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Obbligo di domicilio dell'avvocato secondo la legge professionale
(P.E.C.). In base alla legge professionale ogni avvocato deve avere domicilio nel luogo ove ha sede il tribunale, al cui consiglio dell'ordine è iscritto. Qualora l'avvocato svolga il suo mandato innanzi ad un ufficio giudiziario, non compreso nella circoscrizione del tribunale al quale è assegnato (ma entro il distretto della corte di appello in cui gravita il consiglio dell'ordine), egli ha obbligo di eleggere domicilio nel luogo ove ha sede quel giudice. In mancanza si intende domiciliato nella cancelleria, e quivi si eseguono le comunicazioni e notificazioni (art. 82 R.D. 22-1-1934 n. 37).
Epperò la Corte di cassazione a Sezioni unite con sentenza del 20-6-2012 n. 10143, nel ribadire la vigenza della citata norma di legge, ha affermato il principio che essa viene derogata e non trova applicazione quando il difensore costituito della parte abbia indicato, come del resto è d'obbligo, il proprio indirizzo di posta elettronica certificata. In tal caso
l'elezione di domicilio in loco è irrilevante dovendosi eseguire ogni comunicazione in forma elettronica tramite P.E.C.
CAPITOLO VI
IL GIUDICE ISTRUTTORE ED IL GIUDICE UNICO
1. Funzioni del giudice istruttore.
Le norme regolatrici delle funzioni e dei poteri del giudice istruttore sono rimaste formalmente in vigore nelle linee essenziali. Tuttavia è opportuno fare al riguardo una importante premessa.
Uno degli aspetti salienti, ed anche più controversi, dell'attuale codice di procedura civile è rappresentato dalla scissione del processo in due fasi nettamente distinte: quella istruttoria e quella decisoria. Essendo apparsa eccessiva agli occhi del legislatore del 1940 la soppressione del collegio deliberante, per le migliori garanzie di giustizia e ponderazione che la decisione collegiale indubbiamente offre: essendo, per altro verso, stato ritenuto economicamente impraticabile l'integrale affidamento al collegio di ogni fase del giudizio (per
L'elevato numero di magistrati al fine necessario), in ossequio al più volte richiamato criterio della "oralità" processuale, si addivenne ad una soluzione mediana. Essa consistette nella creazione del giudice istruttore, organo singolo cui fu affidata la trattazione e la istruzione della causa (vale a dire l'acquisizione di tutto il materiale probatorio, e non, necessario per la pronuncia di merito), il quale era ad un tempo componente e relatore nel collegio, cui invece fu esclusivamente attribuito il potere decisorio. Il raccordo tra giudice istruttore e collegio, quindi tra fase istruttoria e decisione, fu realizzato con il conferimento al primo di un generale potere di ordinanza, provvedimento destinato ad impartire ogni determinazione riguardante la trattazione della causa, che è modificabile e revocabile in linea di principio da parte del G.I. (salvo le eccezioni di legge), e che comunque non dovrebbe pregiudicare in alcun modo la decisione.
della causa. Il collegio, infatti, al momento della pronuncia non è in linea di principio vincolato dalle dette ordinanze revocabili, potendo le parti liberamente riproporre ad esso ogni questione già con esse risolta. Sotto altro profilo l'art. 187 conferisce all'istruttore il potere discrezionale ed esclusivo di rimettere la causa in decisione, dopo avere invitato le parti a precisare in apposita udienza innanzi a lui le conclusioni. Come osservato, il descritto sistema, pur se ritoccato in alcuni punti dalla L. 353/90 (come trabreve vedremo), è rimasto solo formalmente in vigore. Bisogna infatti tenere conto di una circostanza fondamentale, che lo svuota in gran parte di contenuto. Come abbiamo sopra veduto, nelle materie civili è stato soppresso in tribunale il collegio giudicante, ed il potere decisorio (oltre che istruttorio) è passato per intero nelle mani del giudice istruttore, salvi i casi in cui permane l'organismo collegiale. Pertanto,la scissione tra fase istruttoria e decisoria, la distinzione tra giudice istruttore e collegio, il coordinamento tra poteri dell'uno e dell'altro, e così via, hanno significato e valore normativi soltanto in quelle delimitate materie in cui il tribunale giudica ancora collegialmente. Di contro, in tutti gli altri casi, e sono la maggioranza, tutto questo non ha alcun rilievo, poiché il processo si svolge e si conclude innanzi al giudice unico. Le conseguenze sono di non poco momento, e si avvertono soprattutto sul punto cruciale e molto delicato dell'ammissione delle prove richieste dalle parti. È facile, infatti, prevedere che ben difficilmente il giudice istruttore, una volta che si sia pronunciato con ordinanza anche revocabile su questioni inerenti alla trattazione della causa, ritorni sui suoi passi modificando o revocando i propri provvedimenti, anche se essi non sono vincolanti al momento della decisione di merito. In definitiva, mentre col precedente
sistema le parti potevano almeno sperare di porre riparo ad un errore, o ad una ingiustizia, del giudice istruttore rivolgendosi al collegio, oggi questo non sarà più possibile, e l'unico rimedio sarà costituito dalla impugnazione della sentenza infine emessa. 2. I poteri del giudice istruttore. Calendario delle udienze. Tenendo presente la premessa esposta, alla luce di essa vanno considerate le norme regolatrici dei poteri del giudice istruttore nel senso che tutte le volte, in cui emerge la distinzione tra tale organo ed il collegio, ciò deve intendersi esclusivamente riferito alle materie che restino attribuite al tribunale in composizione collegiale. L'art. 174, programmaticamente, prevede che il g.i. è investito di tutta l'istruzione della causa e della relazione al collegio (nei casi residuali sopra richiamati), e che "soltanto in caso di assoluto impedimento o di gravi esigenze di servizio può essere sostituito con decreto".del presidente". Questa norma è in linea con i più volte ricordati principi di oralità, immediatezza e concentrazione, tendendo essa ad assicurare l'identità fisica del giudice, che istruisce e raccoglie le prove, con quello che infine decide il merito. È però opportuno, se non necessario, rilevare che in concreto la richiamata norma non ha mai trovato applicazione, e come ciò contribuisca a rivelare la irrimediabile astrattezza di quei principi, sui quali, non può realisticamente costruirsi un efficiente processo civile. Avviene, infatti, che frequentemente il g.i. venga sostituito, una o più volte, nel lungo arco temporale del processo di primo grado per le ragioni più disparate: assegnazione ad altro incarico, promozione, trasferimento, passaggio ad altra sezione, ecc. Inoltre una costante giurisprudenza afferma che la sostituzione del g.i. può essere disposta anche implicitamente ed in forma orale dal presidente.presidente all'udienza collegiale, senza che ciò comportiirregolarità alcuna. Si deve, dunque, prendere atto che anche l'immutabilità del g.i. costituisce unavuota enunciazione, priva di rilievo pratico. Secondo l'art. 175 il g.i. esercita tutti i poteri intesi al piùsollecito e leale svolgimento del procedimento; fissa le udienze ed i termini entro i quali le partidebbono compiere gli atti processuali; quando egli omette di provvedere nei modi indicati si applical'art. 289. Secondo l'art. 81 delle disp. di att. il rinvio da una udienza all'altra non può esseresuperiore a quindici giorni. Anche per queste norme si impongono alcune precisazioni essenziali.Non si sa bene, anzitutto, in che cosa consistano i "poteri intesi al più sollecito e leale svolgimentodel procedimento", al di fuori di quelli che di volta in volta esamineremo.Quanto alle udienze ed ai rinvii, il termine massimo di quindici giorni,
di cui si è riferito, è sempre ed abbondantemente superato, e non già per cattiva volontà del magistrato, ma a causa delle difficili condizioni in cui egli è costretto ad operare per le ragioni già ampiamente esposte: insufficienza del codice, ed evidente inadeguatezza del numero dei giudici rispetto al carico di lavoro. Allo stato il tempo medio di un rinvio da una udienza istruttoria ad un'altra è di alcuni mesi. Tutto ciò la dice lunga sulla consistenza del c.d. processo immediato e concentrato, e sulla assurdità della pretesa di imporre alle parti ristretti termini di preclusione e decadenza per porre rimedio alla lentezza e ai lunghi rinvii, che non hanno origine nel diritto di difesa dei contendenti. Nel tentativo di porre un qualche rimedio agli inconvenienti sopra riferiti, l'art. 52, 2° comma, della L. 69/2009 ha inserito nelle disposizioni di attuazione al c.p.c. l'art. 81 bis, che prevede ilc.d.calendario pro delle udienze. Dispone la nuova norma: "il giudice, quando provvede sulle richieste istruttorie, sentite le parti e tenuto conto della natura, dell'urgenza, e della complessità della causa, fissa il calendario del cesso con l'indicazione delle udienze successive e degli incombenti che verranno espletati. I termini fissati nel calendario possono essere prorogati, anche d'ufficio, quando sussistono gravi motivi sopravvenuti. La proroga deve essere richiesta dalle parti prima della scadenza dei termini.
Notiamo che il detto calendario riguarda solo l'ipotesi in cui vi siano mezzi istruttori da assumere in giudizio, mentre non riguarda tutti gli altri casi e le udienze relative allo svolgimento di altro genere di attività processuali. Anche per questo ristretto oggetto è dato dubitare dell'efficacia del nuovo istituto.
Conviene, piuttosto, fermare l'attenzione sul richiamo all'art. 289, contenuto nell'ultimo comma dell'art.
175. Nell'ipotesi in cui, per una qualsiasi ragione, il g.i. non abbia fissato l'udienza successiva, o termine entro cui le parti debbono compiere gli atti processuali, esse hanno l'onere di chiedere allo stesso l'integrazione del provvedimento <<entro il termine perentorio di sei mesi dall'udienza in cui provvedimenti furono pronunciati, oppure dalla loro comunicazione o notificazione ». La perentorietà del termine comporta che il suo inutile decorso determini, ai sensi dell'art. 307, l'estinzione del processo.
3. Le ordinanze del giudice istruttore.
Il provvedimento di cui normalmente si avvale il giudice istruttore, per istruire il processo e regolarne lo svolgimento, è l'ordinanza: così dispone, infatti, l'art. 176, il quale aggiunge che le ordinanze pronunciate in udienza si presumono note alle parti costituite, mentre quelle pronunciate fuori udienza devono essere comunicate entro tre giorni. Si richiama quanto
a suo tempo esposto intorno ai caratteri dei suddetti provvedimenti: essi presuppongono il contraddittorio, sono di norma vocabili o modificabili dallo stesso giudice, non hanno contenuto decisorio e quindi non incidono direttamente sulle decisioni finali.