
L’art. 180 c.p.c. prevede, quale prima udienza in senso cronologico dopo la fase di costituzione
delle parti, l’udienza “di prima comparizione” che, per le attività che vi si debbono compiere e
per l’assenza di preclusioni che la caratterizza, preferiamo definire udienza preliminare.
Nel corso di detta udienza, il giudice istruttore è tenuto a svolgere una serie di attività e di verifiche
aventi carattere preliminare rispetto alla trattazione nel merito, tra le quali:
a) verifica della regolarità del contraddittorio ed eventuale ordine d’integrazione ex art. 102
c.p.c. in caso di litisconsorzio necessario;
b) ordine di rinnovazione o di integrazione della citazione o della domanda riconvenzionale
nulle ex art. 164 c.p.c.;
c) pronuncia dei provvedimenti ex art. 182 c.p.c. conseguenti alla verifica della regolarità della
costituzione delle parti e del difetto di rappresentanza, assistenza o autorizzazione;
d) pronuncia, con ordinanza, del provvedimento di contumacia del convenuto che non si è
costituito nei termini;
e) rilievo officioso dell’inosservanza delle disposizioni relative alla ripartizione tra sede
principale e sezioni distaccate del tribunale o tra sezioni distaccate. 96
DESCRIZIONE APPUNTO
Riassunto per l'esame di Diritto processuale civile, basato su appunti personali e studio autonomo del testo consigliato dal docente Corso base di Diritto processuale civile, De Sanctis. Nello specifico gli argomenti trattati sono i seguenti: le fonti del diritto processuale, la funzione giurisdizionale, i principi fondamentali del giusto processo.
I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Exxodus di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Diritto processuale civile e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Camerino - Unicam o del prof Arieta Giovanni.
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