Diritto Processuale Civile - Appunti
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capacità di agire in generale non hanno in alcuni casi la capacità di stare in
giudizio che viene data ad altri soggetti (per l’imprenditore fallito non vi è la
capacità di stare in giudizio per i rapporti di natura commerciale e tale capacità
al suo posto ce l’ha il curatore); infatti l’art.75 c.p.c. stabilisce che le persone
che non hanno la capacità di stare in giudizio, stanno in giudizio con la
rappresentanza. Nel processo civile inoltre c’è un altro fenomeno che è quello
dell’autorizzazione; infatti ci sono casi nei quali per stare i giudizio è necessario
un particolare atto che riguarda particolari soggetti, l’autorizzazione (ad
esempio gli enti pubblici hanno bisogno dell’autorizzazione della giunta
comunale, provinciale o regionale). Nel processo civile quindi assume rilievo la
c.d. rappresentanza legale mentre non viene completamente recepita la
rappresentanza volontaria. Secondo l’art.77 c.p.c. la rappresentanza volontaria
può ricorrere se vi sono due condizioni, ovvero se vi è un atto scritto che
conferisce la rappresentanza volontaria processuale ed inoltre se la
rappresentanza processuale si accompagna alla c.d. rappresentanza
sostanziale (o perché il soggetto è preposto a particolari affari e la causa si
ricollega a tali affari o perché vi è un procuratore generale per un soggetto che
non ha la residenza o il domicilio in Italia).
A questa regola il legislatore apporta delle eccezioni, infatti non sarà necessario
che la rappresentanza sostanziale-processuale sia conferita per atto scritto in
due casi: quando il rappresentante rappresenta uno straniero che non ha la
residenza in Italia o quando si tratta di un institore, cioè un soggetto preposto
ad un particolare affare. In questi casi non è necessario dimostrare il
conferimento dell’incarico perché si sostiene che la rappresentanza sostanziale
contenga la rappresentanza processuale. Ed un altra eccezione si ha nel caso
di applicazione di provvedimenti cautelari (per esempio nel caso di sequestro, di
provvedimento d’urgenza, casi in cui il rappresentante sostanziale non deve
fornire la prova dell’atto scritto).
PLURALITA’ DELLE PARTI (LITISCONSORZIO)
Lo schema semplice del processo prevede due parti, il convenuto e l’attore; in
certi casi però sono presenti più parti. La presenza di più parti è dovuta a
diverse ragioni e precisamente può essere dovuta o in relazione al tipo di
situazione giuridica sostanziale (litisconsorzio necessario) o in funzione di una
relazione che esiste fra i rapporti giuridici oggetto del processo (litisconsorzio
facoltativo). La pluralità delle parti viene indicata col termine litisconsorzio (dal
lato attivo o dal lato passivo), inoltre è necessario dire questo istituto viene
introdotto per la prima volta nel codice del 1940 grazie alle spinte della dottrina
(ad esempio il Chiovenna affermava l’esigenza del litisconsorzio necessario ma
solo per le azioni costitutive). Il legislatore, avendo recepito l’applicabilità del
litisconsorzio necessario anche alle azioni di condanna e di accertamento, lo ha
invece escluso per le obbligazioni solidali. Le norme che riguardano il
litisconsorzio necessario sono sparse nel codice, innanzitutto abbiamo l’art.102
c.p.c. che stabilisce che se la decisione non può pronunciarsi che in confronto
di più parti, queste debbono agire o essere convenute nello stesso processo. In
realtà esistono norme nelle quali si parla di litisconsorzio necessario sia nel
codice di procedura civile che nel codice civile. Possiamo prendere in
considerazione tre articoli:
l’art.248 c.c. dettato in tema di contestazione della legittimità (prevede che
- siano chiamati entrambi i genitori);
l’art.2900 c.c. dettato in tema di surrogazione (prevede che il creditore citi
- anche il debitore);
l’art.784 c.p.c. dettato in tema di scioglimento della comunione e di divisione
- ereditaria (prevede il litisconsorzio necessario).
Da queste norma la dottrina ha ritenuto possibile desumere categorie più ampie
che prevedono il litisconsorzio necessario, queste categorie sono:
la categoria che comprende tutti i casi nei quali viene dedotta in giudizio una
- situazione giuridica sostanziale con una pluralità di parti (ci sono più titolari
del diritto, ad esempio più di due titolari, gli eredi);
la categoria che comprende i casi di legittimazione straordinaria (ad
- esempio nel caso di surrogazione il titolare del diritto, cioè il debitore, è
legittimato straordinario; altro esempio è il caso in cui l’azione viene
promossa dal p.m.);
la categoria che comprende tutti quei casi che non rientrano nelle due
- precedenti categorie (ipotesi di rapporto giuridico plurisoggettivo e ipotesi di
legittimazione straordinaria) e sono casi eccezionali previsti per ragioni di
mera opportunità (ad esempio secondo l’art.1000 c.c. nel caso di capitale
gravato di usufrutto alla causa devono partecipare i proprietari e gli
usufruttuari).
Quindi nell’art.102 c.p.c. (definita “norma in bianco”), quindi nel litisconsorzio
necessario, devono essere fatte rientrare le tre categorie di casi: casi di
situazione giuridica plurisoggettiva, casi eccezionali previsti per ragioni di mera
opportunità e casi di legittimazione straordinaria. Anche quando vi è il
litisconsorzio necessario, ad essere dedotto in giudizio è comunque un unico
rapporto giuridico con più soggetti.
Secondo l’art.102 c.p.c. quando la causa non è stata promossa nei confronti di
tutti i litisconsorti necessari il giudice deve ordinare l’integrazione del
contraddittorio in termini perentori (può essere il convenuto a fare risultare il
giudizio del contraddittorio attraverso un eccezione di questo tipo in cui quando
richiede il litisconsorzio deve indicare sono i litisconsorti presenti in causa).
Quando ci sono dei litisconsorti necessari pretermessi il giudice, attraverso
l’ordine dell’integrazione del contraddittorio, ordina che venga loro notificato
l’atto di citazione. I litisconsorti necessari ricevuta la notificazione dell’atto di
citazione possono anche decidere di non costituirsi in giudizio (questa sarà una
volontaria decisione di rimanere contumaci), ma se invece si costituiscono da
terzi diventano parti. Se le parti non ottemperano all’ordine del giudice di
integrare il contraddittorio, non notificando l’atto di citazione ai litisconsorti
necessari pretermessi nel termine perentorio, il processo si estingue. Fino al
1940 l’estinzione poteva essere rilevata sia dalla parte che d’ufficio, dal 1950 la
riforma ha stabilito che è necessaria l’eccezione di parte, infatti se la parte non
rileva l’estinzione nella prima udienza vi è una sorta di sanatoria e non si può
parlare di estinzione; su questa nuova regola in dottrina ci sono varie tesi a
favore e non. Secondo alcuni l’estinzione può ancora essere rilevata d’ufficio e
quindi nell’art.307 c.p.c. rientrebbe anche la possibilità del giudice di rilevare
l’estinzione, mentre secondo altri il giudice se non c’è l’eccezione di parte non
può rilevare d’ufficio l’estinzione e quindi deve chiudere il processo con una
sentenza di natura processuale che non riguardando il merito non impedisce
alle parti la possibilità di riproporre la domanda. Le due tesi pervengono allo
stesso risultato.
Dobbiamo esaminare il problema dell’efficacia della sentenza emessa in
presenza di un contraddittorio non integro e quindi possiamo dire che quando
nel corso del processo di 1° grado non ci si accorge che si è in presenza di un
ipotesi di litisconsorzio necessario ed il processo va ugualmente avanti la
sentenza emessa è detta “inutiliter data” cioè non ha efficacia nei confronti dei
litisconsorti pretermessi. Il legislatore ha previsto l’ipotesi in cui le parti
impugnano la sentenza emessa in contraddittorio non integro o in appello o in
cassazione. Gli articoli di riferimento sono l’art.353 c.p.c. e l’art.354 c.p.c.
Quindi vi sono delle ipotesi eccezionali, e tra queste rientra quella di
litisconsorzio necessario, nelle quali il giudice d’appello non deve riesaminare la
causa nel merito ma deve annullare la sentenza di 1° grado e rimettere la causa
allo steso giudice di 1° grado rimettendo in moto il processo dal principio. Lo
stesso avviene in cassazione ed in tal caso la causa riprenderà sempre dinanzi
al giudice di 1° grado. Questo istituto, che consente di annullare l’intero
processo, facendo si che le cause abbiano una durata eccessiva. Dobbiamo
capire cosa accade se le parti non impugnano la sentenza in contraddittorio non
integro in appello. Tale sentenza, inutiliter data, è viziata ma può essere sanata
se passa in giudicato; l’unica eccezione a tale regola si ha nel caso della
sentenza che non è stata sottoscritta dal giudice (ipotesi di inesistenza). Se la
sentenza in contraddittorio non integro passa in giudicato dovrebbe avere
efficacia ma a riguardo ci sono tre tesi:
quella che ritiene che tale sentenza abbia efficacia nei confronti di tutti i
- soggetti (sia le parti che i litisconsorti pretermesi);
quella che ritiene che tale sentenza sia efficace solo nei confronti delle parti;
- quella che ritiene che tale sentenza non sia efficace nei confronti di nessuno
- (ne le parti ne gli “assenti”).
Tra queste tesi quella maggiormente accettata è la seconda che prevede
l’efficacia nei soli confronti delle parti, che possono impugnarla se vogliono
evitare che la sentenza passi in giudicato, e l’inefficacia nei confronti dei terzi
che non hanno partecipato al processo.
Se le parti hanno la possibilità di impugnare la sentenza il terzo pregiudicato da
tale sentenza viene tutelato innanzitutto con la possibilità di opporsi alla
sentenza contestandola (“opposizione del terzo”). L’opposizione del terzo, a
differenza dell’impugnazione di parte, non è soggetta a termini di decadenza e
può essere proposta in qualsiasi momento anche quando la sentenza è già
passata in giudicato (l’unico limite a tale opposizione è dato dall’usucapione).
Inoltre il terzo può opporsi all’esecuzione della sentenza ed alcuni ritengono che
il terzo possa anche proporre un’azione autonoma di accertamento negativo
che accerti appunto la nullità della sentenza emessa senza sua partecipazione
(in quest’ultimo caso il terzo non potrebbe chiedere la sospensione
dell’esecuzione della sentenza, cosa che può fare invece nel caso in cui eserciti
l’opposizione). Per quanto riguarda le conseguenze del litisconsorzio
necessario sulle prove dobbiamo dire innanzitutto che nel nostro ordinamento ci
sono:
prove legali (che vincolano il giudice nella valutazione dei fatti), ovvero il
- giuramento e la confessione;
prove libere (che non vincolano il giudice che può attribuirle o meno validità),
- ovvero la testimonianza.
Per quanto riguarda la confessione (dichiarazione sfavorevole a chi la fa e
favorevole all’altra parte) se un litisconsorte necessario confessa il suo atto non
pregiudica gli altri poiché la sua dichiarazione non ha effetti vincolanti per il
giudice in quanto in tale ipotesi la confessione diventa una prova libera. Per
quanto riguarda il giuramento (a differenza che nella confessione la
dichiarazione che costituisce giuramento può essere anche favorevole a chi la
fa) se un litisconsorte necessario fa il giuramento nel caso in cui la
dichiarazione è negativa non vincola gli altri se invece è positiva gli altri se ne
avvantaggiano. Nell’ipotesi di litisconsorti necessari dal lato attivo tutti devono
essere d’accordo nel deferire il giuramento alla controparte (perché è
necessaria la disponibilità del diritto che è di tutti congiuntamente), mentre
quando l’attore unico deferisce il giuramento a più litisconsorti necessari dal lato
passivo si ha che se le dichiarazioni sono univoche il giudice è vincolato se
invece non lo sono il giudice può valutare liberamente tali prove che da prove
legali si trasformano in prove libere. Un’altra figura, oltre al litisconsorzio
necessario, che comporta la necessaria presenza di più parti nel processo è il
cumulo oggettivo disciplinato dall’art.2377 c.c. e dall’art.2378 c.c. che
prevedono che quando vi è stata una delibera assembleare i soci assenti o
dissenzienti possono impugnare la delibera chiamando in giudizio la società,
non i soci che la compongono; se però più soggetti hanno impugnato la stessa
delibera assembleare le singole cause verranno decise in un unico processo
con un’unica sentenza. In questo caso la presenza di più parti non è necessaria
dall’inizio ma lo diventa successivamente (si parla di cumulo oggettivo perché le
cause intentate dai soci hanno lo stesso oggetto, l’impugnazione della delibera
assembleare). Per quanto riguarda il litisconsorzio facoltativo la disciplina è
contenuta nell’art.103 c.p.c.; qui vi sono più parti ma la loro presenza è
facoltativa perché alla base della loro partecipazione vi sono ragioni di
opportunità. La differenza tra i due tipi di litisconsorzio consiste nel fatto che: nel
litisconsorzio necessario abbiamo un’unica situazione giuridica soggettiva (un
unico diritto) che fa capo a più soggetti (situazione giuridica soggettiva plurima);
mentre nel litisconsorzio facoltativo abbiamo più rapporti giuridici (quindi più
parti) che sono tra loro connessi o per il titolo, o per l’oggetto o per entrambi.
L’art.103 c.p.c. disciplina due ipotesi: il litisconsorzio facoltativo proprio (che si
ha quando i rapporti giuridici sono connessi o per l’oggetto, o per il titolo, o per
entrambi) e quello improprio (che si ha quando la decisione dipende
parzialmente o totalmente dalla risoluzione di identiche questioni di diritto).
La sentenza emanata in queste ipotesi di litisconsorzio facoltativo formalmente
è unica ma suddivisibile in tante parti quanti sono le cause connesse. Poiché la
presenza di più parti è dettata da esigenze di economia processuale e per
evitare che vi siano decisioni contrastanti essa può non essere necessaria fino
alla fine e quindi venir meno attraverso un provvedimento del giudice che
dispone la separazione delle cause (per ragioni di celerità del processo o su
istanza di tutte le parti). Per quanto riguarda le conseguenze del litisconsorzio
facoltativo sulle prove bisogna dire che nel caso in cui solo un litisconsorte
facoltativo abbia confessato o prestato giuramento si ritiene che quelle
dichiarazioni vincolano il giudice (sono prove legali) ma valgono solo nei
confronti di chi le ha rese e non nei confronti degli altri litisconsorti e quindi delle
altre cause. Il fatto che nel litisconsorzio facoltativo i diversi rapporti rimangono
sostanzialmente divisi anche se formalmente vengono riuniti e decisi insieme fa
si che se si dovesse verificare un evento interruttivo del processo (morte della
parte o del difensore) il giudice separerà le cause e si interromperà solo il
processo (la causa) interessato dall’evento interruttivo, l’altra causa andrà
avanti. Sempre nell’ipotesi di litisconsorzio facoltativo se a seguito della
sentenza che riguarda due rapporti solo un litisconsorte facoltativo la accetta
mentre l’altro vuole agire in appello, si avrà che il rapporto del soggetto che
accetta la sentenza rimane deciso in via definitiva mentre il rapporto del
soggetto che impugna la sentenza verrà deciso singolarmente in appello.
Quindi per il primo litisconsorte facoltativo la sentenza passa in giudicato per il
secondo no. Nell’ambito del litisconsorzio necessario, invece, anche se la
sentenza viene impugnata da uno solo dei litisconsorti necessari, tutti quanti
devono partecipare al processo perché il rapporto giuridico è unico. In
conclusione nel litisconsorzio facoltativo abbiamo più rapporti giuridici connessi
ma ciascuno di loro conserva la proprio autonomia. Questa autonomia appare
ancora più evidente se si considera l’art.104 c.p.c. che stabilisce che contro la
stessa parte possono proporsi nel medesimo processo anche non altrimenti
connesse. In questa ipotesi un soggetto propone nei confronti dell’altra parte
più domande che sono autonome tra loro ma secondo il legislatore possono
essere proposte ugualmente nello stesso processo e questo per ragioni di
economia processuale. Qui l’unica particolarità è che le domande si sommano
per valore e quindi si deve rispettare la relativa competenza; ma per ciò che
riguarda la loro autonomia, questa è dimostrata dal fatto anche se il giudice
decide con un’unica sentenza il soccombente può anche decidere di impugnare
solo una parte della stessa (in tal caso non sarà necessario portare tutto il
processo, svoltosi in 1° grado, in appello ma la parte non impugnata passerà in
giudicato mentre quella impugnata verrà decisa in appello). La situazione
descritta dall’art.104 c.p.c. non crea particolari problemi infatti proprio perché le
due domande sono tra loro autonome ma vengono proposte nell’ambito dello
stesso processo solo perché sono rivolte verso la stessa parte.
ATTI PROCESSUALI: ATTI DI PARTE ED ATTI DEL GIUDICE
Gli atti processuali sono atti che consentono al processo di procedere. Il
legislatore pone alla base della disciplina di ogni atto il raggiungimento dello
scopo secondo quell’atto (scopo oggettivo) e non il raggiungimento dello scopo
secondo chi pone in essere quell’atto (scopo soggettivo). La legge prevede che
per ogni atto elementi essenziali e per alcune ipotesi sanziona la mancanza di
quegli elementi con la nullità dell’atto. Secondo l’art.121 c.p.c. gli atti del
processo, per i quali la legge non richiede forme determinate, possono essere
compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo. Secondo
l’art.122 c.p.c., poi, nel processo è previsto l’uso della lingua italiana sia per gli
atti sia per le udienze ed è per questo che il giudice può nominare un interprete
ed un traduttore (per gli atti).
Il nostro processo dal 1865 al 1940 era un processo scritto che poteva essere
un procedimento sommario (per le cause semplici) o un procedimento formale
(per le cause in generale) che era completamente scritto. Il processo moderno
è orale anche se finisce con l’essere soggetto alla verbalizzazione di tutto ciò
che avviene in udienza. Secondo l’art.126 c.p.c. il processo verbale deve
contenere l’indicazione delle persone intervenute e delle circostanze di luogo e
di tempo nelle quali gli atti che documenta sono compiuti; deve inoltre
contenere la descrizione delle attività svolte e delle rilevazioni fatte, nonché le
dichiarazioni ricevute. Quindi il verbale di udienza è un atto. Nel 1940 il
legislatore ha creato la figura del giudice istruttore che non giudica (il giudice
istruttore quando è previsto il giudice monocratico ad un certo punto si
trasforma in giudice che decide, quando invece è previsto il collegio la
decisione spetta a quest’ultimo). Al giudice istruttore, cui spetta lo svolgimento
del processo, l’art.127 c.p.c. attribuisce il potere di dirigere l’udienza tranne nel
caso in cui vi sia il collegio, infatti in tal caso è il presidente del collegio che
dirige l’udienza. Secondo l’art.128 c.p.c. sancisce la pubblicità delle udienze
lasciando al giudice la facoltà discrezionale di disporre che l’udienza si svolga a
porte chiuse se ricorrono determinate ragioni di sicurezza dello stato, di ordine
pubblico o di buon costume. Per quanto riguarda gli atti del giudice bisogna dire
che questi si esprime appunto per atti e non può prendere provvedimenti
verbali. Il giudice può emanare tre tipi di atti a seconda di quanto previsto dalla
legge:
La sentenza (definitiva, non definitiva o parziale) è un atto che in genere
- definisce e chiude il processo, in quanto decide in ordine alla causa sia nel
merito che in rito; inoltre essa secondo quanto disposto dall’art.132 c.p.c.
deve contenere: l’indicazione del giudice che l’ha pronunciata e delle parti
dei loro difensori; le conclusioni del pubblico ministero e quelle delle parti; la
concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto e in
diritto della decisione; il dispositivo, la data della deliberazione e la
sottoscrizione del giudice.
L’ordinanza a differenza della sentenza non chiude il processo ma serve sa
- far si che prosegua (questo ad eccezione delle ordinanze previste dagli
artt.186-bis, 186-ter, 186-quater che chiudono il processo e possono essere
pertanto impugnate).
Il decreto non viene emesso in contraddittorio non conclude il processo e
- non ha efficacia decisoria (un’eccezione è costituita dal decreto ingiuntivo).
La sentenza di regola è impugnabile, i casi in cui non è impugnabile in appello
vengono previsti dalla legge. Le ordinanze ed i decreti non sono mai
impugnabili ma sono modificabili o revocabili. Se il giudice sbagliando emana
un’ordinanza anziché una sentenza, tale ordinanza sarà impugnabile al pari di
una sentenza sempre che con quell’atto si sia raggiunto lo scopo. Gli atti del
giudice possono essere emessi in udienza o fuori udienza; nel primo caso gli
atti si considerano conosciuti dalle parti anche se contumaci o assenti, mentre
nel secondo caso gli atti devono essere comunicati direttamente dalla
cancelleria agli avvocati o attraverso la notificazione per col c.d. biglietto di
cancelleria. La notificazione può avvenire o a mano o a mezzo servizio postale.
Nel primo caso la notificazione va fatta dall’ufficiale giudiziario che ha sede nel
comune o nel circondario in cui risiede il destinatario; tale notificazione in
determinati casi.può essere fatta in un luogo diverso dalla residenza. La
mancanza di una determinata forma della notificazione dell’atto, anche quando
è prevista dalla legge, non è causa di nullità se viene raggiunto ugualmente lo
scopo dell’atto. Così come, anche se la legge non sanziona la nullità di un atto
per la mancanza di un requisito, tale atto sarà ugualmente nullo se non
raggiunge lo scopo. Le ipotesi di nullità dell’atto sono quelle previste dalla
legge.
La nullità è relativa quando è sanabile e può essere rilevata dalla parte nella
prima difesa successiva alla prosecuzione dell’atto la cui nullità si intende
rilevare; mentre la nullità è assoluta quando è insanabile e può essere rilevata
anche dal giudice in qualunque stato e grado del procedimento (l’unica
sanatoria per le nullità insanabili è il passaggio in giudicato della sentenza che
non funziona in alcuni casi). Secondo l’art.162 c.p.c. il giudice che pronuncia la
nullità deve disporre, quando sia possibile, la rinnovazione degli atti ai quali la
nullità si estende. Per quanto riguarda i termini, che servono al legislatore per
regolare la cadenza del processo e per ordinare lo stesso, sono diversi:
termini dilatori che servono a frenare il processo (ad esempio il termine a
- comparire, art.163-bis c.p.c.);
termini acceleratori che servono ad accelerare il processo (il termine breve a
- comparire o il termine per impugnare);
termini perentori che sono suscettibili di proroga (il termine per integrare il
- contraddittorio);
termini ordinatori che sono prorogati dal giudice se la richiesta di proroga
- giunge prima della scadenza del termine;
termini liberi nei quali si computano la data di partenza (dies a quo) e quella di
- arrivo (dies a quem);
termini in avanti quando in presenza di giorni festivi la scadenza viene
- posticipata al giorno successivo;
termini a ritroso quando in presenza di giorni festivi la scadenza viene
- anticipata al giorno precedente.
Il computo dei mesi e degli anni va fatto indipendentemente dalla lunghezza dei
mesi o degli anni facendo riferimento alla data in cui inizia a decorrere il
termine. Nel periodo che va dal 1° agosto al 15 settembre i giudici e gli avvocati
godono della sospensione feriale ma il tribunale mantiene un presidio per
trattare le cause che cadono in questo periodo. In questo periodo inoltre
vengono sospesi i termini processuali ma non quelli sostanziali che continuano
a decorrere. La legge n.742/1969 prevede una serie di provvedimenti che per la
loro particolare urgenza fanno eccezione alla regola suddetta.
PROCESSO A COGNIZIONE PIENA ED ESAURIENTE (di 1° grado)
Le forme di tutela a cognizione piena sono le forme di tutela classica perché
sono quelle destinate a prestare tutela a tutta una serie di diritti, sono quelle
forme di tutela che si concludono con la sentenza cioè con un provvedimento
che è idoneo a disciplinare una volta per tutte il rapporto fra le parti. Nell’ambito
di queste forme di tutela a cognizione piena esistono delle distinzioni, infatti
abbiamo:
il processo ordinario di cognizione piena (che tutti possono utilizzare per la
- tutela dei diritti in generale);
il processo del lavoro;
- il processo delle locazioni;
- il processo che si svolge davanti al giudice di pace.
- Il processo a cognizione piena tende a fare accertare in maniera completa la
situazione. Possiamo dire tale processo è distinto in 3 fasi: la fase introduttiva
(fase inevitabile); la fase istruttoria (fase non essenziale, perché può accadere
che il processo non debba accertare alcuna situazione di fatto); la fase
decisoria (che potrebbe non esistere se il processo dovesse avere una
conclusione diversa dalla sentenza).
Fase introduttiva
Gli atti introduttivi sono la citazione (atto con il quale l’attore propone una
domanda e che viene ad esistenza giuridica nel momento in cui viene notificato
al convenuto) ed il ricorso (atto anch’esso con il quale l’attore propone una
domanda ma che viene ad esistenza giuridica prima della notifica al convenuto,
cioè con il deposito). Per quanto riguarda la citazione, fino al 1950 nella
citazione dell’attore non vi era l’indicazione dell’udienza, successivamente (dal
1950 in poi) il sistema cambia; infatti l’attore nella citazione deve indicare la
data dell’udienza (anche se probabilmente non sarà quella effettiva). Il
contenuto della citazione è disciplinato dall’art.163 c.p.c. (numeri 1,2,3,4,5,6,7).
La domanda può essere divisa in tre parti:
La prima parte che è costituita dalla chiamata in giudizio del convenuto,
- vocatio in ius, deve contenere (secondo l’art.163 numeri 1,2,7): l’indicazione
del tribunale davanti al quale la domanda è proposta; l’indicazione delle parti
(attore e convenuto); l’indicazione del giorno dell’udienza di comparizione.
La seconda parte, edictio actionis, serve a determinare l’oggetto del giudizio
- (cioè il diritto per il quale si agisce) e deve contenere (secondo l’art.163
numeri 3,4): la determinazione della cosa oggetto della domanda (cioè il
petitum che può essere immediato o mediato); l’esposizione dei fatti e degli
elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, con le relative
conclusioni (cioè la causa pretendi che a seconda che soi tratti di diritti
eterodeterminati o autodeterminati può essere determinante o meno ai fini
della validità della domanda).
La terza parte serve a formare il convincimento del giudice (quindi non è
- richiesta a pena di validità della domanda) e deve contenere (secondo
l’art.163 numeri 5,6): l’indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali
l’attore intende valersi ed in particolare dei documenti che offre in
comunicazione (questo è un aspetto che potrebbe intervenire anche
successivamente nel processo); il nome ed il cognome del procuratore e
l’indicazione della procura, qualora questa sia stata già rilasciata (la presenza
del procuratore è necessaria).
Secondo l’art.163-bis c.p.c., poi, la citazione (che abbiamo esaminato nelle sue
parti) vale quando viene notificata al destinatario dall’ufficiale giudiziario (che gli
consegna una copia dell’originale). Affinché il convenuto abbia tempo per poter
apprestare la sua difesa il legislatore prevede che vi sia un termine minimo tra
la data della notificazione e la data dell’udienza (indicata nell’atto di citazione);
questo termine minimo (uniformato nel 1990) dev’essere di 60 giorni.
La notificazione della citazione (che è il momento in cui si realizza il
contraddittorio) ha, sul processo, sia effetti di natura processuale che effetti di
natura sostanziale (che incidono cioè sul diritto che si fa valere in giudizio). Per
quanto riguarda gli effetti di natura processuale della notificazione della
citazione bisogna dire che essa determina: la pendenza del processo (con la
notificazione anche se l’ufficio giudiziario non è stato ancora coinvolto e si è
avuto solo un contatto tra attore e convenuto il processo può dirsi iniziato ed è
da questo momento che si determinano giurisdizione e competenza);
acquisizione della qualità di parte (la notificazione fa acquistare all’attore ed al
convenuto la qualità di parte); la determinazione dell’oggetto del processo (la
notificazione fa si che si determini l’oggetto del processo con riferimento alla
domanda giudiziale, cioè al petitum ed alla causa pretendi dell’atto di citazione).
Per quanto riguarda gli effetti di natura sostanziale della notificazione della
citazione, questi attengono: alla prescrizione (la notificazione fa interrompere il
termine di prescrizione fino al passaggio in giudicato della sentenza, momento
in cui la prescrizione si trasforma da breve in decennale; c’è da dire però che
l’effetto sospensivo viene meno se non c’è una sentenza, nel senso che se il
processo si estingue la prescrizione riprende dall’evento interruttivo); alla
decadenza (la decadenza dall’esercizio di un diritto in alcuni casi può essere
impedita con un atto stragiudiziale, in questi casi rimane impedita per sempre;
in altri casi può essere impedita con un’azione giudiziale, ovvero con l’atto di
citazione, in tali casi però affinché la decadenza venga impedita è necessario
che si arrivi ad una sentenza; più precisamente se si tratta di una decadenza
che poteva essere impedita con un atto stragiudiziale, anche l’atto giudiziale la
impedisce per sempre, altrimenti è necessario che il processo si concluda con
una sentenza); al divieto di anatocismo (infatti l’art.1283 c.c. stabilisce che in
mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo
dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla
loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi).
L’art.318 c.p.c. prevede che anche per quanto riguarda il procedimento che si
svolge davanti al giudice di pace l’atto introduttivo è l’atto di citazione per il
quale è previsto lo stesso contenuto dell’art.163 c.p.c.; qui però la differenza è
che il termine a comparire è ridotto alla metà di quello previsto dall’art.163-bis
c.p.c., cioè a 30 giorni anziché a 60 giorni.
Per il processo del lavoro (così come per quello delle locazioni) è previsto come
atto introduttivo il ricorso; sappiamo che esso ha la caratteristica di essere
depositato prima in cancelleria del giudice competente quindi il primo contatto è
quello che si ha tra una parte (l’attore) ed il giudice, mentre il contatto tra attore
e convenuto si ha in un secondo momento, con la notifica del ricorso e del
decreto del giudice. Dal ricorso in questione va distinto il ricorso in cassazione
che in realtà è un atto di impugnazione. La disciplina del ricorso non prevede
che l’attore indichi l’udienza perché in questo caso è compito del giudice farlo. Il
contenuto del ricorso è disciplinato dall’art.414 c.p.c. e dall’art.415 c.p.c.; questi
articoli prevedono le stesse parti che abbiamo individuato nella citazione
(vocatio in ius, edictio actionis e convincimento del giudice), con la differenza
che nel ricorso non è l’attore che indica l’udienza ma è il giudice che la fissa ed
inoltre il termine minimo a comparire non è più di 60 giorni ma di 30 giorni.
Quindi il procedimento si svolge in questo modo: il ricorrente deposita il ricorso
in cancelleria, il giudice entro 5 giorni dal deposito fissa con decreto l’udienza
(che deve svolgersi almeno 30 giorni dopo la notificazione del decreto e del
ricorso al convenuto), l’attore deve poi recarsi in cancelleria per procurarsi le
copie del ricorso e del decreto per notificarle al convenuto. Nel ricorso sono
contenuti in pieno l’edictio actionis e la parte che mira al convincimento del
giudice, ma a differenza della citazione la vocatio in ius è spaccata perché è
contenuta in parte nel ricorso ed in parte nel decreto del giudice. Nel rito del
lavoro inoltre anche se sono previste le decadenze il giudice non è tenuto ad
avvisare il convenuto che se non compare esse (le decadenze) si verificano. A
causa dei due momenti (proposizione della domanda con il ricorso ed
instaurazione del contraddittorio con la notificazione del ricorso e del deposito)
si discute sul momento in cui si verificano gli effetti della domanda nei processi
che iniziano per ricorso. In ogni caso il deposito del ricorso determina alcuni
effetti di natura processuale ed altri effetti di natura sostanziale.
Gli effetti di natura processuale del deposito del ricorso sono: la pendenza del
processo (il deposito del ricorso costituisce il momento in cui vengono in
contatto la parte ed il giudice e si ha la proposizione della domanda che ha
l’effetto di determinare l’oggetto del giudizio, quindi è da questo momento che
pende il processo); la determinazione della giurisdizione e della competenza
(col deposito del ricorso si ha l’individuazione del giudice e quindi è in quel
momento che devono sussistere la giurisdizione e la competenza); l’assunzione
della qualità di parte per il solo attore. Gli effetti di natura sostanziale del
deposito del ricorso sono: l’impedimento della decadenza (il deposito del ricorso
determina l’impedimento della decadenza); l’interruzione della prescrizione (qui
è necessario che l’atto introduttivo sia notificato alla controparte); l’assunzione
della qualità di parte del convenuto (anche questa avverrà solo con la
notificazione del ricorso e del deposito, perché solo in quel momento il
convenuto viene ad essere parte del processo, infatti è solo in quel momento
che si realizza il contraddittorio). Nel processo del lavoro il momento della
pendenza del processo e quello dell’instaurazione del contraddittorio sono
spaccati. Per quanto riguarda la nullità dell’atto di citazione la disciplina, anche
dopo la riforma del 1990, è contenuta nell’art.164 c.p.c.; questo articolo, che
originariamente era composto da due soli commi, è stato ampliato. Prima della
riforma la disciplina della nullità era unitaria per tutti i vizi dell’atto di citazione.
Vizi di nullità erano considerati innanzitutto quelli che riguardavano il n.1
“indicazione del giudice”, il n.2 “indicazione delle parti” e il n.3 “indicazione
dell’oggetto; poi costituiva anche un vizio l’assegnazione di un termine a
comparire minore di quello stabilito dalla legge ed infine era un vizio la
mancanza dell’indicazione della data dell’udienza di comparizione davanti al
giudice istruttore. La nullità, inoltre era rilevabile d’ufficio dal giudice ed il
processo si concludeva, questo a meno che il convenuto non si costituiva in
giudizio, quindi la costituzione del convenuto sanava ogni vizio della citazione
perché questa anche se viziata aveva raggiunto il suo scopo (quello di
chiamare il convenuto in giudizio); in questo caso però gli effetti della domanda
non si producevano dal momento della notificazione perché la domanda era
nulla ma si producevano dal momento della costituzione in giudizio del
convenuto, ovvero dalla “sanatoria” della domanda. La disciplina esistente
prima della riforma creava vari problemi anche perché venivano sottoposti alla
stessa disciplina sia i vizi inerenti all’edictio actionis (numeri 3 e 4) che quelli
inerenti alla vocatio in ius (numeri 1, 2 e 7). Il problema si poneva rispetto alla
nullità della notificazione che veniva disciplinata diversamente dalla nullità
dell’atto di citazione, in quanto se vi era un vizio di nullità nella notificazione il
giudice secondo il legislatore doveva: o ritenere sanata la notificazione viziata
da nullità quando il convenuto si fosse costituito in giudizio e quindi l’atto
avesse raggiunto lo scopo oppure disporre la rinnovazione (cioè che fosse
rinotificato l’atto); se invece vi era un vizio di nullità dell’atto di citazione per
vocatio in ius (disciplinata in maniera uniforme agli altri vizi dell’atto di citazione)
anche qui il giudice doveva o dichiarare la nullità o, quando il convenuto si
fosse costituito, ritenere sanato il vizio di nullità della citazione, in questo caso
però la “sanatoria” non aveva effetti retroattivi e produceva effetti dalla
costituzione in giudizio. Ciò che creava dei dubbi era questa contrapposizione
tra effetti retroattivi della sanatoria per la nullità della notificazione o della
rinnovazione degli atti (in entrambi i casi gli effetti della domanda si producono
a far data dal primo atto di notificazione) ed effetti irretroattivi della sanatoria per
la nullità dell’atto di citazione; in sostanza la disciplina della nullità della
notificazione, rispetto a quella della nullità della citazione, si mostrava molto più
liberale nei confronti dell’attore che aveva sbagliato.
Il primo aspetto controverso (dubbio) consisteva appunto nel fatto che non ci
- si spiegava questa differenza di discipline.
Il secondo aspetto controverso era dovuto alla mancata previsione della
- nullità nell’ipotesi della causa pretendi che per determinati diritti (diritti
eterodeterminati) è essenziale.
Il terzo dubbio era costituito dal fatto che non ci si spiegava perché il
- legislatore aveva dato una disciplina unitaria (quella che prevedeva la
sanatoria sia pure ex nunc, irretroattiva) per tutti i tipi di vizi (in realtà la
disciplina si riteneva inappropriata per determinati vizi, ad esempio se il vizio
riguardava la causa pretendi ed il petitum ed il convenuto si costituiva in
giudizio, la sanatoria faceva continuare il processo nel quale però non era
chiaro l’oggetto perché il convenuto al momento della sua costituzione non
era in grado di determinare l’oggetto ed il titolo).
Infine un quarto dubbio era costituito dal fatto che la disciplina della nullità
- dell’atto di citazione non prevedeva la rinnovazione e questo in via del tutto
eccezionale.
I dubbi aumentarono nel 1973 con il processo del lavoro dove a causa della
scissione in ricorso e decreto del giudice non si capiva quale disciplina
applicare. Dopo la riforma, è stato il nuovo art.164 c.p.c. a dissipare i dubbi
suddetti. Questo nuovo articolo si basa sulla distinzione tra vizi che attengono
alla vocatio in ius (disciplinati nei primi tre commi) e vizi che attengono
all’edictio actionis (negli ultimi commi); inoltre viene ben distinta l’ipotesi in cui il
convenuto si costituisce dall’ipotesi in cui il convenuto non si costituisce. Infatti
vediamo che il legislatore del 1990 dispone che:
Se il convenuto non si costituisce in giudizio il giudice deve rilevare d’ufficio
- la nullità dell’atto di citazione e ordinare la rinnovazione dell’atto di citazione,
quindi l’attore deve rinotificarlo (prima novità) e se l’attore non rinnova la
citazione il processo si estingue; inoltre gli effetti retroagiscono al momento
della notificazione della prima citazione nulla, quindi la sanatoria diventa ex
tunc (seconda novità).
Se il convenuto si costituisce si ha una sanatoria del vizio che ha efficacia
- ex tunc (terza novità).
Possiamo concludere che oggi la disciplina dettata per la nullità della citazione
per vizi attinenti alla vocatio in ius è uguale alla disciplina dettata per la nullità
della notificazione. Per quanto riguarda invece i vizi relativi all’edictio actionis
l’art.164 c.p.c. considera non solo il vizio che riguarda l’oggetto (petitum), ma
anche il vizio che riguarda il titolo (causa pretendi) che non era previsto prima
del 1990 (quarta novità). Il legislatore stabilisce che se il convenuto non si
costituisce il giudice deve rilevare la nullità ed ordinare la rinnovazione della
citazione nulla; al contrario se il convenuto viene previsto che tale costituzione
non ha efficacia sanante perché il vizio riguarda la stessa determinazione del
diritto, in questo caso (anche se il convenuto si è costituito e quindi l’atto di
citazione ha raggiunto lo scopo) il giudice deve ordinare all’attore di integrare
l’atto di citazione.
Nel momento in cui il legislatore ha separato la disciplina della nullità della
citazione attinente ai vizi della vocatio in ius da quella attinente ai vizi
dell’edictio actionis è possibile adattare la disciplina della nullità al ricorso.
Quindi avremo che: se il ricorso è valido ed il vizio è nel decreto quel vizio sarà
sanato senza pregiudizio alcuno perché l’efficacia sanante retroagisce al
momento del deposito; se il vizio riguarda il ricorso si applicheranno gli ultimi
commi dell’art.164 con il giudice che comunque dovrà ordinare la rinnovazione.
Sviluppo della fase introduttiva: la disciplina della fase introduttiva del 1940 è
stata oggetto di varie modifiche, prima nel 1950, poi nel 1990 ed infine nel
1995. Vari aspetti di tale disciplina sono però rimasti immutati.
FASE INTRODUTTIVA
L’attore affinché avvenga la notifica si reca dall’ufficiale giudiziario e gli porta
- l’originale dell’atto di citazione e tante copie quanti sono i destinatari
dell’atto.
L’ufficiale giudiziario consegna l’atto di citazione alla controparte e da notizia
- dell’avvenuta notificazione attraverso la relata di notifica.
L’attore poi ritira l’atto dall’ufficiale giudiziario (l’originale dell’atto insieme agli
- eventuali documenti che l’attore ritiene di esibire vengono inseriti nel
fascicolo di parte) e deposita l’intero fascicolo di parte nella cancelleria del
tribunale insieme ad un modulo prestampato che serve per l’iscrizione a
ruolo; questo deposito rappresenta la costituzione in giudizio dell’attore e
dev’essere effettuato entro 10 giorni dalla notificazione (art.165 c.p.c.).
Il cancelliere forma il fascicolo d’ufficio, che contiene il fascicolo dell’attore e
- che accompagna la causa fino alla fine (perciò si dice che il fascicolo
d’ufficio rappresenta la storia della causa), e lo trasmette al presidente del
tribunale.
Il presidente del tribunale assegna la causa ad una sezione ed il presidente
- della sezione del tribunale assegna la causa ad un giudice istruttore (se il
tribunale è piccolo, ovvero costituito da una sola sezione, è il presidente del
tribunale ad assegnare la causa direttamente ad un giudice).
Poiché ogni inizio dell’anno si forma un calendario che individua i giudici ed i
- giorni in cui tengono udienza può capitare che la data dell’udienza indicata
nell’atto di citazione non coincide con quella in cui il giudice designato tiene
udienza; in tal caso secondo quanto stabilisce l’art.168 c.p.c. la causa dovrà
essere trattata nell’udienza tenuta dal giudice designato che sia
immediatamente successiva alla data indicata nella citazione (questo è un
rinvio d’ufficio dell’udienza). Il giudice poi può, con decreto da emettere
entro 5 giorni dalla presentazione del fascicolo, differire la data della prima
udienza fino ad un massimo di 45 giorni (in tal caso lo spostamento
dell’udienza viene comunicato alle parti dal cancelliere). L’udienza indicata
nell’atto di citazione è detta udienza edittale, mentre quella stabilita in base
al calendario di cui sopra, al rinvio, allo spostamento del giudice oppure ad
esigenze interne all’ufficio è l’udienza effettiva (ai fini della costituzione del
convenuto si tiene conto dell’udienza edittale).
Abbiamo così indicato la parte della disciplina della fase introduttiva che è
rimasta (più o meno) invariata dal 1940 ad oggi. Ora vediamo l’evoluzione del
resto della disciplina. 1940
Il convenuto deve costituirsi 5 giorni prima dell’udienza con una comparsa in cui
deve prendere posizione in ordine ai fatti in causa inoltre, secondo l’art.167
c.p.c. deve: proporre le difese o le eventuali domande riconvenzionali, indicare i
mezzi di prova, formulare le conclusioni, chiamare un terzo (entro la prima
udienza). È importante dire che l’art.171 c.p.c. prevede la possibilità per una
parte di costituirsi fino all’udienza se l’altra parte ha rispettato il termine
assegnatole per la costituzione; questa norma in realtà di riferisce al convenuto
perché il primo a costituirsi è necessariamente l’attore; all’attore non conviene
non costituirsi nei dieci giorni dalla notificazione dell’atto perché così facendo
lascerebbe tutto nelle mani del convenuto che non si costituirebbe
impedendogli così la successiva costituzione (in tal caso processo si estingue
perché nessuna delle parti si può costituire fuori dal termine), più probabile è
che l’attore si costituisce entro il termine dei dieci giorni mentre il convenuto che
non ha interesse si costituisce all’udienza che dovrà sicuramente essere
rinviata affinché l’attore esamini la difesa del convenuto.
Il codice del 1940 prevedeva gli artt.183 e 184 c.p.c. venivano a creare un
sistema di preclusioni in quanto le parti potevano proporre domande, eccezioni
e conclusioni solo nei primi atti (atto di citazione per l’attore e comparsa per il
convenuto), in realtà però il giudice per fini di giustizia finiva con l’estendere
l’applicazione dell’art.184 c.p.c. che ammetteva l’introduzione di novità nel
corso ulteriore del giudizio (infatti l’eccezione prevista da tale articolo avrebbe
dovuto applicarsi solo quando vi erano realmente gravi motivi).
1950
Il legislatore nel 1950 modificando gli artt.183 e 184 c.p.c. ha disposto che
fosse sempre possibile produrre documenti, chiedere l’ammissione di nuovi
mezzi di prova, proporre eccezioni ecc.; in sostanza veniva data alla parte la
possibilità più o meno illimitata di modificare la domanda (qui non di proporne
un’altra; infatti in questo caso il giudice avrebbe dovuto rifarsi alla reazione
dell’altra parte e ammettere la nuova domanda solo in assenza di una
contestazione da parte di questa). 1973
Nel 1973 viene riformato il processo del lavoro con la creazione di un rito del
lavoro differente da quello ordinario. Il sistema del processo del lavoro è
caratterizzato da preclusioni che obbligano le parti a specificare la loro
posizione sin dai primi atti. L’art.416 c.p.c. stabilisce che il convenuto deve
costituirsi almeno 10 giorni prima dell’udienza dichiarando la residenza o
eleggendo domicilio nel comune in cui ha sede il giudice adito. La costituzione
del convenuto si effettua mediante deposito in cancelleria di una memoria
difensiva nella quale devono essere proposte, a pena di decadenza, le
eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito che
non siano rilevabili d’ufficio; inoltre nella memoria difensiva il convenuto deve
prendere posizione senza limitarsi a contestare i fatti affermati dall’attore, deve
indicare a pena di nullità i mezzi di prova di cui intende avvalersi, deve
eventualmente chiamare in causa il terzo. Nel processo del lavoro il convenuto
è costretto ad effettuare una serie di atti (“a scoprire le sue carte”) sin dal primo
momento. Nel processo del lavoro si hanno:
RICORSO dell’attore e DEPOSITO in cancelleria
- DECRETO del giudice
- NOTIFICA di entrambi da parte dell’attore al convenuto
- COSTITUZIONE DEL CONVENUTO almeno 10 giorni prima dell’udienza
- con una memoria difensiva
Secondo l’art.420 c.p.c. anche qui se ricorrono gravi motivi le parti possono
modificare le domande, proporre eccezioni e conclusioni già formulate, previa
però autorizzazione del giudice. Tale articolo si limita a prendere in
considerazione l’ipotesi di modifiche basandosi fortemente su un sistema di
preclusioni; l’unica nuova attività consentita nel processo del lavoro è quella
relativa alle prove, in tal caso si deve comunque dare la possibilità alla
controparte di replicare alle prove richieste. Nel 1973 il sistema introduttivo del
processo del lavoro è completamente diverso rispetto a quello presente nel
processo ordinario perché in quest’ultimo era consentito alle parti di proporre
nove domande, nuove eccezioni ecc. (anche attraverso la scappatoia, della
contestazione della proposizione della nuova domanda, trovata dalla dottrina). Il
sistema introduttivo nel processo ordinario cambia ulteriormente nel 1990.
1990
CITAZIONE
- NOTIFICAZIONE
- COSTITUZIONE DELL’ATTORE (entro 10 giorni dalla notificazione), nomina
- del giudice istruttore e quindi fissazione dell’udienza
COSTITUZIONE DEL CONVENUTO con una comparsa (20 giorni prima
- dell’udienza)
Nel 1990 si ritenne che la posizione del convenuto era troppo compressa
perché mentre l’attore aveva tutto il tempo per preparare l’atto di citazione, il
convenuto aveva solo 40 giorni per preparare le sue difese. Tale critica fa si che
la riforma del 1990 venga rinviata al 1993 quando entra in vigore solo in parte;
essa entra poi in vigore completamente 1995.
1995
Con la controriforma del 1995 restano invariati alcuni aspetti: la citazione, i dieci
giorni dalla notifica per la costituzione dell’attore, la designazione del giudice
istruttore. La novità consiste nell’introduzione di un’udienza di prima
comparizione, art.180 c.p.c., tra la costituzione del convenuto e l’udienza di
prima trattazione. In base poi al nuovo art.167 c.p.c. il convenuto nella
comparsa di risposta deve (a pena di decadenza) solo proporre domande
riconvenzionali e chiamare in causa il terzo. Dopo si arriva all’udienza di prima
comparizione dove il giudice istruttore verifica d’ufficio la regolarità del
contraddittorio ed eventualmente pronuncia alcuni provvedimenti (quelli ex
artt.102, 164, 167, 182, 291); qui la trattazione è orale ed al convenuto viene
assegnato un termine perentorio non inferiore a 20 giorni per proporre le
eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio. Quindi
l’udienza dell’art.180 c.p.c. viene rinviata all’udienza dell’art.183 c.p.c. e 20
giorni prima di quest’ultima il convenuto deve proporre le eccezioni (non
rilevabili d’ufficio). Con questa riforma si è spaccata l’attività del convenuto in
quanto egli deve fare alcune attività prima dell’udienza di comparizione ed altre
prima dell’udienza di trattazione. Il sistema delle preclusioni non viene eliminato
ma viene solo spostato in avanti per dare più tempo al convenuto. L’udienza
dell’art.180 c.p.c. in realtà è nulla e comporta solo un ritardo dell’inizio del
processo; si può dire che tale norme costituisce solo un rimedio per gli errori
degli avvocati. Per quanto riguarda l’art.183 c.p.c., quindi l’udienza di
trattazione, è prevista la presenza delle parti (così come nel processo del lavoro
in base all’art.420 c.p.c.) perché il giudice deve interrogarle. Il giudice qui può
interpretare negativamente l’assenza di una parte. Inoltre il giudice può
concedere un doppio termine perentorio non superiore a 30 giorni per il
deposito di memorie contenenti precisazioni o modificazioni e per la replica a
tali precisazioni o modificazioni. Il giudice può anche chiedere dei chiarimenti
sui fatti di causa. Con l’udienza dell’art.183 c.p.c. si chiude la fase introduttiva
del processo ordinario mentre con nell’art.420 si ha la chiusura della fase
introduttiva del processo del lavoro. Per quanto riguarda il giudizio che si svolge
dinanzi al giudice di pace la situazione è molto più semplice perché non c’è un
sistema di preclusioni; mentre l’art.318 c.p.c. indica il contenuto dell’atto di
citazione, l’art.319 c.p.c. fissa le regole in tema di costituzione delle parti. Nel
processo davanti al giudice di pace l’attore si può costituire anche all’udienza
direttamente; in realtà tale affermazione va precisata infatti ci potrà essere
un’udienza in quanto l’attore si sia costituito in precedenza. La norma di cui
all’art.319 c.p.c. dice solo che l’attore si può costituire in cancelleria fino al
giorno indicato come udienza nell’atto di citazione. Ciò significa che non ci sono
preclusioni perché se l’attore si può costituire fino all’ultimo momento è chiaro
che il convenuto non sapendo cosa farà l’attore non può a sua volta anticiparlo
e quindi le parti dovranno inevitabilmente esporre le loro ragioni all’udienza.
Arrivati all’udienza il giudice potrà fissare una sorta di termine per le parti, per
venire a precisare le rispettive posizioni; in questo caso non vi sono preclusioni
perché nell’art.320 c.p.c. non è detto a pena di decadenza. La cassazione ha
ritenuto invece che la prima udienza sia un’udienza-limite oltre la quale non sia
possibile andare, anche se l’attore si costituisce, viene fissata l’udienza, il
convenuto si costituisce nella prima udienza e l’attore deve avere la possibilità
di replicare.
Possiamo concludere che nel giudizio dinanzi al giudice di pace c’è una
maggiore elasticità che consente alle parti di effettuare la propria attività non
solo nella prima udienza ma anche in quella successiva. Dopo aver analizzato i
tre diversi modi di introdurre il processo (processo del lavoro, processo
ordinario e processo innanzi al giudice di pace) bisogna dire che una volta
chiusa la fase introduttiva si apre la fase istruttoria dove si ha l’udienza di cui
all’art.184 c.p.c. Dobbiamo trattare brevemente della contumacia: se le parti
non si costituiscono si ha la contumacia ; essa è un istituto che si differenzia
dall’assenza, perché l’assenza è la mancata partecipazione della parte
all’udienza, ma comunque in questo caso si presuppone che la parte si sia
costituita. La contumacia nel processo ordinario può riguardare tanto l’attore
quanto il convenuto, perché l’attore potrebbe notificare l’atto di citazione ma non
costituirsi. Nel processo del lavoro invece la contumacia può riguardare solo il
convenuto perché l’attore si costituisce depositando il ricorso. Il legislatore tratta
delle ipotesi di contumacia nell’art.290 c.p.c. per l’attore e nell’art.291 c.p.c. per
il convenuto. La contumacia dell’attore è poco frequente, infatti si presuppone
che avendo proposto la domanda l’attore abbia interesse a costituirsi; tuttavia
se accade che egli non si costituisce mentre il convenuto si (condizione
necessaria perché il processo vada avanti), quando il giudice accerta che
l’attore non si è costituito può: fissare un’altra udienza, se il convenuto vuole
andare avanti (teniamo presente che poiché è l’attore che deve provare i fatti
costitutivi, se questi non si costituisce il convenuto ha vinto in partenza), oppure
disporre la cancellazione della causa dal ruolo e quindi estinguer il processo, se
il convenuto non ha interesse alla prosecuzione della causa. Per quanto
riguarda la contumacia del convenuto, questa è più frequente della prima; essa
viene accertata alla prima udienza di comparizione dove il giudice, se verifica
che il convenuto non si è costituito, deve capire il perché; infatti se il giudice
rileva un vizio che importi la nullità della notificazione della citazione deve
fissare un termine perentorio all’attore per rinnovarla, se invece non ci sono tali
vizi il giudice deve dichiarare la contumacia del convenuto. La contumacia del
convenuto non esonera l’attore dal dover fornire la prova dei fatti costitutivi della
sua domanda; in altri ordinamenti invece c’è l’istituto della fictio confessio che in
caso di contumacia del convenuto ritiene ammessi i fatti costitutivi della
domanda. Una peculiarità del processo contumaciale è costituita dal fatto che
determinati atti vanno personalmente notificati al convenuto; questi atti vengono
indicati dall’art.292 c.p.c. e sono (a parte la sentenza finale) l’ordinanza che
ammette l’interrogatorio formale, l’ordinanza che ammette il giuramento, nonché
le comparse contenenti domande nuove o riconvenzionali da chiunque proposte
(a seguito si alcuni interventi della Corte costituzionale va notificato
personalmente al convenuto contumace anche il verbale nel quale si dà atto
della produzione di un nuovo documento). La notifica personale di atti non sarà
possibile se la parte contumace è deceduta dopo la dichiarazione di
contumacia, in tal caso il processo si interrompe (questa è un’ipotesi
eccezionale di interruzione del processo perché normalmente il processo
stesso è indifferente alle sorti del contumace). È sicuramente possibile la
costituzione tardiva della parte contumace fino all’udienza di precisazione delle
conclusioni, ma in tal caso le possibili attività del convenuto saranno limitate.
Per il contumace c’è la possibilità di essere rimesso in termini. L’istituto della
rimessione in termini consente alla parte caduta in decadenza di poter chiedere
di essere ammessa a quelle attività altrimenti precluse, ma per far ciò il
contumace deve dimostrare che non si è costituito per causa a lui non
imputabile, per caso fortuito o per nullità della citazione o della notificazione.
Riassumendo:
Nell'atto di citazione bisogna indicare:
il giudice (ad esempio: "davanti al tribunale di Foggia");
- i soggetti;
- l'esposizione dei fatti;
- il petitum (in sostanza la richiesta);
- l'indicazione dell'udienza (ad esempio: "all'udienza del 16 dicembre 2002);
- l'avvertimento (di costituirsi entro il termine di 20 giorni se non si vuole
- incorrere nelle decadenze).
Nella comparsa di risposta (che è un atto più semplice perchè si poggia su
quello che è stato scritto nell'atto di citazione) bisogna indicare:
il giudice;
- la comparsa di costituzione e risposta;
- l'indicazione dei soggetti;
- la procura (a margine a destra rilasciata solo per un grado di giudizio, a
- meno che non sia una procura speciale).
Questi atti introduttivi del processo ordinario di cognizione sono bollati (£ 20.000
per quattro facciate e anche per la ,marca di scambio: non solo i propri atti ma
anche gli atti che si danno all'avversario). L'attore con l'atto di citazione deposita
tante copie quanti sono i destinatari; il convenuto quando deposita tutto,
deposita tanti atti quante sono le altre parti e ognuno di questi atti scambiati
viene bollato. Oggi c'è la volontà di abolire le marche da bollo per fare un
deposito forfettizzato, cioè pagare all'inizio della causa una somma con un
bollettino di conto corrente per non mettere più marche da bollo per tutta la
causa (questa legge però viene rinviata di continuo).
Nel ricorso non ci sono grosse differenze rispetto alla citazione, tranne nella
parte finale dove c'è l'indicazione del giudice; inoltre non ci sono marche da
bollo perché per le cause di lavoro non c'è un onere di natura tributaria. Nel
ricorso c'è: l'indicazione delle parti (ma non tutte, solo l'attore), la procura a
margine, l'esposizione dei fatti, l'esposizione in diritto delle norme che si
ritengono violate e quella che dovrebbe essere la procedura, l'esposizione del
petitum. Terzo
Poiché la sentenza fa stato solo tra le parti verrebbe da chiedersi perché il
legislatore si preoccupa di un soggetto che non è parte (il terzo) disciplinando il
suo intervento nel processo e dandogli la possibilità di esercitare un
impugnazione particolare quale l’opposizione di terzo. La risposta a questi
interrogativi è data dal fatto che i rapporti giuridici non vivono separati gli uni
rispetto agli altri, infatti esistono una serie di connessioni per cui una sentenza
che si pronuncia su un determinato rapporto giuridico può influenzare di fatto
rapporti giuridici collegati. In sostanza una sentenza può avere una certa
influenza sui diritti del terzo che perciò viene tutelato dal legislatore. L'istituto
dell'intervento del terzo nel processo è previsto per disciplinare è regolare
inserimento del soggetto che non era parte all'interno del processo. Il terzo nel
momento in cui interviene acquista la qualità di parte e perde la posizione di
terzo, quindi la sentenza avrà piena inefficacia anche nei suoi confronti. La
disciplina dell’intervento è contenuta nell’art.105 c.p.c.; invece le modalità di
intervento del terzo sono disciplinate per il processo del lavoro dall’art.419 c.p.c.
per il processo ordinario dagli artt.267 e 268 c.p.c.
L'ingresso del terzo nel processo si può avere in vari modi:
Intervento volontario del terzo che, non sollecitato da nessuno ma a seguito
• di una sua autonoma valutazione, decide di intervenire e di entrare in un
processo promosso da un soggetto nei confronti di un altro soggetto per
tutelare la sua posizione giuridica. La dottrina (nell'ambito dell'intervento
volontario) individua tre figure di intervento:
l'intervento principale si ha quando un terzo vuole far valere un diritto nei
- confronti di tutte le parti quindi un diritto che è autonomo ed incompatibile
ma ugualmente connesso (per l’oggetto o per il titolo) rispetto a quello
fatto valere nel processo entrambe le parti;
l'intervento litisconsortile (o intervento adesivo autonomo) si ha quando
- la causa è iniziata tra attore e convenuto e successivamente vi è
l’ingresso nel processo di un altro soggetto che è portatore di un altra
causa connessa a quella discussa nel processo per il titolo o per
l’oggetto, qui in sostanza il terzo interviene nel processo per far valere un
suo diritto compatibile con quello fatto valere in giudizio nei confronti di
una delle parti e quindi si affianca all’altra parte;
l'intervento adesivo dipendente si ha quando un terzo non vuole far
- valere un diritto ma un interesse perché non propone una vera e propria
domanda, infatti interviene nel processo affiancando una delle parti per
sostenerne le ragioni poiché se venisse accolta la domanda della
controparte egli subirebbe un pregiudizio.
Queste tre figure di intervento si distinguono a seconda della situazione
sostanziale che il terzo vuole fare valere. In genere nel litisconsorzio facoltativo
l’intervento è ammesso solo nel 1° grado del giudizio (nel grado d’appello non è
possibile proporre una nuova domanda). Per ciò che riguarda il momento
dell’intervento, è previsto che il terzo per intervenire deve costituirsi
presentando in udienza o depositando in cancelleria una comparsa a norma
dell’art.167 c.p.c.
Intervento coatto del terzo che viene costretto ad assumere la posizione di
• parte:
su istanza di parte (infatti ogni parte può chiamare in causa il terzo se
- ritiene che la causa sia comune se pretende di essere garantito),
su ordine del giudice (infatti a seguito di una sua valutazione il giudice
- può ordinare alle parti presenti di citare il terzo al quale la causa è
comune).
Si è detto che la fase preliminare del processo si apre con la citazione o con il
ricorso e si conclude, nel processo ordinario, con l’udienza di trattazione ex
art.183 c.p.c. dove il giudice può concedere un doppio termine (per le memorie
di precisazione o di modificazione e per le repliche) o, nel processo del lavoro,
con l’unica udienza di discussione ex art.420 c.p.c. dove le parti dovranno
presentare le domande, le eccezioni e le conclusioni. Infatti nel processo
ordinario inoltre abbiamo due momenti separati: la prima fase di allegazione
che termina con l’udienza di trattazione e la seconda fase delle prove che opera
successivamente; nel processo del lavoro invece i due momenti coincidono
perché le preclusioni operano sia per i fatti che per le prove.
Fase istruttoria
Le norme sulla fase istruttoria non esistono solo nel codice di procedura civile,
ma anche nel codice civile. Nel codice civile ci sono una serie di norme che
fissano delle regole in ordine all’ammissibilità e in ordine alla rilevanza dei
mezzi di prova previsti dal nostro ordinamento mentre nel codice di procedura
civile troviamo le regole relative all’assunzione dei mezzi di prova che vengono
chiesti dalle parti.
Nel processo ordinario di cognizione (ma anche nel processo del lavoro e
anche nel processo davanti al giudice di Pace) non è sempre detto che la fase
istruttoria ci sia; essa è una parte importante nel processo ma non è una parte
essenziale (potrebbero esserci solo la fase introduttiva, la fase decisoria e
quella finale). Tuttavia nel processo civile la fase istruttoria è molto frequente e
ciò è normale, infatti essa è diretta a formare il convincimento del giudice. Per
quanto riguarda le regole generali in tema di prove contenute nel codice civile,
norma generale è l’art.2697 c.c., relativo all’onere della prova, che stabilisce: al
1° comma che chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne
costituiscono fondamento (questo vale per l’attore) e al 2° comma che chi
eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto sia modificato o
estinto deve provare i fatti (estintivi, modificativi o impeditivi) su cui l’eccezione
si fonda (questo vale per il convenuto). La norma in questione fissa quella che è
la regola in tema di prova, chi deve provare e che cosa bisogna provare (Onere
della prova significa che la parte deve fornire la prova di quei fatti, altrimenti
questi non saranno provati; infatti il giudice ritiene quei fatti come non esistenti,
quindi la mancanza di prove è equiparata in tutto e per tutto alla non esistenza
di quel fatto . La regola che vige nel nostro sistema è la cd. norma non aliquet,
cioè non esiste nel nostro ordinamento l’assoluzione per insufficienza di prove
nel civile, prima esisteva nel penale ora non più, infatti anche nel penale oggi vi
è o la sentenza di condanna o la sentenza di assoluzione non c’è una terza
strada; una volta che la sentenza è passata in giudicato il discorso è chiuso,
non è più possibile mettere in discussione la sentenza). Nel nostro sistema le
parti devono comunicare le prove a pena di decadenza, è chiaro che il
convenuto dovrà comunque dare la prova non sapendo quello che farà l’attore.
La regola dell’art.2697 c.c., quella dell’onere della prova a carico dell’attore, non
è una regola assoluta perché possibile che vi sia la cd. inversione dell’onere
della prova, cioè che sia il convenuto a dover fornire la prova dei fatti (a questo
punto sarà l’attore a dover fornire la prova dei fatti modificativi, impeditivi ed
estintivi della condizione assunta; questo avviene ad esempio nel caso di
licenziamento per giusta causa in cui è il datore convenuto a dover provare la
giusta causa). Nell’art.2698 c.c. (patti relativi all’onere della prova) viene poi
stabilito che sono nulli i patti con i quali è modificato l’onere della prova, quando
si tratta di diritti di cui le parti non possono disporre o quando l’inversione o la
modificazione ha per effetto di rendere a una delle parti eccessivamente difficile
l’esercizio del diritto. Quindi la regola generale è che l’attore deve provare gli
atti costitutivi ecc., l’eccezione invece è l’inversione che è sottoposta a delle
condizioni, ovvero non si può mai avere onere della prova nell’ipotesi di diritti
indisponibili, non si può avere l’effetto dell’inversione dell’onere della prova
quando si rende difficile o impossibile provare o esercitare il diritto. Una regole
generale che troviamo nel codice di procedura civile è l’art.115 c.p.c.; questo
articolo fissa la regola della disponibilità delle prove (“salvi i casi previsti dalla
legge il giudice deve porre a fondamento delle decisioni le prove proposte dalle
parti o dal p.m.”), secondo il principio che nel nostro sistema le prove sono
richieste dalle parti (p.m., attore e convenuto). Il principio in questione non è
assoluto, perché proprio l’art.115 c.p.c. nomina “altri casi previsti dalla legge” e
molto spesso i codici indicano in parentesi una serie dì norme che potrebbero
essere delle ipotesi nelle quali il legislatore fa riferimento. In questi casi accade
che il giudice può porre a fondamento delle sua decisione prove che non sono
state richieste dalle stesse parti ma che il giudice applica, cioè dispone d’ufficio
(questa eccezione riguarda il mezzo di prova, non riguarda invece i cd. fatti; in
quanto nel processo civile relativamente all’inserimento dei fatti storici e
relativamente alla loro allegazione vi è il coinvolgimento assoluto delle parti e
c’è il divieto per il giudice di portare nel processo conoscenze di fatti acquisiti in
altro modo).
Ad esempio l’art.421 c.p.c. in materia di processo del lavoro stabilisce che il
giudice può disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo
di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, ad eccezione del
giuramento decisorio (che è riservato esclusivamente alla parte).
Nel processo del lavoro la regola è il principio inquisitorio con l’eccezione del
principio dispositivo, mentre nel processo ordinario la regola è il principio
dispositivo con l’eccezione del processo inquisitorio. Le prove hanno sempre ad
oggetto i fatti, questi fatti entrano nel processo tramite le parti, il giudice non può
mai introdurre nel processo circostanze di fatto acquisite in altro modo (ad
esempio leggendo il giornale). L’art.116 c.p.c. contiene una valutazione delle
prove; qui vi è una tripartizione in base alla loro efficacia proibitoria. Quindi
possiamo avere:
Prove legali, quando il giudice non può valutare il risultato delle prove ma
- deve prendere quel risultato per vero e decidere la causa in conformità al
risultato della prova (ad esempio il giuramento, la confessione ecc.); qui il
giudice è vincolato dalla prova.
Prove libere, quando il giudice non è vincolato e deve valutare il risultato
- della prova (ad esempio la prova testimoniale).
Argomenti a prova, quando il giudice non ha una vera e propria prova ma ha
- qualcosa che serve per interpretare le prove libere, cioè a rafforzare il suo
convincimento (ad esempio il comportamento delle parti o le risposte che le
parti danno al giudice nell’interrogatorio libero).
La differenza tra una prova ed un argomento di prova è che la prova è
sufficiente per decidere una causa, mentre anche molti argomenti di prova non
sono sufficienti per decidere una causa se non c’è almeno una prova. Per
quanto riguarda l’efficacia delle prove possiamo dire che: le prove legali
vincolano il giudice, le prove libere vengono valutate liberamente dal giudice ed
infine gli argomenti di prova servono per rafforzare le prove libere. Abbiamo poi
altri tipi di prove:
Prove orali, che si formano davanti al giudice (ad esempio il giuramento e la
- testimonianza);
Prove scritte (ad esempio l'atto pubblico);
- Prove precostituite, che esistono prima e al di fuori del processo (ad
- esempio l'atto pubblico);
Prove costituende, che si formano nel processo e se fatte fuori dal processo
- non hanno valore (ad esempio il giuramento e la testimonianza).
Un’altra distinzione per quanto riguarda le prove è quella tra prove tipiche
(previste dalle legislatore) le prove atipiche (non previste dal legislatore).
Dobbiamo ora vedere quali sono le regole generali in tema di assunzione di
prove; tale regola nel processo ordinario è indicata dall’art.184 c.p.c. Il processo
si snoda per udienze, infatti abbiamo: una prima udienza di comparizione con
delle attività limitate; poi l’udienza di trattazione (in cui ci può essere un’attività
limitata, se il processo è semplice, oppure vi può essere la produzione di nuove
domande da parte dell’attore se vi sono state eccezioni del convenuto), questa
udienza è quella indicata nell’art.183 c.p.c. e determina il thema decidendum.
L’art.184 c.p.c. è la norma considerata dal legislatore per quanto riguarda il
meccanismo delle prove, cioè la fase relativa all’assunzione delle prove.
Secondo l’art.184 c.p.c. 1° comma: il giudice, se ritiene che siano ammissibili e
rilevanti, ammette di mezzi di prova proposti, ovvero, l’istanza di parte rinvia ad
altra udienza assegnando un termine entro il quale le parti possono indicare
nuovi mezzi di prova, nonché l'altro termine per l’eventuale indicazione di prova
contraria.
Nell’udienza dell’art.184 c.p.c. le parti non chiedono subito le prove ma
chiedono al giudice un doppio termine: un termine per le prove dirette ed un
altro termine per le prove contrarie. Quindi il giudice rinvia ad un’altra udienza,
l’udienza per l’ammissione dei mezzi probatori. I termini concessi dal giudice
sono termini perentori. il 1° comma dell’art.184 c.p.c. prevede due soluzioni:
La prima soluzione riguarda il caso in cui le parti hanno proposto già negli
- atti introduttivi tutte le prove per loro importanti, le parti cioè non hanno da
dire altro (noi sappiamo che tanto l’attore quanto più convenuto devono
indicare negli atti introduttivi le prove ma possono anche non farlo); in
questo caso il giudice ammetterà i mezzi di prova.
La seconda soluzione sia nel caso in cui le parti non hanno chiesto tutti i
- mezzi di prova che vorrebbero; in questo caso si potrà chiedere al giudice di
fissare un doppio termine: uno per l’indicazione delle prove dirette e l’altro
per l’indicazione delle prove contrarie (questi termini sono perentori, cioè
una volta scaduti non è più possibile per le parti chiedere nuovi mezzi di
prova).
Il thema probandum viene ad essere determinato non dall’udienza ex art.184
c.p.c., ma alla scadenza del secondo termine (quando le parti non possono più
chiedere altri mezzi di prova) il giudice deve compiere prima un giudizio di
ammissibilità e di rilevanza dei mezzi di prova richiesti. L’ammissibilità è la
rispondenza dei mezzi di prova allo schema legale prevista dalla legge per quei
determinati mezzi di prova (ad esempio la prova testimoniale non si può
chiedere per provare un fatto per il quale è richiesta una forma scritta). La
rilevanza è l'importanza che quella prova ha nella decisione della causa
(teoricamente tutte le prove sono rilevanti ma in alcuni contesti non lo sono).
Per quanto riguarda il processo del lavoro, l’art.420 c.p.c. dal 5° comma all’ 8°
comma disciplina la telematica relativa alle prove nell'udienza di discussione
(che è l'udienza nel processo del lavoro). Secondo il 5° comma art.420 c.p.c. il
giudice ammette i mezzi di prova già proposti dalle parti e ammette anche i
mezzi che le parti non abbiano potuto proporre prima, se ritiene che siano
rilevanti. La parte può chiedere i mezzi di prova all’udienza. Il giudice dispone
con ordinanza l’immediata assunzione dei mezzi di prova. Secondo il 7° comma
art.420 c.p.c. se vengono ammessi nuovi mezzi di prova la controparte può
dedurre i mezzi di prova che si rendono necessari in relazione a quelle
ammessi, con l’assegnazione di un termine perentorio di 5 giorni. Il giudice, se i
nuovi mezzi di prova dedotti dalla controparte sono rilevanti, provvede alla loro
assunzione. Se all’udienza di discussione una delle parti chiede determinati
mezzi di prova che siano ritenuti ammissibili il giudice deve dare alla
controparte un termine di 5 giorni affinché questa possa indicare i mezzi di
prova; questo è il contraddittorio. Il giudice poi fissa un’udienza in cui avviene
l’assunzione delle prove. Il giudice decide sulle prove (se ammetterle o non
ammetterle) con una ordinanza. L’ordinanza in questione non ha natura
decisoria e non è impugnabile se non quando il giudice e mette la sentenza. Nel
1990 è stato introdotto nell’art.184 c.p.c. il 3° comma che stabilisce che caso in
cui vengano disposti d’ufficio mezzi di prova, ciascuna parte può dedurre, entro
un termine perentorio assegnato dal giudice, i mezzi di prova che si rendono
necessari in relazione ai primi. Le prove una volta ammesse devono essere
introdotte nel processo, cioè assunte (se io chiedo di assumere una prova
testimoniale e all’udienza non vado la legge prevede che il giudice d'ufficio
dichiari la parte decaduta dall'assunzione di quella prova, a meno che la
controparte non la voglia assumere). L’art.184-bis c.p.c. è stato introdotto con la
riforma del 1990; tale articolo tratto della rimessione in termini.
La rimessione in termini è un istituto generale che opera in tutti i casi in cui vi è
una preclusione e la parte non ha compiuto una certa attività per una causa a
lei non imputabile; in questi casi scatta la possibilità di essere rimesso in
termini, ossia il giudice può assegnare alla parte un nuovo termine per
compiere delle quelle attività che non ha potuto compiere per una situazione
esterna. La rimessione in termini non vale solo per decadenze della fase
istruttoria ma anche per quelle della fase introduttiva.
Prove
Passiamo ad esaminare i vari tipi di prove. Tra le prove documentali (cioè
scritte) più importanti abbiamo l’atto pubblico, la scrittura privata e le scritture
contabili. L’art.2699 c.c. definisce l’atto pubblico con l’atto formato da un
pubblico ufficiale (o da un notaio) autorizzato a porre in essere quel determinato
atto. L’atto è pubblico solo quando viene posto in essere da un soggetto
nell’esercizio delle sue funzioni. L’atto pubblico fa piena prova fino a querela di
falso. La querela di falso è un procedimento diretto ad accertare la falsità
dell’atto per eliminarlo dal mondo giuridico (tale querela in se non ha
conseguenze penali ma ha solo un fine civilistico). L’unico strumento per
togliere efficacia probatoria all’atto pubblico e la querela di falso. L’atto pubblico
fa piena prova della provenienza dell'atto stesso dal pubblico ufficiale che la
formato, delle dichiarazioni che le parti fanno dinanzi al notaio e di ciò che è
avvenuto dinanzi a lui. L’atto pubblico fa piena prova di ciò che appare ma non
di ciò che il contenuto interno dell’atto (se le parti hanno dichiarato di voler
effettuare una compravendita ma le loro intenzioni erano diversi in quanto
volevano effettuare una donazione non si può fare la querela di falso). La
querela di falso serve solo a colpire una difformità dell’atto rispetto a quanto
accaduto (ad esempio il notaio dichiara che è comparso dinanzi a lui un
soggetto che in realtà non gli si è presentato innanzi). Per l’atto pubblico
possiamo avere due tipi di falsità: la falsità ideologica, quando il notaio attesta
qualcosa di diverso rispetto a quanto accade dinanzi a lui; la falsità materiale,
cioè la materiale contraffazione di un atto che viene modificato ho alterato.
L’art.2701 c.c., che tratta della conversione dell’atto pubblico, stabilisce che il
documento formato da un ufficiale pubblico incompetente, incapace oppure
senza l'osservanza delle formalità prescritte, se è stato sottoscritto dalle parti, si
trasforma in una scrittura privata. Pubblico ufficiale per eccellenza è il notaio,
ma in genere è pubblico ufficiale qualsiasi soggetto ritenuto tale dalla legge. La
scrittura privata è un documento sottoscritto da soggetti privati senza che vi sia
la presenza di un pubblico ufficiale che attribuisca fede pubblica a quello che è
il contenuto della scrittura. La scrittura privata fa piena prova fino a querela di
falso, della provenienza delle dichiarazioni di chi la sottoscritta se colui contro il
quale la scrittura è prodotta ne riconosce la sottoscrizione o forse questa è
considerata come riconosciuta. Anche la scrittura privata incontra un limite che
e la querela di falso. Affinché la scrittura privata abbia efficacia di prova nel
processo sono necessari degli elementi: un primo elemento necessario è la
sottoscrizione delle parti (una scrittura privata non sottoscritta non ha efficacia
di prova e potrebbe essere considerata dal giudice come argomento di prova);
un secondo elemento necessario è il riconoscimento. La scrittura privata deve
essere riconosciuta oppure deve essere considerata legalmente riconosciuta. Si
ha per riconosciuta la sottoscrizione autenticata da un pubblico ufficiale o da un
notaio; in questo caso la scrittura privata ha anche l’efficacia probatoria.
L’art.214 c.p.c. e l’art.215 c.p.c. ci dicono come avviene il riconoscimento della
sottoscrizione all’interno del processo. Secondo l’art.214 c.p.c. è onere della
parte contro la quale la scrittura è prodotta disconoscere la sottoscrizione; a
seguito di tale disconoscimento si toglie qualsiasi efficacia alla scrittura privata.
Non sempre però si può disconoscere la propria sottoscrizione (per esempio
quando la propria sottoscrizione è vera). L’art.215 c.p.c. stabilisce che la
scrittura privata prodotta in giudizio si ha per riconosciuta in 2 casi: se la parte
contro la quale la scrittura è prodotta è contumace oppure se la parte contro la
quale la scrittura è prodotta non la disconosce. L’art.215 c.p.c. disciplina il c.d.
riconoscimento tacito che si ha quando la parte non disconosce alla sua
sottoscrizione, cioè non dice nulla, oppure quando la parte è contumace. Se
parte intende avvalersi della scrittura privata tutto dipenderà dalla controparte;
infatti se la controparte disconosce la scrittura le toglie efficacia, mentre se ne la
controparte non disconosce tale scrittura significherà che quella scrittura è data
per riconosciuta. La scrittura privata per aver efficacia piena fino a querela di
falso deve essere sottoscritta e deve essere autenticata o riconosciuta
espressamente o tacitamente. La scrittura privata fa piena prova della
provenienza delle dichiarazioni contenute nella scrittura stessa e fatte dal
soggetto che la sottoscritta. Se si vuole contestare la validità quella scrittura
privata è necessario fare la querela di fatto. Se la parte disconosce la
sottoscrizione scrittura privata perde efficacia. Il legislatore prevede un
particolare procedimento diretto ad accertare la provenienza della
sottoscrizione (cioè ad accettare se il soggetto l’ha effettivamente sottoscritta
oppure no). L’art.216 c.p.c., poi, stabilisce che la parte che intende valersi della
scrittura disconosciuta deve chiedere la verificazione, producendo i mezzi di
prova che ritiene utili e producendo o indicando le scritture che possono servire
di comparizione; inoltre l’istanza per la verificazione può anche proporsi in via
principale con citazione, quando la parte dimostra di avervi interesse, se poi il
convenuto riconosce la scrittura le spese sono poste a carico dell’attore.
L'ipotesi più frequente è che l'istanza di verificazione viene proposta in via
incidente (nel corso di un processo); ad esempio si produce una scrittura
privata che viene disconosciuta quindi si propone l'istanza di verificazione.
L'interesse della parte ad ottenere la verificazione è dato da due elementi:
il disconoscimento, che è anche il presupposto (nel caso in cui non ci fosse
- disconoscimento non si avrebbe la verificazione);
la rilevanza della scrittura ai fini della decisione della causa (quel documento
- deve essere essenziale per poter aver ragione, in tal caso la parte avrà
interesse alla verificazione).
L'ipotesi più rara è che l'istanza di verificazione si ha in via principale con
citazione; questa è un'ipotesi di azione di accertamento che non ha ad oggetto
un diritto ma un fatto, cioè la provenienza della sottoscrizione da quel
determinato soggetto. Qui il problema è quello dell'interesse, o meglio il
problema è capire che interesse ha la parte proporre un'azione autonoma per
ottenere la verificazione della sottoscrizione (quindi possiamo vedere che esiste
la possibilità di fare istanza di verificazione in via principale con citazione, ma in
tal caso la parte deve dimostrare di avere interesse). La parte quando chiede al
giudice la verificazione della sottoscrizione deve fornire i mezzi di prova. I mezzi
di prova più importanti sono le scritture di comparazione con le quali il giudice
(quasi sempre con l'aiuto di un consulente tecnico) può desumere se
effettivamente la sottoscrizione appartiene a quel soggetto oppure no. Il giudice
può anche invitare la controparte a scrivere sotto dettatura per verificare la
provenienza della sottoscrizione da quel soggetto. Questo procedimento
incidente tale ha natura probatoria (non natura autonoma); qui competente sarà
sempre il giudice della causa, sia esso giudice di pace o tribunale. Invece il
problema, di capire dinanzi a chi si propone la domanda, si pone in quei rari
casi in cui si ammette la verificazione in via autonoma; in questo caso si deve
vedere il valore della scrittura privata: se il valore è minore di 5 milioni
competente sarà il giudice di pace, mentre se il valore è maggiore di 5 milioni
competente sarà il tribunale (in composizione monocratica).
Prima il giudice se con sentenza dichiarava che quella sottoscrizione
apparteneva a quel soggetto che l'aveva disconosciuta poteva condannare
quest'ultimo ad una pena pecuniaria (non inferiore a 4.000 e non maggiore di
40.000). Il procedimento di verificazione si conclude con una sentenza; questa
è un'eccezione dal momento che in materia di prove il giudice pronuncia
sempre un'ordinanza (mentre la sentenza darebbe una maggiore certezza
perché se non viene impugnata passa in giudicato e viene risolta
definitivamente la questione). Il procedimento di verificazione si
può concludere in due modi:
con una sentenza che accerta che la sottoscrizione appartiene a quel
- soggetto (quella scrittura fa piena prova fino a quella di falso);
con una sentenza che accerta che la sottoscrizione non è di quel soggetto
- (quella scrittura viene eliminata dalla processo, non ha più alcuna efficacia).
A differenza dell'atto pubblico, una scrittura privata (art.2703 c.c.) non fa piena
prova in ordine alla data perché essa non viene formata alla presenza di un
pubblico ufficiale ma fa piena prova solo della provenienza delle dichiarazioni
da chi l'ha sottoscritta. Il legislatore ha cercato di indicare gli elementi utili per
individuare la data della scrittura. L'art.2704 c.c. detta una disciplina che non è
tassativa e serve per l'individuazione di una data certa nella sottoscrizione del
documento. L'ipotesi più semplice è l'autenticazione che è un modo per avere la
certezza della data. Un altro modo per avere la certezza della data è la morte
della persona che ha sottoscritto il documento, infatti il legislatore considera
come data certa quella della morte. Infine un altro modo di determinazione della
data si ha nel caso in cui la scrittura in questione venga richiamata in un atto
che ha fede pubblica. Tutti questi elementi non sono tassativi perché si può
individuare un qualsiasi altro elemento o un fatto che stabilisce in modo certo la
data di quella scrittura. Nella prassi è diffuso lo strumento del timbro postale
che si ritiene dia certezza; non bisogna però pensare al timbro postale apposto
sulla busta e non dentro la scrittura perché altrimenti la scrittura senza busta
sarebbe senza data. Il modo infatti è quello di autospedirsi o di spedire all'altra
parte il foglio piegato in tre e avente da un lato l'atto scritto e dall'altro un foglio
bianco. In questo modo si ha la certezza della data perché sulla parte del
documento c'è la data del timbro postale; quindi si ha la certezza di quando è
stato spedito un foglio, non si avrà invece la certezza che nel momento in cui è
stato spedito era stato anche effettivamente sottoscritto. Possiamo concludere
che il timbro postale non dà la certezza che in quella data si è fatto quel
contratto perché il timbro non è messo alla fine della scrittura ma sull'altro lato
del foglio (qui nel momento in cui l'ufficiale appone il timbro stesso, non verifica
che quel foglio e pieno; il foglio potrebbe essere anche bianco). A tal proposito
la giurisprudenza non è stata molto attenta. La scrittura privata fa piena prova
fino a querela di falso della provenienza delle dichiarazioni, ma affinché ciò
accada è necessario che sia sottoscritta e che la sottoscrizione sia autenticata
oppure riconosciuta in maniera espressa o tacita o ancora, se è stata
disconosciuta, è necessario che sia stata poi dopo verificata. In riferimento alla
scrittura privata, non essendoci un pubblico ufficiale l'unico tipo di falsità che si
può avere e quella materiale e non quella ideologica. Sia l'atto pubblico che la
scrittura privata fanno piena prova fino a querela di falso. L'atto pubblico fa
piena prova della provenienza, delle dichiarazioni e della data; mentre la
scrittura privata fa piena prova solo della provenienza delle dichiarazioni da chi
le ha sottoscritte. Per la scrittura privata, la quella di falso pone una serie di
problemi che non si presentano nel caso dell'atto pubblico. Il primo problema
attiene al caso in cui la scrittura privata sia sottoscritta ma non riconosciuta; in
tal caso ci si chiede se tale scrittura possa essere oggetto di querela di falso.
Partiamo dall'ipotesi in cui venga fatta valere una scrittura privata sottoscritta e
la controparte proponga subito la querela di falso perché ritiene che essa sia
stata falsificata.
In questa ipotesi la cassazione ha ritenuto che la parte possa far valere la
querela di falso saltando il passaggio del riconoscimento. Questa posizione
della cassazione però è stata criticata dalla dottrina che ha detto che la scrittura
solo sottoscritta non fa piena prova (fino a querela di falso) ma è necessario il
riconoscimento o l'autenticazione. Successivamente la cassazione ha detto che
per poter proporre la querela di falso la scrittura deve essere prima riconosciuta
in modo espresso o tacito. Il secondo problema attiene al caso in cui si voglia
proporre la querela di falso contro la scrittura privata verificata. L'art.221 c.p.c
dice che la querela di falso si può proporre fino a quando la verità del
documento non sia stata accertata con una sentenza passata in giudicato.
Siccome la verificazione si conclude con una sentenza che può passare in
giudicato, ci si chiede se quella sentenza precluda la possibilità di proporre la
querela di falso. La risposta è negativa perché quella sentenza non accerta la
verità del documento ma solo della provenienza di quella scrittura da quel
soggetto e che l'ha sottoscritta (quindi se la controparte ritiene che quel
documento provenga da lui ma sia falso può proporre la querela di falso dopo
averlo riconosciuto; mentre se vuole contestare la provenienza deve
disconoscerlo e poi ci sarà l'istanza di verificazione). I due istituti, quello della
verificazione e quello della querela di falso, hanno obiettivi diversi; inoltre
dobbiamo precisare che la scrittura verificata può essere oggetto di querela di
falso. Il terzo problema attiene all'abuso del foglio bianco. Esiste la prassi di
dare ad alcune persone il compito di risolvere una certa questione ed in tal caso
lo si fa firmando in bianco un determinato foglio; gli effetti si produrranno in
capo alle parti perché queste hanno firmato e accettato preventivamente
l'eventuale decisione. Qui sorgono dei problemi che sono:
l'abuso del mandato conferito, quando si è andati oltre i patti;
- il riempimento del foglio in bianco, in assenza di patti, senza mandato.
-
La giurisprudenza ha detto che nel primo caso non vi è materia per la querela di
falso; è possibile impugnare per vizi della volontà. Nel secondo caso quando
non c'è mandato c'è la possibilità di proporre la querela di falso. La querela di
falso e un procedimento diretto ad accertare la falsità materiale e ideologica (se
si tratta di atto pubblico) o solo materiale (se si tratta di scrittura privata). La
querela di falso si può proporre tanto in via principale quanto in corso di causa,
in ogni stato e grado del giudizio (di regola essa viene proposta in via
incidentale, però vi può essere l'esigenza di proporla in via principale). Il giudice
competente in questa materia è sempre il tribunale civile. La querela di falso si
può proporre in ogni stato e grado del processo, cioè si può proporre in 1°
grado, in appello ed anche per la prima volta in cassazione ma con riferimento
a quei documenti che si sono formati dopo il giudizio d'appello. Nel
procedimento per querela di falso deve intervenire necessariamente il p.m. e
sappiamo che nel momento in cui deve intervenire obbligatoriamente il p.m. la
causa verrà decisa dal collegio perché tra le ipotesi in cui è competente il
collegio a decidere troviamo le cause nelle quali interviene obbligatoriamente il
p.m. Nel proporre la querela di falso la parte deve farlo personalmente o a
mezzo di un procuratore con atto di citazione ed inoltre deve indicare a pena di
nullità gli elementi e le prove della falsità. Se la querela di falso viene proposta
nel corso del processo non scatta subito il procedimento incidentale, perché è
necessario che il giudice faccia una verifica. Il giudice deve interpellare la parte
che ha prodotto il documento per chiederle se vuole comunque avvalersi di quel
documento nonostante la minaccia di proporre la querela di falso. Se la parte
dice che non vuole avvalersi di quel documento, il documento viene eliminato
dal processo; se la parte invece dice che vuol avvalersi di quel documento,
nonostante la minaccia di querela di falso, il documento rimane nel processo
ma il giudice deve fare un'altra indagine per verificare se quel documento è
rilevante ai fini della decisione della causa.
Solo dopo aver accertato che la parte vuole avvalersi di quel documento e che
esso è rilevante si ammette la querela di falso e si apre effettivamente il
procedimento che, con tutti i mezzi di prova che richiederanno alle parti, sarà
diretto ad accertare che quel documento è falso oppure no. Il procedimento in
questione si chiude con una sentenza che ha efficacia erga omnes, cioè che ha
efficacia anche al di fuori dal processo e quindi anche nei confronti delle
persone che non hanno partecipato al processo (infatti se la sentenza accerta
che quel documento è falso, lo elimina dal mondo giuridico e, se il documento
non esiste più, nessuno potrà più utilizzarlo; al contrario se la sentenza accerta
la verità di quel documento, per tutti esso sarà tale e nessuno potrà mettere in
dubbio la sua verità). Poiché il giudice di pace e la corte d'appello non sono i
giudici competenti a decidere sulla querela di falso, dobbiamo chiederci cosa
succede se il problema viene posto dinanzi a tali giudice. In questi casi bisogna
dividere il procedimento: per la fase preliminare (cioè l'interpello e la rilevanza)
saranno competenti i giudici della causa (che possono essere il giudice di pace
o la corte d'appello), mentre per la fase successiva (che si ha nel caso in cui i
giudici della causa la sospendono perché ritengono che il documento di cui la
parte intende avvalersi, nonostante la minaccia di querela di falso, sia rilevante)
sarà competente il tribunale (che deciderà sulla querela di falso). Intervenuta la
sentenza sulla querela di falso la parte interessata (cioè quella che ha vinto)
riassume il processo davanti al giudice di pace o alla corte d'appello. La
sentenza che conclude il giudizio sulla querela di falso può essere: una
sentenza di accertamento, se accerta la veridicità del documento (in questo
caso il documento era e rimarrà vero) oppure una sentenza costitutiva, se
accerta la falsità del documento (in questo caso il giudice elimina, estingue,
quell'atto). Le scritture contabili: I libri e le scritture contabili delle imprese, che
sono soggette a registrazione, fanno piena prova contro l'imprenditore. Tuttavia
chi vuole trarre vantaggio da tali documenti non può scinderne il contenuto. Una
scrittura fa prova contro e non a favore dell'imprenditore. Un imprenditore non
può usare le sue scritture private contro chi non è imprenditore. Nel processo
ingiuntivo invece il creditore-imprenditore può far valere le sue scritture anche
nei confronti di chi non è imprenditore. Per quanto riguarda le fotocopie, è
possibile che nel corso del giudizio la parte produca delle fotocopie
relativamente ad una scrittura. La cassazione ha detto che le fotocopie hanno la
stessa efficacia degli atti autentici: nel caso in cui la conformità all'originale è
attesta da un atto pubblico ufficiale o nel caso in cui tale conformità non è stata
disconosciuta dalla controparte (infatti se la controparte disconosce la fotocopia
la parte è tenuta ad esibire l'originale; se invece a controparte non disconosce
quella fotocopia, essa è perfettamente efficace). Per quanto riguarda la prova
testimoniale, bisogna dire che essa è una prova libera, cioè non è soggetta alla
libera valutazione del giudice. La prova libera consiste nella dichiarazione che
un terzo (quindi un soggetto che non è parte del processo) compie in ordine ai
fatti di causa (ovviamente in ordine a quei fatti che sono a sua conoscenza). Nel
nostro ordinamento non è ammissibile la testimonianza della parte. La prova
testimoniale è sottoposta ad una serie di limiti sia di natura oggettiva (indicati
nel codice civile) che di natura soggetti (indicati nel codice di procedura civile).
Tra i limiti di natura oggettiva (che sono per lo più condizioni di ammissibilità)
abbiamo:
Il limite individuato nell’art.2721 c.c.; tale articolo stabilisce che la prova per
- testimoni dei contratti non è ammessa quando il valore dell’oggetto eccede
le lire cinquemila. Tuttavia la stessa norma al 2° comma stabilisce che
l’autorità giudiziaria può consentire la prova oltre il limite anzidetto, tenuto
conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra
circostanza. Quindi a livello pratico possiamo dire che la norma è superata
(infatti nella pratica avviene che mai nessun giudice ha negato
l’ammissibilità della prova testimoniale perché il valore del contratto era
superiore a lire cinquemila, così come mai nessun avvocato ha sollevato
un’eccezioni di inammissibilità ai sensi del 1° comma dell’art.2721 c.c.).
Un altro discorso va fatto per quanto riguarda i c.d. patti aggiunti la cui
- disciplina è contenuta negli artt.2722 e seguenti. Infatti l’art.2722 c.c.
stabilisce che la prova per testimoni non è ammessa se ha per oggetto patti
aggiunti o contrari al contenuto di un documento, per i quali si alleghi che la
stipulazione è stata anteriore o contemporanea. Quindi la parte può provare
il patto aggiunto o contrario solo per iscritto. Quindi in conclusione se si
fanno i patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, non ci si può
limitare al fatto verbale, sia pure alla presenza di testimoni, è necessario che
il patto venga redatto per iscritto perché solo in questo mondo se ne può
provare l’esistenza in giudizio. Per quanto riguarda i patti aggiunti o contrari
ma successivi, l’art.2723 c.c. stabilisce che qualora si alleghi che, dopo la
formazione di un documento, è stato stipulato un patto aggiunto o contrario
al contenuto di esso, l’autorità giudiziaria può consentire la prova per
testimoni soltanto se, avuto riguardo alla qualità delle parti, alla natura del
contratto e ad ogni altra circostanza, appare verosimile che siano state fatte
aggiunte con modificazioni verbali. Il legislatore infatti ritiene che sia
ammissibile il patto aggiunto o contrario in forma verbale se successivo; in
questo caso spetterà al giudice valutare se è verosimile che il patto verbale
sia stato effettivamente raggiunto, tenendo anche in considerazione la
natura del contratto, la qualità delle parti e ogni altra circostanza. In
conclusione la prova testimoniale per i patti aggiunti o contrari posteriori non
è esclusa a priori, ma e assoggettata ad una valutazione che deve compiere
il giudice della causa.
Un altro limite oggettivo alla prova testimoniale è indicato nell’art.2725 c.c.;
- tale articolo stabilisce che gli atti per i quali la legge richiede la forma scritta
ad substantiam o ad probationem non possono essere approvati attraverso
la prova testimoniale. In questo caso è prevista un’eccezione che è quella di
consentire la prova testimoniale in quei casi in cui la parte senza colpa ha
perso il documento scritto.
In genere i limiti imposti dal legislatore all’ammissibilità della prova testimoniale
trovano eccezioni nell’art.2724 c.c.; quest’articolo individua tre eccezioni per le
quali la prova testimoniale deve essere ammessa: in ogni caso quando vi è un
principio di prova per iscritto, quando il contraente è stato nell’impossibilità
morale o materiale di procurarsi una prova scritta (caso in cui il contraente è
debole), quando il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli
forniva la prova (in questo caso il contraente che vuole utilizzare la prova
testimoniale dovrà fornire la prova che non solo era stato fatto un atto scritto ma
anche che ha perso per causa lui non imputabile tale atto). Tra i limiti di natura
soggettiva (che riguardano la capacità a testimoniare) vi sono varie norme
(alcune sono venute meno):
Un limite era quello contenuto nell’art.247 c.p.c. che prevedeva il divieto di
- testimoniare per il coniuge, i parenti, gli affini in linea retta e coloro che
erano legati da un vincolo di affiliazione. Questa norma è stata dichiarata
incostituzionale sia perché in contrasto con l’art.24 Cost. sia perché le realtà
la prova testimoniale è sempre soggetta alla libera valutazione fatta del
giudice che potrà valutare l’attendibilità o meno del testimone.
Un altro limite era quello contenuto nell’art.248 c.p.c. che prevedeva la
- possibilità che i minori di anni quattordici potessero essere chiamati a
testimoniare solo quando la loro audizione era resa necessaria da particolari
circostanze. Anche questa norma è stata dichiarata incostituzionale.
Un ultimo limite di natura soggettiva è quello previsto dall’art.246 c.p.c. (che
- in realtà è l’unico limite soggettivo alla prova testimoniale rimasto nel nostro
ordinamento). L’art.246 c.p.c. stabilisce che non possono essere chiamate a
testimoniare le persone aventi interesse della causa che potrebbe
legittimare la loro partecipazione al giudizio; in questo caso l’elemento che
rende incapaci di terzo è l’interesse, non l’interesse materiale ma giuridico.
Nel nostro ordinamento si è posto un problema di coordinamento tra la norma di
legge e la sentenza con la quale la corte costituzionale ha dichiarato nel 1974
l’incostituzionalità dell’art.247 c.p.c. Nell’ambito del processo del lavoro vi è una
norma, l’art.421 c.p.c., che in materia di poteri istruttori del giudice nel processo
afferma che il giudice stesso ora lo ritenga necessario, può ordinare la
comparizione, per interrogarle liberamente sui fatti di causa, anche di quelle
persone che siano incapaci di testimoniare a norma dell’art.246 c.p.c. o a cui
sia vietato a norma dell’art.247 c.p.c. Quindi nel processo del lavoro (a
differenza che nel processo ordinario) il giudice, pur non potendo in alcuni casi
accettare la prova testimoniale di alcuni soggetti, aveva la possibilità di
sottoporre tali soggetti ad un interrogatorio libero e desumere dalla loro risposte
argomenti di prova che potessero servire ad interpretare le altre prove troppo.
Come possiamo notare si viene a creare una diversità tra il trattamento di alcuni
soggetti nel processo ordinario è il trattamento degli stessi soggetti nel
processo del lavoro. Inoltre ci si chiedeva se, dopo la sentenza della corte
costituzionale che aveva dichiarato incostituzionale l’art.247 c.p.c., i parenti
potevano essere chiamate testimoniare nel processo del lavoro oppure per
effetto della previsione dell’art.421 c.p.c. (che non era stata toccata dalla
pronuncia della corte costituzionale) potevano essere solo interrogati
liberamente. In sostanza si è finito per considerare la sentenza della Corte
costituzionale estesa anche quella parte della norma che faceva riferimento
all’art.247 c.p.c. Circa il problema della diversità di trattamento per i soggetti
che rientrano nell’art.246 c.p.c. (cioè quelli che hanno interesse nel processo) il
professore ritiene che in realtà la disparità di trattamento non può considerarsi
incostituzionale e in quanto tale disparità attiene a diverse situazioni. L’attuale
situazione è che: nel processo ordinario di terzi interessati non possono essere
sentiti come testimoni e non possono neppure essere liberamente interrogati,
mentre nel processo del lavoro gli stessi soggetti non possono essere sentiti
come testimoni ma possono essere interrogati liberamente dal giudice. Per
quanto riguarda le modalità di assunzione della prova testimoniale bisogna fare
riferimento all’art.244 c.p.c. che stabilisce che quando la parte chiede la prova
testimoniale deve indicare le persone che vuole sentire (i terzi) ed i fatti in
maniera specifica operando una separazione per capitoli. È importante che la
prova testimoniale abbia ad oggetto i fatti, mentre non può aver ad oggetto la
valutazione giuridica di tali fatti. Secondo l’art.245 c.p.c. il giudice, dopo che le
parti hanno chiesto la prova testimoniale secondo le modalità previste
dall’art.184 c.p.c., ammette la prova con ordinanza e con la stessa può ridurre
le liste dei testimoni ed eliminare i testimoni che non possono essere sentiti per
legge. Quando il giudice ha ammesso la prova testimoniale è obbligo delle parti
intimare i testimoni a comparire all’udienza fissata dal giudice per la loro
audizione. L’intimazione si fa materialmente con un atto che viene notificato al
testimone e che deve essere notificato almeno 3 giorni prima dell’udienza (è
dovere del testimone comparire e rendere la testimonianza, infatti se non
compare si può chiedere anche che venga accompagnato dalla forza pubblica).
Nel caso in cui il testimone si presenti e si rifiuti di giurare senza giustificato
motivo oppure nel caso in cui vi fosse fondato sospetto che egli non ha detto la
verità o ancora nel caso in cui sia stato reticente, il giudice istruttore lo denuncia
al p.m., al quale trasmette copia del processo verbale; in questa norma è stata
eliminata l’ultima parte che dava la possibilità al giudice civile di ordinare
persino l’arresto del testimone. Ai sensi dell’art.257 c.p.c. la prova testimoniale
può essere disposta d’ufficio quando uno dei testimoni si era riferito ad altri
soggetti che possono essere conoscenza dei fatti.
Inoltre la prova testimoniale può essere disposta d’ufficio anche in base
all’art.281-ter c.p.c. che disciplina il procedimento davanti al tribunale in
composizione monocratica e prevede che il giudice possa disporre d’ufficio la
prova testimoniale formulandone i capitoli, quando le parti nella esposizione dei
fatti si sono riferite a persone che appaiono in grado di conoscere la verità;
questa norma si riferisce al tribunale in composizione monocratica e non a
quello in composizione collegiale, quindi nel caso in cui è il tribunale collegiale a
dover decidere, questi non deve tener conto della prova testimoniale ammessa
erroneamente dal giudice istruttore. Il limite entro il quale il giudice può
ammettere d’ufficio la prova testimoniale, per alcuni è lo stesso che hanno le
parti (cioè il 2° termine dell’udienza ex art.184 c.p.c.) mentre per altri il giudice
può ammettere la prova testimoniale in tutto il corso del processo (opinione
condivisa dal professore). Passiamo ad esaminare la confessione. L’art.2730
c.p.c. stabilisce che la confessione è la dichiarazione che una parte fa della
verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte. Anche in questo
caso la confessione deve avere ad oggetto fatti e non valutazioni. La
confessione a differenza della prova testimoniale ha come soggetto la parte.
Anche per la confessione ci sono dei limiti di natura soggettiva e dei limiti di
natura oggettiva. Per quanto riguarda i limiti di natura soggettiva innanzitutto
l’art.2731 c.c. dispone che la confessione per essere efficace deve provenire da
una persona capace di disporre del diritto a cui i fatti contestati si riferiscono;
quindi deve trattarsi di una persona che aveva la capacità di agire nel senso
che la parte che confessa deve essere titolare del diritto cui si riferiscono fare i
fatti di causa.
La confessione è una prova legale, essa cioè ha un’efficacia predeterminata dal
legislatore nel senso che il giudice non può valutare quelle dichiarazioni ma
deve prenderle per venire. Quindi in sostanza i limiti di natura soggettiva alla
confessione sono: la capacità d’agire, la capacità di disporre del diritto cui si
riferiscono i fatti di causa e la titolarità dello stesso. Per quanto riguarda i limiti
di natura oggettiva bisogna dire che, secondo l’art.2733 c.c., la confessione
fatta piena prova contro colui che l’ha fatta se verte su fatti e diritti disponibili.
Da ciò deriva che il limite oggettivo alla confessione è costituito dai diritti
indisponibili. L’art.2732 c.c. dispone che la confessione può essere revocata se
vi è stato l’errore di fatto o violenza. La confessione di regola è una prova legale
tuttavia vi sono dei casi in cui essa diviene prova libera; questi casi sono:
quello individuato dall’art.2733 c.c. e che prevede il caso in cui siano
- soltanto alcuni dei litisconsorti necessari a confessare;
quello individuato dall’art.2735 c.p.c. che prevede il caso di confessione resa
- alla parte, ad un terzo fuori dal giudizio oppure in un testamento;
quello individuato dall’art.2734 c.p.c. che prevede il caso di dichiarazioni
- aggiunte alla confessione (in questo caso in funzione del principio
dell’unitarietà della dichiarazione, il giudice deve vedere cosa pensa la
controparte e quindi se questa accetta anche le dichiarazioni aggiunte,
favorevoli a chi confessa, tutta la confessione vale come prova legale; nel
caso contrario invece la confessione vale come prova libera).
La confessione può essere stragiudiziale o giudiziale; quella giudiziale di regola
è una prova legale, quella stragiudiziale invece ha efficacia di prova libera se è
fatta ad un terzo o in un testamento mentre a efficacia di prova legale se è fatta
alla parte. La confessione stragiudiziale non può provarsi per testimoni se verte
su un soggetto per il quale la prova testimoniale non è ammessa dalla legge. La
confessione giudiziale viene resa nel processo è può essere orale oppure
scritta. La confessione può essere: spontanea (se la parte fa spontaneamente
dichiarazioni a se sfavorevoli) o provocata (quando la confessione viene
provocata con l’interrogatorio formale). L’interrogatorio formale è disciplinato
dall’art.230 c.p.c. che afferma che l’interrogatorio deve essere dedotto per
articoli separati specifici. Il giudice istruttore ammette l’interrogatorio formale
con ordinanza ed in seguito sente la parte cui è stato deferito l’interrogatorio. La
parte può assumere diverse posizioni: non si presenta; si presenta rendendo
dichiarazioni sfavorevoli; si presenta rendendo dichiarazioni favorevoli; si
presenta rendendo dichiarazioni complesse. Se la parte non si presenta il
giudice può ritenere come ammessi i fatti dedotti nell’interrogatorio; questa sarà
cioè una prova libera perché entra in gioco la valutazione del giudice; se la
parte si presenta ma si rifiuta di rispondere le conseguenze saranno le stesse;
infine nei casi in cui la parte fa dichiarazioni a se sfavorevoli ma favorevoli alla
controparte si avrà una confessione. L’interrogatorio formale è un istituto che ha
lo scopo di conseguire una confessione; tale istituto viene utilizzato soprattutto
quando la controparte è un ente pubblico che non può rilasciare un mandato
per essere rappresentato in un interrogatorio formale e quindi dalla mancata
comparizione dell’ente pubblico derivano conseguenze favorevoli all’altra parte.
L’interrogatorio libero è quello che legislatore prevede come interrogatorio
obbligatorio all’udienza di discussione nel processo del lavoro e all’udienza di
trattazione nel processo ordinario. L’interrogatorio libero, a differenza di quello
formale, è uno strumento nelle mani del giudice (infatti è solo il giudice che può
disporre tale interrogatorio che è previsto all’inizio della causa anche se il
giudice potrebbe disporlo in ogni momento del processo). L’interrogatorio libero
alla finalità di avere chiarimenti sui fatti di causa, quindi è più probabile che
venga disposto più o meno nella fase istruttore. Di solito attraverso
l’interrogatorio libero si perviene solo ad argomenti di prova.
Un’altra prova è il giuramento, cioè una dichiarazione che la parte fa della verità
dei fatti di causa. Il giuramento richiede soltanto che la parte faccia una
dichiarazione che s’intende come vera (non come nella confessione dove si
richiede che la dichiarazione sia sfavorevole a se è favorevole alla controparte).
In sostanza il giuramento è una sorta di sfida che una parte lancia all’altra
invitandola a giurare sulla verità di un fatto. Il giuramento è una prova legale,
quindi quando si deferisce il giuramento si rimette la decisione alla parte che
giura. Se la parte giura ha efficacia non solo il giuramento ma anche l’eventuale
accertamento di natura penale che consegue al giuramento falso. Se
successivamente alla sentenza viene accertata la falsità del giuramento, la
sentenza penale che accertata tale falsità non potrà essere utilizzata per
ottenere la revocazione della sentenza civile ma potrà solo consentire alla parte
di ottenere un risarcimento dei danni. Il giuramento può essere decisorio (quello
che una parte deferisce all’altra per farne dipendere la decisione totale o
parziale della causa) o suppletorio (quello che viene deferito d’ufficio dal giudice
al fine di decidere la causa quando la domanda o le eccezioni non sono
pienamente provate). Il giuramento decisorio si distingue in due tipi: quello de
veritatae (quando la parte giura su fatti propri) e quello de scientia (quando la
parte giura su fatti altrui e non propri ma dei quali è a conoscenza).
I limiti di natura soggettiva del giuramento sono gli stessi previsti per la
confessione (l’art.2737 c.p.c. rinvia all’art.2731 c.p.c.): capacità di agire,
capacità di disporre del diritto. I limiti di natura oggettiva invece sono costituiti
da alcune previsioni: non si può giurare sul fatto illecito; non si può giurare
relativamente ad un fatto contenuto in un atto pubblico; non si può giurare
riguardo l’esistenza di un contratto per il quale la legge richiede la forma scritta
ad substantiam. Secondo l’art.233 c.p.c. il giuramento decisorio può essere
deferito davanti al giudice istruttore in qualunque stato della causa (a
fondamento di ciò basti pensare agli artt.345 e 394 che stabiliscono che il
giuramento può essere deferito in appello e nel giudizio di rinvio, cioè quello
successivo a quello della cassazione). Il giuramento, oltre che deferito, può
essere riferito; il riferimento è una sorta di rinvio all’avversario che ha deferito il
giuramento (art.234 c.p.c.). Per ciò che riguarda la revoca, più che il
giuramento, può essere revocato il referimento. Il legislatore attribuisce
efficacia: alla situazione in cui la parte cui è stato deferito il giuramento non si
presenta; alla situazione in cui si presenta e si rifiuta di giurare; alla situazione
in cui si presenta e giura. È importante dire che nelle prime due ipotesi il giudice
considera negativamente tali situazioni ed il comportamento della parte. La
logica del giuramento è cambiata, infatti mentre in passato esso si basava su
una sorta di senso morale e religioso oggi si fonda sull’utilità della parte di
esperire l’ultimo tentativo per risolvere a suo favore il processo (infatti il
giuramento decisorio può essere deferito in qualsiasi momento del processo). Il
giuramento decisorio può essere deferito anche alla parte contumace così
come l’interrogatorio formale; in questi casi, il verbale in cui il giudice ammette
l’interrogatorio formale o il giuramento va notificato personalmente alla parte
contumace che può comparire per rendere l’interrogatorio formale o il
giuramento senza costituirsi. Il giuramento suppletorio è quello deferito dal
giudice alla parte a condizione che vi sia la semiplena probatio (cioè la prova
non completa) che si ha quando al termine della fase istruttoria il giudice non ha
raccolto prove sufficienti per la decisione. Il giuramento suppletorio è un
eccezione alla regola di cui all’art.2697 c.c., infatti mentre tale articolo stabilisce
che se non si raggiungono le prove la domanda deve essere rigettata, l’art.240
c.p.c. permette il giuramento suppletorio facendo si che il giudice (anziché
rigettare la domanda) rimetta ad una delle parti la decisione della causa. Non
essendoci nessun criterio di scelta della parte alla quale deve essere deferito il
giuramento, la dottrina e la giurisprudenza hanno affermato che tale scelta deve
ricadere sulla parte che ha fornito la semiplena probatio che inoltre non potrà
rifiutarsi. La parte non può impugnare la sentenza adducendo che la
controparte ha giurato il falso; tuttavia si può impugnare la sentenza
contestando il requisito della semiplena probatio. Possiamo concludere che il
giudice ha un potere pieno per ciò che riguarda il deferimento del giuramento
suppletorio e la scelta della parte a cui effettuarlo.
Ora dobbiamo analizzare altri mezzi di prova utilizzati nella pratica:
L'art.118 c.p.c. disciplina l'ispezione: un mezzo di prova che può essere
- disposto d'ufficio dal giudice. L'ispezione può essere compiuta sulle persone
(sia come parti che come terzi) e sulle cose. Il giudice può disporre
l'ispezione, facendo riferimento ad altri mezzi chiesti dalle parti o che egli
stesso può disporre, solo se essa è indispensabile per conoscere i fatti di
causa non produrre. Una volta disposta l'ispezione se la parte si rifiuta di
sottoporre la propria persona o le proprie cose all'ispezione stessa il giudice,
da tale rifiuto, può desumere argomenti di prova; mentre se è che il terzo
che si rifiuta il suo comportamento non può avere riflessi in ordine al
processo (il terzo infatti non fa parte del processo) e la conseguenza sarà
una pena pecuniaria non superiore a 10.000 lire. L'ispezione viene disposta
dal giudice con un'ordinanza nella quale vengono fissati: il tempo, il luogo ed
il modo della relativa ispezione. All'ispezione il giudice può procedere
personalmente ma di solito si avvale di un consulente tecnico (soggetto
esperto nominato dal giudice) che deve redigere una relazione che il giudice
stesso valuterà.
L'art.210 c.p.c. disciplina l'esibizione: un mezzo di prova collegato (dalla
- stessa norma) all'ispezione e che consiste nell'ordine che il giudice può
rivolgere sia alla parte che al terzo con la differenziazione, rispetto
all'ispezione, che in questo caso l'ordine ha ad oggetto solo cose (di solito
documenti). L'esibizione può essere anche chiesta e sollecitata dalla parte.
Mentre l'ispezione rientrano tra i poteri ufficiosi del giudice, l'esibizione
richiede sempre l'istanza di parte (quindi il giudice non potrebbe mai d'ufficio
disporre l'esibizione di cose o di documenti). Un altro elemento di
differenziazione rispetto all'ispezione è che l'esibizione non deve essere
indispensabile ma è sufficiente che sia necessaria. Nella disciplina
dell'esibizione prevista una certa tutela del terzo, infatti l'art.211 c.p.c.
prevede che il giudice, quand'ordina l'esibizione ad un terzo, deve cercare di
conciliare l'interesse della giustizia con i diritti del terzo (quindi il giudice
prima di ordinare l'esibizione può disporre che il terzo sia citato in giudizio
assegnando alla parte istante un termine per provvedervi).
Un'altra prova molto importante è la consulenza tecnica che non può essere
- disposta per esentare la parte dal fornire la prova; infatti sono necessari
degli elementi di giudizio per poter disporre su di essi una consulenza
tecnica. La disciplina della consulenza tecnica è contenuta in parti diverse
del codice di procedura civile, ad esempio l'art.61 c.p.c. disciplina la figura
del consulente. La consulenza tecnica aiuta il giudice nella determinazione
di alcuni elementi della causa; essa può essere richiesta dalle parti ma può
anche essere disposta d'ufficio dal giudice, così come è previsto in un'altra
parte del codice di procedura civile e cioè negli artt.191 e seguenti. È
prevista anche la nomina di consulenti di parte, in tal caso all'attività del
consulente tecnico si affiancherà quella del consulente di parte che potrà
anche egli redigere una consulenza tecnica di parte. Per il fatto che il
consulente tecnico ricopre una posizione decisiva nella causa, valgono per
lui le stesse situazioni viste per il giudice (non vi dev'essere nessun
coinvolgimento nella causa o in rapporti con le parti); il consulente tecnico
infatti può sia astenersi che essere ricusato. L'attività del consulente tecnico
si conclude sempre con una relazione con cui si deve dar conto dell'attività
svolta e delle conclusioni. La relazione del consulente tecnico non vincola il
giudice nella decisione della causa; infatti avviene che il giudice recepisce le
conclusioni del consulente tecnico senza andare a riesaminare tutti i fatti
che hanno portato il consulente tecnico a quelle conclusioni. Tuttavia si
ritiene che nel momento in cui il giudice si discosta dalle conclusioni del
consulente tecnico deve motivare le ragioni per le quali ritiene di non seguire
tali conclusioni e manifestare un orientamento differente.
Fino adesso abbiamo esaminato le prove tipiche (il giuramento, la confessione,
la prova testimoniale, le scritture private e contabili, l'atto pubblico, la
consulenza tecnica, l'esibizione è l'ispezione), per quanto riguarda invece le
prove atipiche è la dottrina che negli ultimi anni ne ha individuate alcune. Si
ritiene che possono essere considerate prove atipiche: le dichiarazioni di terzi
formulate per iscritto (per molti non sono consentite perché si andrebbe a
violare il principio, in tema di testimonianza, secondo il quale il terzo per fare
delle dichiarazioni deve essere citato in giudizio e rendere tali dichiarazioni
oralmente); le prove che sono state assunte in maniera irregolare; le prove
raccolte in un processo differente (questa previsione vale però solo per il
processo penale in quanto lo prevede l'art.238 c.p.p.; mentre per i processo
civile l'art.310 c.p.c. stabilisce che le prove raccolte in un processo dichiarato
estinto valgono nel processo successivamente promosso sulla stessa domanda
come argomento di prova, teniamo presente che in quest'ultimo caso ci
troviamo nell'ambito della stessa domanda, dello stesso diritto). Possiamo dire
in conclusione che nel nostro sistema non c'è spazio per le prove atipiche, le
prove ammesse nel processo uno solo quelle previste nel codice civile e nel
codice di procedura civile.
Sempre nella fase istruttoria del processo ricorrono le presunzioni che trovano
loro disciplina positiva nel codice civile. Nel nostro ordinamento le presunzioni
possono essere: legali assolute, legali relative e semplici. L'art.2721 c.c.
descrive le presunzioni come quelle conseguenze che la legge o il giudice trae
da un fatto noto per risalire ad un fatto non noto.
Per quanto riguarda le presunzioni legali assolute il legislatore, poiché è
- probabile che un fatto sia indice di un altro fatto, finisce per trasformare il
fatto secondario da prova del fatto principale in fatto principale e quindi da
prova diventa più semplice. Qui le presunzioni hanno la funzione di facilitare
al livello processuale un adempimento probatorio.
Per quanto riguarda le presunzioni legali relative il legislatore da un fatto
- certo (costitutivo) presume l'esistenza di un altro fatto (secondario). Qui la
conseguenza al livello processuale è l'inversione dell'onere della prova, cioè
è la controparte edile provare l'inesistenza del fatto secondario (ad esempio
la proposta e l'accettazione si presumono conosciute al momento in cui
arrivano a destinazione; in questo caso bisogna dimostrare che anche se la
proposta è arrivata al destinatario questi non l'ha conosciuta; nell'esempio
specifico il fatto certo è che la proposta è giunta al destinatario ed il fatto
secondario, presunto, è che tale proposta è stata conosciuta).
Per quanto riguarda le presunzioni semplici, esse si hanno quando da più
- fatti si può risalire ad un fatto non noto; questa situazione secondo l'art.2729
c.c. viene conosciuta e decisa dal giudice con prudenza, infatti il giudice
deve ammettere solo le presunzioni gravi, precise e concordanti.
SOSPENSIONE
La sospensione è una pausa che si inserisce all'interno del processo è che
determina inevitabilmente un prolungamento dello stesso processo; tale pausa
dura il tempo necessario per eliminare quella situazione della determinata, cioè
dura fino a quando non venga ad essere emanata una decisione da parte dello
stesso giudice o da un altro giudice oppure in attesa che scada il termine fissato
dalla legge o dal giudice. Istituti diversi dalla sospensione sono l'interruzione e
l'estinzione del processo. L'interruzione è un istituto che opera in vista della
ricostituzione del contraddittorio ed ha la funzione di permettere la ripresa
regolare del processo. L'estinzione è sostanzialmente un modo diverso di
conclusione del processo, rispetto alla sentenza, ma piuttosto normale visto che
la metà dei tassi in Italia si concludono con l'estinzione del processo. A
differenza di due istituti suddetti la sospensione è una via propria crisi del
processo perché nel caso in cui si verifichi si ha un arresto del processo in
attesa che venga emanata un'altra decisione o che scada un termine. Pur
essendo diverse tra loro, queste tre situazioni sono state raggruppate dalla
dottrina sotto la stessa denominazione: "vicende anomale del processo".
L'interruzione a differenza della sospensione ha per oggetto un evento che si
esaurisce in un unico atto (la morte, la perdita della capacità giuridica, la
cancellazione dall'albo ecc.), quindi in quello stesso momento (o meglio dal
momento in cui la parte ha avuto conoscenza dell'interruzione) il processo può
riprende il suo corso (con la riassunzione); per la sospensione invece l'attesa è
maggiore. L'astensione un istituto pericoloso appunto perché determinando un
prolungamento del processo può incidere sulla durata ragionevole di cui
all'art.111 Cost. La sospensione del processo civile nel codice del 1865 era
prevista in alcune norme sparse, ma con codice del 1940 il legislatore ha
disciplinato (nell'ambito del capo 7° del libro 2°) i tre istituti di cui abbiamo detto
prevedendo inoltre quattro articoli sulla sospensione :
- l'art.295 c.p.c., sospensione necessaria;
- l'art.296 c.p.c., sospensione su istanza di parte;
- l'art.297 c.p.c., fissazione della nuova udienza dopo la sospensione;
- l'art.298 c.p.c., effetti della sospensione.
Il legislatore inoltre ha continuato a prevedere singole ipotesi di sospensione
sparse nei codici e nelle leggi. La moltitudine di norme e la presenza di una
sezione autonoma sulla sospensione non devono far pensare che la
sospensione stessa possa essere un istituto generale in quanto, oltre al fatto
che non può individuarsi una disciplina unitaria della sospensione ma solo delle
ipotesi, l'istituto in questione deve essere considerato un istituto eccezionale
per le cui norme non è possibile un'interpretazione analogica od estensiva ad
altre ipotesi previste dalla legge. La ragione di questa conclusione sta nel fatto
che la sospensione è un istituto contrario alla natura del processo che è fatto
per procedere ed arrivare quindi ad una conclusione senza violare peraltro il
principio costituzionale della durata ragionevole del processo (l'eccezionalità
della disposizione normativa determina l'impossibilità per l'interprete di
applicare l'istituto oltre i casi espressamente previsti dalla legge). Inizialmente la
cassazione ha sostenuto che la sospensione è un istituto eccezionale ma vi
sono dei casi in cui soggiace al potere discrezionale del giudice;
successivamente però la cassazione ha modificato il suo orientamento
ritenendo che la sospensione discrezionale non può essere ammessa in
funzione della previsione di un sistema di controllo contro il provvedimento di
cui all'art.295 c.p.c., la ragione di questo nuovo orientamento sta nel fatto che
con la riforma del 1990 vi è un potere di controllo che è affidato alla cassazione
stessa (infatti si è stabilito che il provvedimento di sospensione può essere
oggetto del regolamento di competenza dinanzi alla cassazione per accertare la
relazione di pregiudizialità). In sostanza anche la cassazione ha condiviso, alla
fine, la tesi della tassatività delle ipotesi di sospensione. Dobbiamo ora capire
se la presenza di tante ipotesi di sospensione rende possibile la loro
classificazione. Una classificazione è stata fatta dal giurista Liebman che parla
di sospensioni proprie e sospensioni improprie. Secondo questa classificazione
(ripresa da moltissimi autori): nelle sospensioni proprie rientrerebbe quella
prevista dall'art.295 c.p.c. (che si verifica quando vi è una relazione di
pregiudizialità) in quanto quella è una vera e propria sospensione, cioè ferma il
processo in attesa di una decisione che decisiva ai fini della causa; nelle
sospensioni improprie rientrerebbero quelle ipotesi per le quali nel processo si
presenta una questione che quel giudice non può conoscere e che deve essere
conosciuta da un altro giudice, in questo caso si hanno sospensioni improprie
perché il processo realtà non si sospende ma prosegua davanti ad un altro
giudice (tali ipotesi si avrebbero nei casi di: regolamento di competenza,
regolamento di giurisdizione, questione di legittimità costituzionale, rinvio
pregiudiziale alla corte di giustizia).
Alla tesi di Liebman sono state fatte alcune critiche, quindi questa
classificazione non sarebbe possibile perché:
non si saprebbe dove inquadrare le altre ipotesi di sospensione (quale ad
- esempio la sospensione per ricusazione del giudice);
non si può dire che nell'ipotesi di sospensioni improprie il processo persegue
- davanti ad un giudice complessivamente competente su quella questione,
infatti per quanto riguardala competenza e la giurisdizione il giudice di merito
ha perfettamente competenza sulla competenza sulla giurisdizione;
non si può qualificare come impropria la sospensione, infatti una volta che la
- si è dichiarata (qualunque sia la causa) il modo in cui si verifica è uguale in
tutti i casi, nel senso che il processo si sospende e non si possono compiere
atti (ciò che può prendere vita è solo una fase incidentale che non ha niente
a che fare con il merito della causa) quindi è sbagliato dire del processo
prosegue dinanzi ad un altro giudice.
Alla classificazione impropria suddetta è preferibile una classificazione in base
alla fonte, alla durata ed alla causa della sospensione.
Classificazione per fonte: sospensione legale - sospensione giudiziale -
sospensione amministrativa
La sospensione legale si verifica indipendentemente dal provvedimento del
giudice, in quanto è una sospensione che opera in conseguenza del
compimento (sospensione automatica) o del mancato compimento
(sospensione omissiva) di un atto ad opera delle parti. In questo caso il
provvedimento del giudice ha natura dichiarativa e non costitutiva, infatti se il
giudice non dovesse dichiarare la sospensione il processo sarebbe comunque
sospeso. Le ipotesi di sospensione legale sono:
art.48 c.p.c. in tema di regolamento di competenza (sospensione dal giorno
- del deposito dell'istanza in cancelleria);
art.52 c.p.c. in tema di ricusazione del giudice (sospensione dal giorno del
- deposito del ricorso di ricusazione);
- art.332, art.678, ...
La sospensione giudiziale si ha quando il giudice emana il provvedimento che
dichiara la sospensione; in questo caso è il provvedimento del giudice ad avere
l'effetto di sospendere processo, quindi tale provvedimento ha natura
costitutiva. All'interno della sospensione giudiziale bisogna fare una distinzione
tra: Sospensioni giudiziale vincolate quando il giudice è obbligato a pronunciare
- il provvedimento di sospensione nel momento in cui si verifica che ricorre la
fattispecie legale. Le ipotesi sono: l'art.295 c.p.c. (sospensione necessaria o
vincolata o obbligatoria); l'art.313 c.p.c. (sospensione in tema di querela di
falso); l'art.355 c.p.c.; l'art.367 c.p.c. (sospensione in tema di regolamento di
competenza). La sospensione giudiziale vincolata e la sospensione legale
hanno in comune il fatto che quando si verifica la fattispecie legale la
sospensione ci dev'essere (solo che in un caso è automatica nell'altro no).
Sospensioni giudiziale discrezionali quando il giudice non è obbligato a
- pronunciare il provvedimento di sospensione e quindi, oltre al compito di
verificare se vi è la ricorrenza della fattispecie legale, ha quello di valutare
l'opportunità o meno della sospensione. La sospensione giudiziale
discrezionale può aversi o d'ufficio, o su istanza di una parte, o su istanza di
tutte le parti (la sospensione per istanza di tutte le parti è difficile da aversi in
quanto l'attore ha interesse a che il processo vada avanti). La sospensione
discrezionale d'ufficio è prevista nell'art.337 c.p.c. che stabilisce che quando
l'autorità di una sentenza viene evocata in un diverso processo, questo può
essere sospeso se tale sentenza viene impugnata. La sospensione
discrezionale su istanza di tutte le parti è prevista dall'art.279 c.p.c. che
stabilisce che quando sia stato proposto appello immediato contro una delle
sentenze previste dal n.4 del 2° comma, il giudice istruttore, su istanza
concorde delle parti, qualora ritenga che i provvedimenti dell'ordinanza
collegiale siano dipendenti da quelli contenuti nella sentenza impugnata,
può disporre con ordinanza non impugnabile che l'esecuzione o la
prosecuzione dell'ulteriore istruttoria sia sospesa sino alla definizione del
giudizio di appello. La sospensione discrezionale su istanza di una parte è
prevista dall'art.129-bis delle disposizioni di attuazione del c.p.c. che
stabilisce che se vi è stato ricorso alla cassazione contro sentenza d'appello
che abbia riformato alcuna della sentenza prevista nel n.4 del 2° comma
dell'art.279 c.p.c., il giudice istruttore, su istanza della parte interessata,
qualora ritenga che i provvedimenti dati con ordinanza collegiale per
l'ulteriore istruzione della causa siano dipendenti da quelli contenuti nella
sentenza riformata, può disporre la sospensione.
La sospensione amministrativa è prevista dall’art.368 c.p.c.; tale sospensione si
ha quando vi è una causa sulla giurisdizione e la richiesta di decisione
sull’esistenza o meno della giurisdizione viene fatta dal prefetto. L’art.368 c.p.c.
fa riferimento all’art.41 e cerca di prevedere le ipotesi nelle quali la questione di
giurisdizione si pone ad opera del prefetto ma quando la pubblica
amministrazione non è posta in causa. Si ha che, quando la richiesta della
decisione viene fatta dal prefetto (che è intervenuto in ordine ad un certo diritto)
con decreto notificato alle parti in causa ed al procuratore della repubblica o al
procuratore generale (se stiamo davanti alla corte d’appello), il p.m. comunica il
decreto al capo dell’ufficio giudiziario, cioè al presidente del tribunale (e non al
giudice della causa) che sospende il processo con decreto (qui il provvedimento
di sospensione non è fatto dal giudice della causa ma dal capo dell’ufficio che è
quello che svolge anche funzioni di tipo amministrativo). Come possiamo
vedere, dal punto di vista della struttura la sospensione opera in modi differenti
e quindi è difficile considerarla un istituto unitario.
Classificazione per durata:
sospensione brevissima - sospensione breve - sospensione lunga -
sospensione lunghissima
sospensione discrezionale
La sospensione brevissima si aveva nel caso di regolamento di competenza
perché doveva durare 40 giorni più il tempo necessario per la riassunzione del
processo mentre la sospensione in questo caso dura 3 anni. Si ha invece la
sospensione brevissima sicuramente nel caso di ricusazione del giudice e per
la sospensione della legge sulle adozioni, perché in questi casi si decide subito.
La sospensione breve può durare più o meno 60 giorni o 4 mesi.
La sospensione lunga si ha quando dura un grado del giudizio, anche se tale
durata non è definibile a priori in quanto un grado può durare 1 anno, 2 anni o
anche 6 anni. L'art.279 c.p.c. dice: "dura per tutto il giudizio d'appello"; mentre
l'art.367 c.p.c. dice: "dura il tempo necessario per avere la sentenza della
cassazione sulla giurisdizione".
La sospensione lunghissima si ha quando dura quanto un processo (1° grado,
grado d'appello ed eventuale ricorso in cassazione); in questo caso quindi la
sospensione può durare anche 10 anni (se tanti sono gli anni per avere una
sentenza passata in giudicato, tanti anni durerà la sospensione).
La sospensione discrezionale dipende dal giudice che quindi così come può
disporla d'ufficio, allo stesso modo può d'ufficio revocarla. Quindi in questo caso
anche la durata della sospensione è rimessa alla discrezionalità del giudice.
Classificazione per causa:
contestata potestas iudicandi del giudice - incompetenza su questione
incidentale pregiudiziale
pendenza di altro procedimento - sospensione differimento
La contestata potestas iudicandi del giudice è una categoria che serve a
mettere insieme tutte le ipotesi in cui è in discussione il potere del giudice di
conoscere una determinata causa; quest'ipotesi ci consente di collocare in
questa categoria di sospensione non solo le sospensioni determinate dal
regolamento di competenza, dal regolamento di giurisdizione richiesto dalle
parti o dal prefetto, ma anche per esempio l'istanza di ricusazione del giudice
poiché anche in questo caso si contesta al giudice il potere di giudicare la
causa.
La incompetenza su questione incidentale pregiudiziale è una categoria di
sospensioni che si verificano. Quando il giudice adito sulla domanda principale
non può conoscere la questione che gli è stata sottoposta (questione di natura
incidentale o pregiudiziale). In questa categoria possiamo collocare ad esempio
le ipotesi in cui è previsto il rinvio pregiudiziale alla corte di giustizia, l'eccezione
di legittimità costituzionale, le sospensioni determinate dalle questioni relative
alla querela di falso.
La pendenza di altro procedimento è un'altra categoria di sospensioni che
comprende: le sospensioni dovute alla pendenza di un altro procedimento che
può essere non solo un procedimento di natura pregiudiziale ma anche un
procedimento di natura amministrativa (le ipotesi sono ad esempio quelle di cui
all'art.279 c.p.c., all'art.129-bis e all'art.133-bis delle disposizioni di attuazione
del c.p.c. che prevedono la sospensione del processo per la pendenza di un
giudizio di impugnazione).
La sospensione differimento è l'ultima categoria di sospensione che fa
riferimento alla causa; in essa vengono raggruppate le ipotesi nelle quali la
sospensione è disposta perché bisogna attendere lo spirare di un termine
(l'art.296 c.p.c. ad esempio prevede la sospensione concordata su istanza delle
parti che può essere richiesta per quattro mesi). Possiamo concludere che la
sospensione esiste in moltissimi casi e se non è possibile ridurre tale fenomeno
ad unità è invece possibile raggruppare nella ipotesi in base criteri che abbiamo
visto (fonte, durata e causa). Le ipotesi di sospensione sono l'effetto di un
determinato istituto, quindi per determinare l'ambito di applicazione delle stesse
basta far riferimento ai singoli istituti. Per quanto riguarda però gli artt.295 e 337
c.p.c. non è chiaro quale sia l'ambito di applicazione.
Sia in dottrina che in giurisprudenza ci sono opinioni diverse circa l’ambito di
applicazione dell’art.295 c.p.c. e dell’art.337 c.p.c. L’art.295 c.p.c. dice che il
giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o un
altro giudice deve risolvere una controversia dalla cui definizione dipende la
decisione della causa. Dottrina e giurisprudenza sono concordi sul fatto che
questa norma fa riferimento alla relazione di pregiudizialità (l’unico contrario è
Satta) quindi l’ambito di applicazione di tale norma è la pregiudizialità. La
pregiudizialità trova la sua ragione nel fatto due rapporti giuridici siano in
condizione di dipendenza l’uno dall’altro e quindi lo saranno anche i processi
che hanno ad oggetto tali rapporti giuridici. Secondo gran parte della dottrina
anche l’art.337 c.p.c. (quando l’autorità di una sentenza è invocata in un diverso
processo questo può essere sospeso se tale sentenza viene impugnata) si
occupa di pregiudizialità. Secondo pochi in questa norma rientra anche il caso
in cui venga invocata l’autorità di mero fatto di una sentenza; tesi in realtà
inaccettabile anche in funzione del fatto che nel nostro ordinamento il
precedente giurisprudenziale non è vincolante per il giudice quindi se il giudice
potrebbe discostarsi dal precedente non ha senso sospendere il processo,
perché la sospensione deve essere invece diretta a far si che il giudice
recepisca quello che dice la sentenza; in sostanza l’art.337 c.p.c. quando parla
di autorità di una sentenza si riferisce ad una sentenza passata in giudicato,
perché il giudice deve essere vincolato da quella decisione (altrimenti non c’è
bisogno di sospendere il processo). Il problema circa queste norme è sorto
perché l'art.295 c.p.c. prevede una sospensione necessaria mentre l'art.337
c.p.c. prevede una sospensione discrezionale e tale differenza sta ad indicare
che queste norme pur operando nell'ambito della pregiudizialità non possono
operare nello stesso preciso settore; infatti ci sono due modi distinti in cui
funziona la pregiudizialità che si può manifestare all'interno di uno stesso
processo o all'esterno. La pregiudizialità interna si manifesta appunto all'interno
del processo con il fenomeno della questione pregiudiziale che si trasforma o
per legge o per domanda di parte in controversia pregiudiziale (in questo caso è
all'interno dello stesso processo che nasce la necessità che si decida su un
rapporto pregiudiziale). La pregiudizialità esterna si ha nel momento in cui fin
dall'inizio pendono davanti a giudici diversi la causa sul rapporto pregiudiziale e
quella sul rapporto pregiudicato (questo caso la relazione di pregiudizialità si
manifesta di dall'esterno, cioè tra due processi autonomamente promossi fin
dall'inizio). Circa l'inquadramento dei due articoli che stiamo esaminando
nell'ambito dei due tipi di pregiudizialità ci sono varie tesi.
Secondo la prima tesi l’art.295 c.p.c., quindi la sospensione necessaria, si
- applica sia in caso di pregiudizialità interna che in caso di pregiudizialità
esterna quando non è possibile realizzare la trattazione simultanea delle
cause (ad esempio il giudice non è competente per ragioni di rito o di
materia nel caso di pregiudizialità interna oppure i due processi sono ad un
grado di istruzione differente per ciò non è possibile riunirli). Questa tesi è
estensiva dell’art.295 c.p.c. Per quanto riguarda l’art.337 c.p.c. questa prima
tesi stabilisce che tale articolo si applica, sempre in caso di pregiudizialità,
quando viene prodotta in giudizio una sentenza passata in giudicato ma
impugnata in via straordinaria.
Secondo la seconda tesi l’art.295 c.p.c. si applica in caso di pregiudizialità
- interna quando non è realizzabile la trattazione simultanea, mentre non si
applica in caso di pregiudizialità esterna perché l’alternativa alla riunione
(che ad esempio non può aversi se i processi si trovano ad un grado
istruttorio diverso) non può essere la sospensione (a causa dell’effetto di
rallentamento di uno dei processi, maggiore di quello che avrebbe la
riunione) ma deve essere la prosecuzione autonoma dei due processi.
Secondo questa tesi l’art.337 c.p.c. ha lo stesso ambito di applicazione della
prima tesi, cioè si applica, sempre in caso di pregiudizialità, quando viene
prodotta in giudizio l’autorità di una sentenza passata in giudicato ma
impugnata in via straordinaria (in questo caso il giudice può sospendere il
processo o applicare quella sentenza).
Secondo la terza tesi l’art.295 c.p.c. non si applica in caso di pregiudizialità
- esterna perché quando non è possibile riunire i processi pendenti in sedi
diverse, l’alternativa non è la sospensione ma la prosecuzione autonoma dei
processi; mentre per quanto riguarda la pregiudizialità interna l’articolo in
questione si applica solo quando la trasformazione della questione
pregiudiziale in controversia pregiudiziale avviene per legge e sempre che
non sia possibile la trattazione simultanea. Invece la domanda di
accertamento incidentale, cioè l’espressa richiesta di una delle parti di
trasformare la questione in controversia pregiudiziale, si ha nel momento in
cui è possibile la trattazione simultanea. La regola generale della
pregiudizialità è che il giudice la conosce incidenter tantum (con effetti
limitati a quel giudizio). Anche in questa tesi l’art.337 c.p.c. si applica
quando viene prodotta in giudizio una sentenza passata in giudicato ma
impugnata in via straordinaria.
La soluzione migliore è che l’art.295 c.p.c. si applichi solo in caso di
pregiudizialità interna e non anche in caso di pregiudizialità esterna, questo
perché bisogna preferire l’interpretazione più aderente al principio sancito
dall’art.111 Cost. (il principio della ragionevole durata del processo); in sostanza
non sospensione ma prosecuzione autonoma dei processi. Bisogna seguire
l’interpretazione più restrittiva dell’art.295 c.p.c. (non si applica alla
pregiudizialità esterna) in tal modo alla fine dei due processi potremmo avere
decisioni non conciliabili ma non di certo un contrasto di giudicato perché
l’oggetto delle cause è diverso (ad esempio una causa ha ad oggetto le
mansioni e l’altra la retribuzione).
In generale durante la sospensione del processo non si possono compiere atti,
questi se vengono commessi sono nulli. Nel caso di sospensione automatica,
se il giudice compie degli atti questi saranno nulli. Nel caso poi di sospensione
giudiziale se si verifica che il giudice, che dovrebbe sospendere il processo, non
lo fa e compie degli atti, questi atti sono nulli perché il giudice ha violato la
norma che lo obbligava a sospendere il processo. L’art.48 c.p.c., in riferimento
al regolamento di competenza, stabilisce che il giudice può autorizzare il
compimento di atti urgenti. Sia la dottrina che la giurisprudenza ritengono che
questo articolo abbia una valenza generale quindi valga per tutte le ipotesi di
sospensione; questo perché se il legislatore ha permesso il compimento di atti
urgenti per un tipo di sospensione brevissima (come quella che si ha nel caso di
regolamento di competenza) a maggior ragione ciò dovrebbe essere possibile
nelle sospensioni più lunghe. Atti urgenti sono ad esempio le ordinanze
anticipatorie di condanna. Sorgono dei dubbi sul giudice competente a
dichiarare il provvedimento di sospensione; se però prendiamo come punto di
riferimento l’art.295 c.p.c. che dovrebbe disporre la dichiarazione di
sospensione da parte del collegio (perché è il collegio che al momento della
decisione valuta la dipendenza della causa pregiudicata dalla causa
pregiudiziale) ma non prevede il meccanismo di trasferimento della causa
dall’istruttore al collegio affinché questo pronunci il provvedimento di
sospensione, possiamo affermare che la posizione migliore è quella di ritenere
che la sospensione sia sempre dichiarata dal giudice istruttore. Circa la forma
del provvedimento di sospensione il legislatore non è chiaro, tuttavia in quanto
si tratta di un provvedimento che non ha un contenuto decisorio (non incide sul
merito della causa) ma ha natura ordinatoria possiamo dire che la forma
appropriata è quella dell’ordinanza. Per il provvedimento in questione si parla di
ordinanza non impugnabile, ma i problemi sorgono circa l’esistenza o meno di
una forma di controllo su tale provvedimento. Fino al 1990 non esisteva nessun
tipo di controllo, dopo il legislatore ha previsto la possibilità di sottoporre il
provvedimento di sospensione del processo (ai sensi dell’art.295 c.p.c. e solo
quello) al regolamento di competenza (infatti l’art.42 c.p.c. parla anche di
provvedimenti di sospensione). Una volta cessata la causa di sospensione del
processo, questo deve essere riassunto. Dal giorno in cui le parti vengono a
conoscenza del venir meno della causa di sospensione, queste hanno sei mesi
per riassumere il processo.
ORDINANZE ANTICIPATORIE DI CONDANNA
Nel nostro ordinamento ci sono dei provvedimenti che dovrebbero scoraggiare il
convenuto dall’assumere determinati atteggiamenti dilatori; si tratta di
provvedimenti che determinano un’accelerazione del processo. Nel codice di
procedura civile del 1940 questi provvedimenti avevano uno scarso rilievo
perché erano previsti per situazioni particolari, non esistevano norme generali.
Nel 1973 il legislatore ha introdotto nel processo del lavoro due tipi di ordinanze
anticipatorie di condanna disciplinate dall’art.423 c.p.c. Si tratta di
provvedimenti che anticipano il contenuto dei provvedimenti definitivi. Quella
prevista al 1° comma dell’art.423 c.p.c. è l’ordinanza di condanna al pagamento
di somme di denaro non contestate; quella prevista al 2° comma dell’art.423
c.p.c. è l’ordinanza di condanna al pagamento di somme relativamente ad una
parte della causa per la quale è stata raggiunta la prova. Queste due ordinanze
hanno presupposti ed ambiti di applicazione diversi.
L’ordinanza di cui al 1° comma dell’art.423 c.p.c. è un’ordinanza che può
1° essere chiesta:
da tutte le parti (sia l’attore che il convenuto) e la richiesta non necessita di
- particolari formalità (può essere fatta anche oralmente);
in ogni stato del giudizio (questo significa che ci troviamo nell’ambito del 1°
- grado ed in quest’ambito in qualsiasi momento, tanto nella fase iniziale
quanto in quella finale, può essere chiesta questa ordinanza);
anche durante la sospensione del processo, perché viene considerata un
- atto urgente.
Questa ordinanza inoltre costituisce titolo esecutivo, cioè la parte che ha
ottenuto il provvedimento può procedere all’esecuzione forzata. Nel momento in
cui viene pronunciata la sentenza definitiva l’ordinanza viene assorbita dalla
sentenza stessa. Per quanto riguarda l’oggetto della non contestazione il
legislatore vuole riferirsi non ai fatti bensì al diritto di credito, cioè alle somme di
denaro. La non contestazione proprio perché ha ad oggetto le somme di denaro
deve essere espressa e non può essere desunta da un comportamento
omissivo quale il silenzio (un comportamento incompatibile con la volontà di
opporsi). Collegato a questo problema è quello della contumacia e cioè se la
contumacia vada intesa come non contestazione; a tal proposito in dottrina vi
era: chi riteneva che la contumacia non valeva come non contestazione (era
necessaria la non contestazione espressa) e chi riteneva che avendo come
oggetto i fatti, la contumacia poteva essere considerata non contestazione. La
cassazione ha detto che la non contestazione deve essere espressa e la
contumacia del convenuto non va considerata non contestazione; in caso di
contumacia del convenuto non si può emettere l’ordinanza del 1° comma
dell’art.423 c.p.c. Ci si chiede poi che fine faccia l’ordinanza in questione se il
processo si estingue, cioè ci si chiede se sopravvive all’estinzione del processo
o no; a tal proposito ci sono sostenitori di entrambe le ipotesi. I problemi di
questo tipo di ordinanza si possono risolvere con l’art.186-bis c.p.c.
L’ordinanza di cui al 2° comma dell’art.423 c.p.c. stabilisce che “il giudice, su
2° istanza del lavoratore, può disporre in ogni stato del giudizio con ordinanza il
pagamento di una somma, quando ritenga il diritto accertato e nei limiti della
quantità per cui ritiene già raggiunta la prova”. Qui il presupposto è diverso
perché si tratta di una valutazione che il giudice compie in ordine ai fatti,
ritenendo poi che per una parte del diritto sia già stata raggiunta la prova.
Mentre l’ordinanza del 1° comma può essere chiesta da tutte le parti del
processo, l’ordinanza del 2° comma può essere chiesta solo dal lavoratore. Il
datore di lavoro, nel caso in cui sia già raggiunta la prova per una parte del
diritto da lui vantato, può chiedere solo una sentenza non definitiva di condanna
generica con provvisionale ma non può chiedere questa ordinanza; nel
processo ordinario la sentenza non definitiva di condanna con provvisionale è
uguale (equivale) all’ordinanza del 2° comma. Questa seconda ordinanza può
essere chiesta in ogni stato del giudizio ed anche durante la sospensione, non
è revocabile in corso di causa ma viene ad essere revocata solo dopo che si è
avuta la sentenza definitiva che l’assorbe, è titolo esecutivo.
Queste ordinanze introdotte nel 1973 non hanno avuto una grande applicazione
del processo del lavoro perché per quanto riguarda le somme norme contestate
è sempre caduto che la parte abbia contestato le somme per evitare che il
giudice che mettesse l'ordinanza del 2° comma. Nel 1990 nel processo
ordinario di cognizione sono state introdotte le ordinanze degli artt.186-bis e
186-ter c.p.c. e nel 1995 è stata introdotta un altra ordinanza che viene emessa
alla fine del processo al solo scopo di sostituire la sentenza finale. Grazie
all'art.186-bis c.p.c. si possono risolvere quei problemi con l'art.423 c.p.c. (effetti
della estinzione del processo sull'ordinanza, se è possibile revocarla o
modificarla durante il corso del processo, la contumacia del convenuto) perché
il legislatore è stato più chiaro.
L'art.186-bis c.p.c. ha ad oggetto l'ordinanza anticipatoria di condanna per il
pagamento di somme non contestate, perciò essa ha lo stesso ambito di
applicazione del 1°comma dell'art.423 c.p.c. Il presupposto di questa ordinanza
è la non contestazione delle somme (uguale a quello dell'ordinanza di cui al 1°
comma dell'art.423 c.p.c.). Anche questa ordinanza richiede l'istanza di parte
(può essere sia l'attore che il convenuto in caso di domanda riconvenzionale) e
la richiesta non necessita di alcuna formalità. Il giudice che deve emettere
l'ordinanza è sempre giudice istruttore anche quando la causa è collegiale.
Anche in questo tipo di ordinanza la non contestazione ha ad oggetto un diritto
di credito, le somme e non i fatti per questo la non contestazione deve essere
espressa. Per quanto riguarda il problema della contumacia, siccome l'art.186-
bis c.p.c. dice che la non contestazione deve provenire dalle parti costituite la
contumacia non può valere come non contestazione. L'ordinanza costituisce
titolo esecutivo è conserva la sua efficacia in caso di estinzione del processo.
L'ordinanza sopravvive all'estinzione non questa efficacia di giudicato, essa ha
solo efficacia esecutiva e può essere revocata con un autonoma domanda. Il
giudice può disporre l'ordinanza fino al momento delle precisazioni delle
conclusioni. Questa norma non indica il termine iniziale, che può essere
individuato nel giorno in cui la parte si è costituita in giudizio non contestando.
L'art.186-bis c.p.c. non dice in ogni stato dal processo, c'è chi ritiene che tale
ordinanza non può essere emessa in caso di sospensione. Per il professore
questa ordinanza può essere essa anche in caso di sospensione, in ogni stato
del processo; quindi se la norma non lo dice è perché vi è stata una semplice
dimenticanza del legislatore. Questa ordinanza è revocabili è modificabili in ogni
momento del processo (così si risolve il problema sorto con il 1° comma
dell'art.423) e viene assorbita dalla sentenza finale. L'art.186-bis c.p.c. lascia
irrisolto il problema del controllo e cioè il problema di ciò che la parte può fare
se si è vista impugnare il pagamento di una somma di denaro nonostante
l'abbia contestata; c'è stato in questo caso un errore del giudice che valuta
come non contestazione un comportamento delle parti. L'ordinanza dell'art.186-
bis c.p.c. non è impugnabile, la corte di cassazione ha detto che quest'articolo
non viola l'art.24 Cost. perchè è un'ordinanza provvisoria, revocabile e
modificabile, destinata tuttavia ad essere assorbita dalla sentenza finale. La
cassazione ha sbagliato nel porre da un lato la revoca della modifica e dall'altro
l'impugnazione, perché la revoca la modifica vengono fatte dallo stesso giudice
mentre l'impugnazione è un controllo fatto da un altro giudice (l'impugnazione
offre una garanzia maggiore). Comunque, anche se l'ordinanza non è definitiva,
essa è decisoria incide sul diritto. Quindi una parte della dottrina dove della
legittimità costituzionale dell'art.186-bis c.p.c. nella parte in cui non prevede
l'impugnabilità, cioè una forma di controllo.
L'art.186-ter c.p.c. ha ad oggetto l'ordinanza di condanna al pagamento di
somme nei limiti in cui è stata raggiuntala prova del diritto vantato. L'articolo in
questione possa andare affine al 2° comma dell'art.423 c.p.c. ma in realtà
l'art.186-ter c.p.c. fa riferimento alle prove in generale. Quindi nel processo del
lavoro alla base di questa ordinanza vi può essere anche una testimonianza
mentre nel processo ordinario sono richieste le prove documentali e se vi sono
attore diverse da quelle documentali si dovrà fare ricorso alla sentenza di
condanna generica e non all'ordinanza di cui all'art.186-ter c.p.c. L'ordinanza in
questione ha ad oggetto somme di denaro e richiede prove scritte, quindi vi è
un'affinità tra questa ordinanza ed il decreto ingiuntivo (anche quest'ultimo è
diretto ad ottenere il pagamento di una somma di denaro, vi si ha la prova
scritta del credito). La differenza rispetto al decreto ingiuntivo è che quest'ultimo
è più facile da ottenere rispetto l'ordinanza. Infatti il creditore basta che abbia
una prova scritta del suo credito e potrà chiedere il decreto ingiuntivo; il
creditore viene ulteriormente agevolato perché vi è un ampliamento del
concerto di prova scritta (nel procedimento ingiuntivo: è sufficiente che la
scrittura privata sia solo sottoscritta e non anche riconosciuta o autenticata, le
scritture contabili dell'imprenditore valgono anche nei confronti di chi non è
imprenditore, i liberi professionisti possono ottenere il decreto ingiuntivo sulla
base delle proprie fatture). Infine il decreto ingiuntivo si ottiene inaudita altera
parte, cioè senza ascoltare la controparte. Il presupposto per ottenere
l'ordinanza di cui all'art.186-ter c.p.c. è più rigoroso rispetto a quello per
ottenere il decreto ingiuntivo, infatti tale ordinanza non può essere chiesta a
tutela dei crediti dei liberi professionisti, dello stato e dipendenti pubblici che
possono invece ottenere il decreto ingiuntivo.
L'ordinanza inoltre viene emessa in contraddittorio. Ci si chiede perché sia stata
introdotta questa ordinanza dal momento che c'era già il decreto ingiuntivo. In
effetti tale ordinanza è poco utilizzata, può essere utilizzata:
Quando il convenuto risiede all'estero (il decreto ingiuntivo invece non può
- essere chieste nei confronti di un soggetto residente all'estero).
Quando il debitore promuove una domanda di accertamento negativo,
- agendo prima del creditore. In questo modo il debitore promovendo un
giudizio ordinario preclude al creditore la strada del decreto ingiuntivo
perché esiste già un processo ordinario è il creditore nel giudizio può
proporre una domanda riconvenzionale per chiedere l'ordinanza di cui
all'art.186-ter c.p.c. se è munito di prova scritta del suo diritto di credito.
Quando la prova scritta non è preesistente, si forma cioè nel corso del
- processo.
Per questa ordinanza è necessaria l'istanza di parte che non richiede alcuna
formalità. Viene indicato il termine finale (fino al momento delle conclusioni) non
anche il termine iniziale che può essere individuato nella prima udienza di
comparizione. Non è richiestala costituzione delle parti e perciò essa può
essere resa anche in caso di contumacia del convenuto. L'oggetto che il
pagamento o la consegna di somme o di cose mobili (quindi lo stesso oggetto
del decreto introduttivo). Competente ad emettere l'ordinanza è il giudice
istruttore. È richiestala prova scritta: atto pubblico o scrittura privata sottoscritta
e riconosciuta o autenticata. Inoltre l'art.186-ter c.p.c. richiamando l'art.634
c.p.c. riconosce all'imprenditore l'agevolazione di utilizzare le proprie scritta
contabili anche nei confronti di chi non è imprenditore. L'ordinanza in questione
può essere emessa in ogni stato del processo ed anche durante la sospensione
del processo. Tale ordinanza può essere dichiarata provvisoriamente esecutiva
quando:
il credito è fondato su una prova scritta qualificata (cambiale, titolo di credito)
- o è necessario dimostrare che vi è un pericolo nel ritardo;
il convenuto si è costituito e non porta delle prove scritte a fondamento della
- sua difesa.
Questa ordinanza viene dichiarata provvisoriamente esecutiva quando si
verifica una delle due ipotesi. Se la parte ha disconosciuto la scrittura privata o
ha prodotto querela di falso l'ordinanza non ha la sua provvisoria esecutività. Se
il convenuto è contumace l'ordinanza gli deve essere notificato personalmente,
in tal caso si ingiunge alla parte di costituirsi entro 20 giorni dalla notifica
altrimenti l'ordinanza diventa esecutiva ai sensi dell'art.647 c.p.c., cioè essa
diventa definitiva e l'attore non avrà più interesse alla prosecuzione del
processo. Questa ordinanza dichiarate esecutiva, costituisce titolo per
l'iscrizione di ipoteca giudiziale, a differenza dell'ordinanza di cui all'art.186-bis
c.p.c. che è solo titolo esecutivo. L'ordinanza ex art.186-ter c.p.c. è revocabile e
modificabile come l'ordinanza ex art.186-bis c.p.c., mentre il decreto ingiuntivo
non è revocabile e modificabile, può essere solo revocato con una sentenza
finale risiede di opposizione. Se il processo si estingue l'ordinanza dell'art.186-
ter c.p.c. conserva efficacia non solo esecutiva ma anche definitiva (come il
decreto ingiuntivo) è non può più essere messa in discussione a differenza
dell'ordinanza dell'art.186-bis c.p.c. che conserva solo efficacia esecutiva.
L'art.186-quater c.p.c. è stato introdotto nel 1995 e la sua funzione era quella di
accorciare i tempi del processo. All'epoca il giudice istruttore dopo la fase
istruttore rimetti alla causa al collegio per la decisione e normalmente la
decisione veniva emessa dopo molto tempo; allora il legislatore penso di
introdurre un'ordinanza che il giudice può ammettere al termine dell'istruzione
per evitare il passaggio al collegio. L'art.186-quater c.p.c. dice "esaurita
l'istituzione", quindi il giudice ammette questa ordinanza al termine
dell'istruzione; è questo termini iniziale. Ma la fase istruttoria può dirsi esaurita
al momento delle precisazioni delle conclusioni. Il giudic che competente ad
emettere questa ordinanza è il giudice istruttore e proprio per questo tale
ordinanza non potrà più essere pronunciata quando la causa è passata nelle
mani del collegio per la decisione (dies a quem). È richiesta l'istanza della parte
che ha proposto la domanda di condanna e non di una parte qualsiasi. La
richiesta non richiede particolari formalità. La parte che ha proposto la
condanna può essere sia l'attore che il convenuto mediante una domanda
riconvenzionale. L'azione che può dare vita all'ordinanza dell'art.186-quater
c.p.c. è solo quella di condanna non anche quelle costitutive o di accertamento.
Una volta presentata l'istanza il giudice deve rispondere all'istanza e poi
deciderà se ammetterla (nel caso in cui ritiene sia stata raggiuntala prova
dell'esistenza del diritto) o rigettarla. Abbiamo un'ordinanza con cui il giudice
accoglie o rigetta l'istanza ma questa ordinanza non è definitiva, cioè il
processo deve andare avanti per concludersi con sentenza. Questa ordinanza è
titolo esecutivo ed è revocabile con la sentenza che definisce il processo,
perché non può continuare ad esistere tale ordinanza se viene pronunciata la
sentenza. Il legislatore, per evitare la sentenza, ha dato alla parte che ha subito
l'ordinanza di condanna e a cui sia stato notificato l'atto di precetto la possibilità
di rinunciare alla sentenza è di potersi accontentare dell'ordinanza. L'ordinanza
si è trasformata in una sentenza definitiva. Se processo si estingue
quell'ordinanza di cui all'art.186-quater c.p.c. acquista l'efficacia di una sentenza
impugnabile. Il soccombente intanto rinuncia alla sentenza perché vuole al più
presto impugnare quell'ordinanza-sentenza per ottenere dal giudice d'appello la
sospensione dell'esecuzione dell'ordinanza che ha l'efficacia di una sentenza.
In questo modo si ha un risparmio di tempo perché il giudice non dovrà
pronunciare la sentenza (ma questo avviene solo se soccombente rinuncia alla
sentenza). Questa ordinanza è pericolosa proprio per colui che la chiede ed
infatti quasi mai l'attore chiede questa ordinanza tranne quando la prova è
talmente chiara che il giudice non sbagliare. Questa ordinanza dal punto di vista
pratico non ha avuto un grosso risultato perché l'attore una volta giunto al
momento delle conclusioni, cioè quasi alla fine del processo, attenderà la
sentenza non chiederà quasi mai l'ordinanza perché la parte vorrà sapere il
ragionamento fatto dal giudice (ricordiamoci che la sentenza è motivata mentre
l'ordinanza è succintamente motivata).
L'ordinanza di cui all'art.186-bis c.p.c. e quella di cui all'art.186-ter c.p.c. sono
ordinanze che possono essere emesse fino al momento delle conclusioni
(termine ultimo) e che non intendono sostituirsi alla sentenza ma che anticipano
quella che sarà la decisione finale del giudice (tali ordinanze verranno assorbite
dalla sentenza). L'ordinanza di cui all'art.186-quater c.p.c. è un'ordinanza che
avrebbe dovuto sostituire la sentenza, essa può essere emessa alla fine
dell'istruttoria, quindi dal momento delle conclusioni in poi (termini iniziale),
quando non è possibile chiedere ne l'ordinanza di cui all'art.186-bis c.p.c. ne
quella di cui all'art.186-ter c.p.c.
Estinzione del processo
L'estinzione del processo è un modo di conclusione del processo stesso
diverso dalla pronuncia della sentenza di merito definitiva. Questo non è un
modo eccezionale perché più del 50% dei processi si conclude per estinzione
senza arrivare alla sentenza. L'estinzione è un istituto che è stato introdotto nel
processo civile nel 1940, prima infatti esiste un istituto diverso che era la
perenzione (se nessuna delle parti poneva in essere un atto processuale in un
periodo di tempo di tre anni e processo si estingue della con una sentenza che
dichiarava la perenzione del processo (l'efficacia di tale istituto era la stessa di
quella dell'estinzione). Le cause dell'estinzione sono due:
la rinuncia agli atti del processo di cui all'art.306 c.p.c.;
- l'inattività delle parti di cui all'art.307 c.p.c.
-
La rinuncia agli atti del processo (art.306 c.p.c.) si ha quando la parte rinuncia
esclusivamente all'attività processuale; questa sua dichiarazione non ha
nessuna efficacia a livello di diritto perché si può nuovamente riproporre la
domanda. Questa ipotesi si ha per esempio quando la parte si accorge di aver
proposto male la domanda (di aver sbagliato) e allora rinuncia agli atti del
giudizio oppure può aversi un accordo esterno. Se la parte rinuncia diritto non si
ha l'estinzione del processo, ma un procedimento (non previsto dal legislatore
non ma affermatosi nella pratica), cioè la cessazione della materia del
contendere; procedimento questo con il quale il giudice dichiara che non c'è più
controversia perché la parte rinuncia al diritto. La rinuncia agli atti deve
provenire personalmente dalla parte o da un procuratore speciale. La rinuncia
deve essere accettata dalla controparte che ha interesse alla prosecuzione, se
non viene accettata da rinuncia non ha effetto, cioè non determina l'estinzione.
L'accettazione deve provenire direttamente dalla parte o da un procuratore
speciale. Se il convenuto accettala rinuncia il giudice con ordinanza dichiara
l'estinzione; mentre se il convenuto non l'accetta il processo va avanti. La
rinuncia agli atti del processo è un istituto previsto anche in cassazione (anzi in
cassazione non si ha l'estinzione per inattività delle parti), infatti il ricorrente può
rinunciare al ricorso male la rinuncia al ricorso ha l'effetto di far passare in
giudicato la sentenza d'appello. Gli effetti della rinuncia sono diversi a seconda
del grado in cui viene effettuata: se la rinuncia avviene in primo grado del
processo si estingue e le cose tornano come prima perché si può riproporre la
domanda; se invece la rinuncia avviene in giudizio di impugnazione l'affetto è il
passaggio in giudicato della sentenza impugnata. Il giudice dichiara l'estinzione
con ordinanza. Le spese processuali sono a carico della parte che ha
rinunciato, a meno che non ci sia tra convenuto e attore un accordo. L'inattività
delle parti (art.307 c.p.c.) è un istituto che nel 1940 era disciplinata
diversamente da oggi. Infatti nel 1940 l'estinzione poteva essere dichiarata
d'ufficio dal giudice una volta che si è verificato l'evento estintivo. Per il
compimento degli atti del processo ad opera delle parti erano previsti tempi
molto ristretti. Nel 1950 si modificarono alcuni aspetti di questo istituto e si ebbe
che:
L'estinzione non può più essere rilevata d'ufficio dal giudice ma è necessaria
- l'eccezione di parte;
Risultano allungati i tempi per il compimento di alcune attività (ad esempio in
- caso di sospensione o interruzione del processo la riassunzione, se si vuole
evitare che il processo si estingua, deve essere fatta entro sei mesi, mentre
prima doveva essere fatta entro un mese).
È stato introdotto un istituto nuovo che la cancellazione della causa dal ruolo
- (cioè in alcuni casi, se si ha l'inattività delle parti il processo non si estingue
ma si ha la cancellazione della causa dal ruolo, se poi le parti non
riassumono il processo entro un anno solo allora il processo si estingue; ad
esempio se nessuna delle parti compare all'udienza il giudice rinvia la causa
ad altro udienza ma se neanche a questa udienza le parti compaiono il
giudice di ordine alla cancellazione della causa dal ruolo dopodiché le parti
hanno un anno di tempo per riassumere il processo, se lo riassumono il
processo riprende corso altrimenti si estingue).
L'inattività delle parti si ha quando la parte non compie una determinata attività
prevista dalla legge nel termine anch'esso previsto dalla legge (ad esempio la
parte non riassume il processo sospeso entro se mesi, art.181 c.p.c.) oppure
quando la parte non adempie ad un ordine del giudice (ad esempio l'ordine di
integrazione del contraddittorio, ipotesi di nullità della citazione e della
notificazione in cui il giudice l'ordine la rinnovazione). Con la riforma del 1950
l'estinzione opera di diritto ma è necessaria l'eccezione di parte. Questa
disciplina non fa una piega se consideriamo l'ipotesi in cui il termine viene
previsto dalla legge (ad esempio la riassunzione del processo sospeso deve
avvenire entro sei mesi e se la parte non riassume il processo la controparte
eccepire l'estinzione, se lo fa nel primo atto difensivo il giudice dichiara
l'estinzione, mentre se non lo fa quel vizio non potrà più essere rilevato ed il
processo andrà avanti). Il problema sorge in quelle ipotesi nelle quali
l'estinzione consegue al mancato adempimento di un ordine del giudice. In
questi casi il giudice ha disposto una certa attività affinché il processo possa
avere un corso regolare (perché se è nulla della citazione sarà nulla anche la
sentenza finale). Qui vi è il dubbio fra la necessità della eccezione di parte nella
possibilità del giudice di dichiarare l'estinzione d'ufficio. Per una parte della
dottrina il giudice può dichiarare d'ufficio l'estinzione, si ha qui una forzatura
dell'articolo. Per un'altra parte della dottrina il giudice non può dichiarare
d'ufficio l'estinzione ma è necessaria l'eccezione di parte ed allora in questi casi
il giudice se non può pronunciare una sentenza di estinzione può con un
provvedimento di natura processuale chiudere processo perché la parte non ha
adempiuto ad un ordine del giudice; qui cambia la forma del provvedimento ma
il risultato dello stesso cioè alla chiusura del processo. L'estinzione opera di
diritto, cioè si verifica nel momento in cui vi è stato l'evento interruttivo ed il
provvedimento del giudice ha solo natura dichiarativa ed è inoltre necessaria
l'eccezione di parte. In un solo caso l'estinzione viene dichiarata d'ufficio dal
giudice, questo è il caso di cui all'art.412-bis c.p.c. nell'ambito del processo del
lavoro. Per quanto riguardala forma del provvedimento (art.308 c.p.c.), l'articolo
inerente fa riferimento al tribunale in composizione collegiale e dice che:
l'estinzione viene dichiarata dal giudice istruttore con ordinanza, reclamabile al
collegio, ed il collegio decide con ordinanza se riforma del provvedimento del
giudice, sua casa processo va avanti. Il sistema descritto non funziona più
perché il tribunale opera in composizione monocratica; non ha per senza far
reclamo allo stesso giudice unico che ha dichiarato l'estinzione; inoltre il giudice
dichiara l'estinzione con una sentenza, mentre pronuncia un'ordinanza se
rigetta l'eccezione di parte (in quest'ultimo caso il processo prosegue). La
sentenza con la quale viene dichiarata l'estinzione è impugnabile. Per quanto
riguarda gli effetti dell'estinzione sull'azione (art.310 c.p.c.), bisogna dire che
l'estinzione del processo non estingue l'azione, infatti la parte può riproporre la
stessa domanda anche se questa possibilità non è assoluta perchè incontra dei
limiti: la prescrizione del diritto della decadenza. Abbiamo già detto che la
proposizione della domanda interrompe la prescrizione ed impedisce la
decadenza (di questo abbiamo già parlato in tema di atto di citazione). Per
quanto riguarda la prescrizione tenendo presente l’art.2945 c.c. (che stabilisce
che la prescrizione è interrotta da un atto introduttivo del processo e non corre
per tutto il tempo in cui dura il processo e quindi il nuovo termine di prescrizione
riprende a decorrere dal momento del passaggio in giudicato della sentenza),
nel caso dell’estinzione del processo poiché viene meno l’effetto sospensivo e
rimane solo quello interruttivo la prescrizione riprende a decorrere dal giorno
della domanda introduttiva; questo in ragione del fatto che l’effetto sospensivo
richiede che si pervenga ad una sentenza (cosa che non si ha in caso di
estinzione). Per quanto riguarda la decadenza, tenendo presente che essa può
essere impedita con un unico atto per sempre a seconda che il legislatore
richieda un atto giudiziale (disconoscimento) o che sia sufficiente un atto
stragiudiziale (impugnazione del licenziamento), nel caso dell’estinzione del
processo se per impedire la decadenza bastava un atto stragiudiziale tale
estinzione non ha nessun effetto perché l’effetto impeditivo si è comunque
verificato; mentre nel caso in cui il legislatore richiedeva un atto giudiziale per
impedire la decadenza (questo perché il legislatore vuole che ci sia una
sentenza) l’estinzione del processo fa venir meno l’effetto impeditivo della
decadenza (appunto perché non c’è stata la sentenza). L’art.310 c.p.c. al 2°
comma stabilisce che l’estinzione rende inefficaci gli atti compiuti, ma non le
sentenze di merito pronunciate nel corso del processo (le sentenze di merito cui
ci si riferisce naturalmente sono quelle sentenze non definitive perché il
processo o si conclude con una sentenza definitiva o con l’estinzione ed è
quest’ultimo caso che stiamo considerando). Inoltre l’estinzione del processo
non ha nessun effetto sulle sentenze della cassazione e su tutta una serie di atti
che non sono sentenze di merito, cioè le ordinanze anticipatorie di condanna. In
sostanza l’estinzione travolge le sentenze che hanno natura processuale, cioè
quelle che il giudice di merito pronuncia su questioni di natura processuale
(competenza, giurisdizione, questioni preliminari di merito). L’art.310 c.p.c. al 3°
comma stabilisce che le prove raccolte di un processo estinto conservano la
loro efficacia se sono prove precostituite (prove che valgono al di fuori del
processo), mentre se si tratta di prove raccolte nel processo (ad esempio la
prova testimoniale) queste con l’estinzione del processo diventano argomenti di
prova. L’art.310 c.p.c. all’ultimo comma stabilisce che le spese del processo
estinto sono a carico delle parti che le hanno anticipate, tranne quando il
processo si è estinto per rinuncia agli atti del processo, infatti in questo caso le
spese sono a carico della parte che ha rinunciato.
Impugnazioni
Oggi il nostro sistema delle impugnazioni è in un certo senso indicato
nell’art.323 c.p.c. che individua: l’appello, il ricorso per cassazione, il
regolamento di competenza, la revocazione e l’opposizione di terzo. Dall’art.323
c.p.c. si può evincere che nei confronti di un’unica sentenza possiamo avere più
mezzi di impugnazione, quindi il problema che si pone è quello di capire quale
mezzo di impugnazione in tal caso (cioè nel caso in cui nei confronti di una
sentenza vengono fatte impugnazioni diverse) va considerato. Per quanto
riguarda i rapporti tra revocazione e ricorso per cassazione contro la sentenza
di 2° grado, questi sono disciplinati nel segno dell’autonomia dei due giudizi, dal
legislatore, che a volte non dice nulla quindi lascia all’interprete il compito di
“decidere” sul concorso tra le varie impugnazioni. Il legislatore ha dedicato la
prima parte del titolo relativo alle impugnazioni a quelle che sono le
impugnazioni generali, cioè quei principi che valgono per tutte le impugnazioni
(artt.323 e ss. c.p.c.). Innanzitutto dobbiamo dire che l’oggetto
dell’impugnazione è la sentenza, anche se ci sono determinate ipotesi in cui si
impugnano anche le ordinanze e precisamente questo avviene quando tali
provvedimenti hanno contenuto decisorio e sono definitivi; quindi in questi casi
poiché si hanno provvedimenti non modificabili o revocabili, come lo è invece
l’ordinanza in generale, dev’essere possibile l’impugnazione. Tutto ciò come
conseguenza delle affermazioni della cassazione che ha detto che,
indipendentemente da quella che è la forma dell’atto che il giudice utilizza, di
fronte ad un provvedimento immodificabile o irrevocabile si può proporre
impugnazione in cassazione (ai sensi dell’art.111 Cost.). In sostanza l’oggetto
delle impugnazioni normalmente è la sentenza ma può essere impugnata
anche l’ordinanza nel caso descritto; inoltre dal 1990 può essere impugnata
un’altra ordinanza che è quella che dichiara la sospensione del processo, infatti
essa può essere impugnata in cassazione con il regolamento di competenza
(art.295 c.p.c.). Per quanto riguarda i soggetti legittimati a proporre
l’impugnazione, questi sono le parti tenendo presente che quando si parla di
parte ci riferiamo alla parte processuale; tuttavia ci sono casi, quali ad esempio
le ipotesi di litisconsorzio necessario, in cui anche la parte sostanziale può
impugnare il provvedimento, altri casi in cui lo può fare anche chi non è parte
con l’opposizione di terzo ed infine casi in cui il p.m. può fare la revocazione
straordinaria (questo avviene quando non è stato chiamato nel processo). Per
quanto riguarda poi l’interesse all’impugnazione, questo è determinato dalla
maggiore utilità che si può avere, ovvero da un trattamento più favorevole; in
funzione di ciò ad impugnare un provvedimento può essere solo la parte
soccombente (teniamo presente che la soccombenza deve vedersi con
riferimento alle conclusioni che possono essere anche diverse rispetto alla
domanda principale; quindi se il giudice accoglie la domanda in parte, il
provvedimento non può essere impugnato dall’attore). Possiamo avere una
soccombenza pratica quando il giudice accoglie la domanda dell’attore e
condanna il convenuto al pagamento di una somma, mentre si ha una
soccombenza teorica (o virtuale) quando il giudice rigetta l’eccezione
d’incompetenza o di prescrizione sollevata dal convenuto ma ugualmente non
accoglie e rigetta la domanda dell’attore (in quest’ultimo caso il convenuto può
avere interesse all’impugnazione solo se l’attore impugna la decisione del
giudice che ha rigettato la domanda, in caso contrario il convenuto non ha
interesse all’impugnazione in quanto ha vinto nel merito). Quindi la
soccombenza pratica è quella sulla domanda o sul merito, mentre la
soccombenza teorica è quella sulla domanda. Circa i termini di proposizione
delle impugnazioni possiamo avere: un termine breve o un termine lungo. Ciò
che determina il tipo di termine è la notificazione della sentenza; infatti se il
vincitore notifica la sentenza alla controparte si avrà un termine breve mentre in
caso contrario si avrà un termine lungo. Il termine breve per la proposizione
dell’appello è di 30 giorni dalla notificazione della sentenza, mentre il termine
breve per il ricorso per cassazione è di 6 giorni dalla notificazione della
sentenza. Il termine lungo invece è di 1 anno dalla pubblicazione della sentenza
(termine che opera indipendentemente dal fatto che la parte sia o meno a
conoscenza della pubblicazione); tenuto conto però della sospensione dei
termini feriali (dal 1° agosto al 15 settembre) il termine lungo diventa di 1 anno e
45 giorni. La notificazione tardiva della sentenza non può servire a prolungare il
termine lungo perché lo scopo della notificazione della sentenza è quello di
accelerare il termine per l’impugnazione e non di allungarlo; ovvero lo scopo è
quello di accelerare il termine per il passaggio in giudicato della sentenza (se il
vincitore notifica la sentenza quando sta scadendo il termine lungo, cioè sono
trascorsi 1 anno e 40 giorni, il tempo per impugnarla resterà di 5 giorni e non
diventerà di 30 giorni).
Il termine breve ed il termine lungo servono a capire quando la sentenza passa
in cosa giudicata formale. L’art.324 c.p.c. richiama le impugnazioni e ciò sta a
significare che le impugnazioni nel nostro sistema hanno la funzione di evitare
che la sentenza passi in giudicato. Cosa giudicata formale significa che quella
sentenza non può più essere messa in discussione. Ora dobbiamo fare delle
distinzioni:
tra impugnazioni ordinarie (appello; ricorso per cassazione; revocazione dei
- nn.3 e 5 dell’art.324 c.p.c.; regolamento di competenza) ed impugnazioni
straordinarie (opposizione di terzo; revocazione dei nn.1, 2, 3 e 6 dell’art.324
c.p.c.);
tra impugnazioni rescindenti (dirette solo ad annullare il provvedimento, la
- cassazione cassa la sentenza viziata) ed impugnazioni rescissorie (diretta
alla sostituzione della sentenza annullata con una nuova decisione, la
cassazione rimette la causa al giudice di rinvio per una nuova decisione);
tra impugnazioni a critica vincolata (possibile solo per alcuni motivi, ricorso
- in cassazione per 5 motivi e revocazione per 6 motivi) ed impugnazioni a
critica libera (possibile per qualsiasi motivo, appello);
tra impugnazioni proposte dinanzi allo stesso ufficio giudiziario che emana la
- sentenza impugnata (la revocazione) ed impugnazioni proposte dinanzi uffici
giudiziari diversi (l’appello ed il ricorso per cassazione).
L’acquiescenza è la volontà del soccombente di accettare la sentenza.
Possiamo avere un’acquiescenza parziale quando una sentenza è divisa in più
parti (capi) e viene impugnata limitatamente ad una parte, quindi per l’altra
parte si ha l’acquiescenza che fa passare in giudicato tale parte; questo però
avviene solo se la parte della sentenza che non viene impugnata è
indipendente dalla parte che viene impugnata. Per quanto riguarda i vizi della
sentenza, questi possono essere raggruppati in due grandi categorie:
la categoria degli errores in procedendo (vizi di attività: ovvero vizi
- extraformali quali il difetto di giurisdizione, difetto di competenza ed in
sostanza tutti quei vizi attinenti alla mancanza di requisiti di natura formale
che stanno prima della decisione; ma anche vizi che attengono alla nullità
della sentenza non per motivi preesistenti ad essa ma per motivi
strettamente attinenti ad essa stessa come ad esempio la sentenza emessa
da un collegio non regolarmente costituito, vizio di costituzione del giudice);
la categoria degli errores in iudicando (vizi di giudizio, ovvero vizi dovuti ad
- un errore del giudice nell’interpretazione o nell’applicazione di una norma di
legge alla fattispecie concreta; in tal caso quindi il giudice sbaglia ad
individuare una norma oppure individua la norma esatta ma la applica male).
Le due categorie di vizi della sentenza, i vizi di attività ed i vizi di giudizio, sono
soggetti ad una disciplina unitaria, mentre in passato c’erano impugnazioni
differenti a seconda del vizio.
Per quanto riguarda le impugnazioni incidentali (impugnazioni proposte
all’interno di un’altra impugnazione), bisogna dire che si hanno in tutta una serie
di ipotesi:
ipotesi di pluralità delle parti (litisconsorzio necessario e litisconsorzio
- facoltativo);
ipotesi di chiamata delle parti da un terzo;
- ipotesi di causa che diventi pluralità di parti per interpello volontario.
-
L’impugnazione incidentale è consentita non soltanto quando non sia scaduto il
termine per impugnare, ma anche quando il termine sia scaduto; in questo caso
si ha quella che viene definita impugnazione incidentale tardiva Poiché
l’impugnazione incidentale tardiva si giustifica solo quando è ammissibile
l’impugnazione principale, se quest’ultima viene dichiarata inammissibile, l’altra
(impugnazione incidentale tardiva) perde ogni efficacia.
(VEDI MEGLIO LE IMPUGNAZIONI INCIDENTALI)
In un passato lontano le impugnazioni investivano tutta la sentenza
indipendentemente dalla parte della sentenza oggetto dell’impugnazione;
successivamente il discorso cambia perché il giudizio d’appello si svolge su
quella parte della sentenza oggetto dell’impugnazione (effetto devolutivo
dell’appello). In caso di soccombenza reciproca l’attore ed il convenuto portano
nel processo d’appello le rispettive parti della sentenza per le quali risultano
soccombenti; in tal caso si ha che dalla combinazione delle due impugnazioni
tutto il processo viene portato in grado d’appello (perché ciò accada è
necessario che sia l’attore che il convenuto propongano l’impugnazione). Per
capire meglio il rapporto tra impugnazione principale ed impugnazione
incidentale, dobbiamo innanzitutto precisare che il legislatore ha come obiettivo
quello di ripetere in grado d’appello ciò che è avvenuto in 1° grado, cioè il
legislatore mira ad un processo-fotocopia dal punto di vista dei soggetti e
dell’oggetto. Circa la relazione tra l’impugnazione principale e l’impugnazione
incidentale bisogna dire che questa è una relazione meramente cronologica,
infatti chi propone per primo l’impugnazione ha proposto un’impugnazione
principale che quindi si ha non in ragione del soggetto o dell’oggetto m
semplicemente perché viene proposta per prima. Le impugnazioni incidentali si
definiscono così perché devono essere proposte nell’ambito di
un’impugnazione principale perché si abbia un unico processo in grado
d’appello. L’impugnazione incidentale deve proporsi nello stesso termine
previsto per l’impugnazione principale (30 giorni dalla notificazione o 1 anno, se
ci troviamo in cassazione i termini saranno di 60 giorni dalla notifica oppure di 1
anno); questa è l’impugnazione incidentale tempestiva, ma abbiamo anche
l’impugnazione incidentale tardiva che si può proporre anche oltre il termine di
scadenza. L’impugnazione incidentale tardiva va proposta in appello, a pena di
decadenza, 20 giorni prima dell’udienza che è stata fissata (udienza di prima
trattazione davanti alla corte d’appello); questo per evitare che l’impugnazione
principale tardiva dell’attore proposta quando sta per scadere il termine (un
giorno prima) impedisca al convenuto (al quale all’inizio poteva andar bene la
sentenza di 1° grado) di proporre l’impugnazione incidentale tardiva, infatti il
termini per l’impugnazione incidentale è uguale a quello per l’impugnazione
principale. La cassazione aveva ritenuto che ci fossero limiti oggettivi e limiti
soggettivi per l’impugnazione incidentale, nel senso che essa poteva proporsi
limitatamente allo stesso oggetto ed alla stessa parte dell’impugnazione
principale. La dottrina ha sempre contestato questi limiti affermando che
l’art.334 c.p.c. non dice nulla a riguardo. Successivamente la cassazione ha
cambiato opinione. Ciò che è importante dire è che non si può portare nel grado
d’appello più di quello che è accaduto nel 1° grado (cioè non si può ampliare
l’oggetto del giudizio). Un altro punto importante da analizzare attiene alla
pluralità delle parti nel processo di 1° grado, qui possiamo anche parlare di
inscindibilità delle cause. Precisamente possiamo avere una pluralità di parti
nell’ipotesi di litisconsorzio necessario (qui si tratta di un rapporto unitario più
che di inscindibilità delle cause), ad esempio in una causa che ha ad oggetto
una divisione ereditaria, oppure possiamo avere più cause tra loro dipendenti
(ad esempio in una delle ipotesi che riguardano una garanzia propria e non in
quelle che riguardano una garanzia impropria per le quali non si ha la
dipendenza). L’art.331 c.p.c. stabilisce che nel processo d’appello deve ripetersi
la stessa situazione, sotto il profilo soggettivo, che si è avuta nel processo di 1°
grado. Se al momento dell’impugnazione non vi sono tutte le parti, il giudice
ordina che l’impugnazione venga notificata anche alle altre parti (integrazione
del contraddittorio), in un termine perentorio. Se non avviene la notifica non si
ha l’estinzione come nell’art.102 c.p.c. ma si ha l’inammissibilità
dell’impugnazione. Quando invece abbiamo cause scindibili ma riunite nel
processo di 1° grado e non si verifica la stessa situazione in appello, il processo
può tranquillamente andare avanti solo tra le parti che hanno impugnato la
sentenza.
Il legislatore vuole evitare che nei confronti di una stessa sentenza vi siano più
processi (perché per esempio può accadere che chi in quel momento non ha
ancora impugnato la sentenza lo faccia successivamente), quindi ha stabilito
che il processo che è nato per primo non deve andare avanti finché non sono
scaduti i termini (brevi o lunghi che siano) che anche le altre parti hanno per
impugnare. Quindi il processo d’appello è sospeso fino a che i termini per
impugnare non sono scaduti (si tratta dell’art.332 c.p.c. che è un tipo di
sospensione legale, più breve che lunga, di differimento); dopo tale scadenza è
possibile proseguire tranquillamente. Un altro problema attiene all’esecuzione
della sentenza. Oggi la sentenza di 1° grado è esecutiva e l’appello non ha un
effetto sospensivo automatico di tale esecuzione; mentre la sentenza di 2°
grado esecutiva già lo era. In grado d’appello può chiedersi al giudice di
sospendere l’esecuzione della sentenza di 1° grado ma occorre un elemento
che è la presenza di gravi motivi oltre all’impugnazione che naturalmente è
condizione essenziale per poter chiedere appunto la sospensione
dell’esecuzione. Nel processo del lavoro la situazione cambia perché se è il
datore di lavoro soccombente ed impugna la sentenza, per ottenere la
sospensione dell’esecuzione deve dimostrare il gravissimo danno (qualcosa di
molto più serio rispetto ai gravi motivi). Al contrario se è il lavoratore che
impugna la sentenza e vuole ottenere la sospensione dell’esecuzione deve
dimostrare soltanto l’esistenza dei gravi motivi. La regola è che sulla provvisoria
esecuzione si decide con ordinanza non impugnabile, ma il presidente del
tribunale può disporne la sospensione con decreto se ricorrono “giusti motivi di
urgenza” (art.351 c.p.c.). Per quanto la sentenza di 2° grado, essa è esecutiva
ed il ricorso per cassazione non sospende l’esecuzione della sentenza di 2°
grado. Qui vi è una particolarità, infatti quando la sentenza di 2° grado può
determinare un grave ed irreparabile danno si dispone la sospensione
dell’esecuzione di tale sentenza; tuttavia la particolarità sta nel fatto che sulla
sospensione non decide la cassazione ma lo stesso giudice che ha pronunciato
il provvedimento (la sentenza di 2° grado) a condizione però chela parte abbia
già proposto ricorso per cassazione (in sostanza emessa la sentenza di 2°
grado la parte soccombente promuove il ricorso per cassazione dopodiché
chiede al giudice di 2° grado di disporre la sospensione dell’esecuzione della
stessa sentenza perché vi è un danno grave ed irreparabile (man mano che si
sale nei gradi di giudizio per ottenere la sospensione è richiesto qualcosa in più,
infatti la sospensione dell’esecuzione della sentenza di 2° grado è abbastanza
rara). Nell’esame dell’appello facciamo sempre riferimento ad un mezzo di
impugnazione a critica libera, cioè un mezzo con il quale si può impugnare tutto
ciò che si ritiene opportuno impugnare. L’appello si propone normalmente nei
confronti delle sentenze di 1° grado, ma ci sono delle sentenze che non sono
appellabili (art.339 c.p.c.) perché pronunciate secondo equità (ad esempio le
sentenze pronunciate dal giudice di pace, sotto i due milioni). Se una sentenze
è inappellabile non vuol dire che non può essere sottoposta a nessun controllo,
ma vuol dire che non è possibile l’appello tuttavia è possibile proporre il ricorso
per cassazione.
Giudice di appello è: la corte d’appello (rispetto alle decisioni del tribunale)
oppure il tribunale (rispetto alle decisioni del giudice di pace). Per quanto
riguarda la forma in cui si propone l’appello, essa è la citazione (nei giudizi che
iniziano in 1° grado con citazione) oppure il ricorso (nei giudizi che iniziano in 1°
grado con ricorso). Il rispetto dei termini di cui abbiamo detto, poniamo i 30
giorni, si ha con l’atto processuale (la citazione o il ricorso); ad esempio è
irrilevante che il ricorso venga notificato oltre i 30 giorni. In grado d’appello è
possibile intervenire ma poiché l’intervento presuppone una nuova domanda,
esso è previsto in via del tutto eccezionale e come regola generale in appello
non è ammesso l’intervento. In sostanza è ammesso solo l’intervento di quei
soggetti che potrebbero proporre l’opposizione di terzo.
Importante è il modo in cui si svolge l’appello. Innanzitutto bisogna dire che sia
nella fase della decisione che in quella della trattazione il giudice è sempre
collegiale, la corte d’appello opera sempre in funzione collegiale. Per quanto
riguarda l’appello proposto nei confronti delle sentenze del giudice di pace le
cose cambiano, infatti in questo caso è il tribunale a decidere ma si tratta del
tribunale in composizione monocratica. Fino al 1990 nel processo ordinario di
cognizione vigeva una regola e cioè che nel processo di appello era possibile
proporre nuove eccezioni, nuovi mezzi di prova e nuovi documenti, le parti però
non potevano proporre nuove domande. Nel processo del lavoro era stato
stabilito nel 1973 che non era possibile proporre neanche nuove eccezioni
(ovviamente quelle riservate alla parte) e quindi il processo del lavoro in grado
d’appello può essere definito come un giudizio ad istruzione chiusa. Quindi
secondo una distinzione in due diversi modelli di appello, quello “remissivo
priore istantia” (nel quale ci si limita a rivedere ciò che è successo in 1° grado
senza introdurre novità) e quello “novum iudicium” (nel quale si può avere
tranquillamente un’istruzione nuova e non completamente corrispondente a
quella del 1° grado), fino al 1990 il grado d’appello del processo ordinario era
un novum iudicium mentre dal 1973 in poi il grado d’appello del processo del
lavoro è definibile come appello del tipo remissivo priore istantia. Con la riforma
del 1990 anche per il grado d’appello del processo ordinario vengono introdotti
forti limiti e quindi viene introdotto un sistema basato sul modello remissivo
priore istantia. L’art.345 c.p.c. disciplina in maniera distinta domande, eccezioni
e prove e nel confermare che le domande nuove non sono ammissibili
introduce una novità che consiste nella conseguenza derivante dalla
proposizione di una nuova domanda. Infatti mentre prima la proposizione di una
nuova domanda aveva come conseguenza il rigetto della stessa, dal 1990 il
legislatore stabilisce che la proposizione di una nuova domanda porta alla
dichiarazione di inammissibilità. Tuttavia ci sono dei casi in cui la domanda non
è nuova come ad esempio la domanda che ha per oggetto gli interessi o il
risarcimento dei danni maturati dopo la sentenza di 1° grado. Sempre l’art.345
c.p.c. tratta poi delle eccezioni e a tal proposito è importante ricordare sempre
la distinzione tra eccezioni proponibili d’ufficio dal giudice ed eccezioni
proponibili dalla parte perché queste ultime non possono essere proposte in
appello se non sono state già sollevate in 1° grado; quindi in grado di appello
può proporsi un’eccezione solo perché il giudice può rilevarla d’ufficio (ad
esempio l’eccezione di pagamento). Per quanto riguarda le prove, il divieto di
introdurre nuove prove non è assoluto perché abbiamo due eccezioni: una
nell’ipotesi in cui il collegio ritenga quelle prove indispensabili a fini della
decisione e l’altra nell’ipotesi di prove relativamente alle quali la parte riesce a
dimostrare di non averle potute chiedere in 1° grado per un fatto ad essa non
imputabile. In ogni caso è sempre ammesso in appello il giuramento decisorio.
Ora dobbiamo trattare della questione dell’impugnazione delle sentenze non
definitive. A riguardo sappiamo che l’art.279 c.p.c. definisce anche i casi in cui il
giudice decide con sentenza non definitiva e cioè i casi in cui abbiamo una
questione di giurisdizione, una questione di competenza o un’altra questione
pregiudiziale o preliminare di merito o anche il merito senza però definire il
giudizio. Non sorgono grossi problemi quando ci troviamo di fronte ad una
questione, il contrario invece avviene nel caso in cui ci troviamo di fronte al
merito come avviene per la sentenza di cui all’art.278 c.p.c. (sentenza di
condanna generica) che è sicuramente una sentenza di merito non definitiva. Il
problema di definire una sentenza come definitiva o come non definitiva è
importante per capire quale tipo di impugnazione è possibile fare. La disciplina
dell’impugnazione delle sentenze non definitive fino al 1865 prevedeva la
possibilità di impugnare tali sentenze, dette interlocutorie, subito
autonomamente.
Nel 1940 le sentenze non definitive vengono chiamate parziali e si stabilisce
che possono essere impugnate solo alla fine insieme con la sentenza definitiva
previa riserva (cioè la parte doveva dichiarare di riservarsi di impugnare la
sentenza). Nel 1950 poi le sentenze in questione vengono chiamate non
definitive e la loro nuova disciplina prevede una scelta per la parte che può o
impugnare subito la sentenza non definitiva o può fare riserva ed impugnarla
alla fine quando verrà emessa la sentenza conclusiva. Oggi la situazione è la
stessa del 1950 solo che in alcuni casi, come il caso della sentenza non
definitiva sul divorzio (che dev’essere seguita da quella sull’assegno),
l’impugnazione va fatta immediatamente e non è riservabile. Per quanto
riguarda la riserva d’appello, è necessario dire che essa va fatta nello stesso
termine che si ha per proporre l’impugnazione ordinaria, ma con tale termine ne
concorre un altro che è quello rappresentato dalla data dell’udienza successiva
(in sostanza poiché a seguito della sentenza non definitiva il giudice deve
continuare il processo viene fissata un’altra udienza per la prosecuzione del
processo, allora la parte potrà impugnare la sentenza non definitiva entro il
termine di 30 giorni, se vi è stata la notifica della sentenza, a meno che non
venga prima la data dell’udienza fissata per la prosecuzione del processo, in
quest’ultimo caso infatti il termine ultimo per l’impugnazione o per la riserva
d’impugnazione è dato dalla data dell’udienza). Un problema che si pone
attiene all’ipotesi in cui il processo nel corso del quale è stata proposta la
riserva si estingue; a riguardo l’art.129 disp.di attuaz. Stabilisce che se il
processo si estingue in 1° grado, la sentenza di merito contro la quale si è fatta
la riserva acquista efficacia di sentenza definitiva dal giorno in cui diventa
irrevocabile l’ordinanza o passa ingiudicato la sentenza che pronuncia
l’estinzione. In sostanza se la sentenza non definitiva contro la quale si è fatta
la riserva è di merito, essa acquista efficacia e può essere impugnata; mentre
se la sentenza non definitiva contro la quale si è fatta la riserva non è di merito,
essa diventa inefficace con l’estinzione del processo e non si può impugnare
ciò che è inefficace. Per quanto riguarda l’impugnazione immediata, quando la
parte propone subito l’impugnazione, il giudizio di 1° grado ed il giudizio
d’appello vanno avanti autonomamente (ai sensi dell’art.279 c.p.c.), ma le parti
possono anche essere d’accordo nel sospendere il giudizio di 1° grado sempre
se il giudice lo ritiene opportuno. Se il giudizio di 1° grado viene sospeso, esso
verrà influenzato dalla sentenza del giudizio d’appello; ma anche se il giudizio di
1° grado non viene sospeso, esso sarà comunque condizionato dal giudizio
d’impugnazione, soprattutto nel caso in cui il giudizio di 1° grado si concluda
prima e con una sentenza incompatibile con quella a cui perverrà il giudizio
d’impugnazione (qualora quest’ultimo abbia ad oggetto una questione
preliminare di merito). Sulla problematica del coordinamento tra il giudizio di 1°
grado ed il giudizio d’impugnazione, dobbiamo quindi concludere che il giudizio
di 1° grado inevitabilmente dipende dal giudizio d’impugnazione su una
questione preliminare. Per quanto riguarda l’impugnazione in cassazione, essa
nel 1940 era un’impugnazione ordinaria ed un’impugnazione a critica vincolata.
Innanzitutto l’art.360 c.p.c. dice che sono impugnabili in cassazione le sentenze
emesse in grado d’appello o in unico grado (ad esempio le sentenze emesse
dal giudice di pace in unico grado, sotto i due milioni); l’articolo in questione
dice anche che è possibile una specie di ricorso omissio medio quando le parti
sono d’accordo e decidono di omettere l’appello, ma ciò non si verifica mai
perché nessuno è disposto a perdere un grado di giudizio. In base all’art.111
Cost. Possiamo ritenere suscettibili di ricorso in cassazione anche le ordinanze
che pongono termine ad un procedimento (cioè quelle che hanno natura
decisoria e definitività nel senso che non sono altrimenti impugnabili).
L’impugnazione in cassazione è a critica vincolata perché può aversi solo in
alcune ipotesi.
Si può ricorrere per cassazione per:
motivi attinenti alla giurisdizione, tenendo presente oltre alla questione di
- giurisdizione attinente ai tre limiti alla giurisdizione civile anche le ipotesi di
conflitto negativo (quando più giudici negano la loro giurisdizione a colui che
propone presso di loro una domanda), di conflitto positivo (quando più
giudici si dichiarano forniti di giurisdizione circa una questione) e di ultra
petita (quando il giudice va oltre la domanda delle parti, cosa che non si può
fare);
motivi attinenti alla competenza, quando non è “prescritto” il regolamento di
- competenza (cioè quando non è previsto il regolamento di competenza
necessario), in sostanza quando c’è una sentenza sia sulla competenza che
sul merito è possibile impugnare la questione di competenza ricorrendo per
cassazione anche con il ricorso ordinario (e non solo con il regolamento di
competenza facoltativo);
motivi di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, in sostanza
- errores in iudicando cioè vizi di giudizio (mentre tutti i motivi precedenti e
quelli successivi sono errores in procedendo cioè vizi di attività);
motivi di nullità della sentenza o del procedimento, cioè tutte quelle ipotesi di
- nullità che non sono state sanate nel corso del processo (mancato
intervento del p.m., nullità dell’atto di citazione ecc.), quindi le ipotesi di
nullità della sentenza possono essere fatte valere con il ricorso per
cassazione;
motivi di mancanza (omissione), insufficienza o contraddittorietà della
- motivazione, in questi casi spetta alla cassazione stabilire se la motivazione
è contraddittoria o insufficiente anche in riferimento al dispositivo.
Circa la forma dell’atto tramite il quale si propone l’impugnazioni in cassazione,
questa è quella del ricorso; è importante dire però che non si tratta di un ricorso
come quello del processo del lavoro; infatti in questo caso il ricorso viene prima
notificato e poi depositato nella cancelleria, abbiamo cioè un mezzo di
proposizione della domanda molto più vicino alla citazione. Quando il ricorso
viene notificato il ricorrente ha 20 giorni di tempo per il deposito dello stesso
nella cancelleria della corte d’appello, poi 20 giorni dopo dal deposito quindi 40
giorni dopo dalla notifica il controricorrente può costituirsi depositando un
controricorso (se intende proporre impugnazione incidentale deve farlo nel
controricorso che quindi sarà un controricorso incidentale). Per quanto riguarda
la decisione della corte d’appello, essa in alcuni ipotesi (integrazione del
contraddittorio, estinzione del processo) decide in camera di consiglio e può
farlo sia nel caso di sezioni unite che nel caso di sezioni semplici. Quando non
ricorre un’ipotesi di decisione in camera di consiglio, il ricorso viene discusso in
pubblica udienza ed è il primo presidente che poi deve assegnare il ricorso o
alle sezioni unite o alle sezioni semplici. Nel civile abbiamo le sezioni unite e tre
sezioni semplici. Si hanno le sezioni unite quando si decide sulla giurisdizione,
sui contrasti di giurisprudenza tra le sezioni unite. Ciò che dicono le sezioni
unite è un’indicazione che non vincola i giudici per le questioni più o meno
analoghe a quelle decise da tali sezioni, ma costituisce ugualmente un
precedente importante. Le sezioni unite decidono anche nel caso di questioni di
particolare complessità se il presidente decide di trasmettere la questione. Negli
altri casi decidono le sezioni semplici. Quando la decisione non è in camera di
consiglio ma in pubblica udienza, 5 giorni prima dell’udienza fissata le parti che
si sono costituite almeno con il controricorso possono depositare delle
memorie; dopo c’è la discussione, la relazione che fa il giudice relatore, parlano
gli avvocati e poi il p.m. ed infine la cassazione decide con sentenza. La
cassazione in caso di decisione negativa per quanto riguarda la giurisdizione,
“cassa” la sentenza impugnata ed il processo si chiude là (questa è l’ipotesi di
cassazione senza rinvio).
Quando invece la decisione della cassazione è negativa ma sulla competenza,
allora essa effettua anche un rinvio trasmettendo gli atti del processo al giudice
competente (questa è l’ipotesi di cassazione con rinvio). Per quanto riguarda le
altre ipotesi in cui si può ricorrere per cassazione, nel caso in cui viene rilevato
il vizio denunciato la cassazione annulla la sentenza impugnata e rinvia ad un
giudice di pari grado a quello che ha emesso la sentenza impugnata (non allo
stesso giudice ma ad uno di pari grado). Si può avere il rinvio proprio se si
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