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Quindi sono abusive sempre ed in ogni caso. Possiamo affermare che l’art. 33 comma primo
contenga una nozione che si esaurisce nell’elencazione successiva a quella del comma 2 dell’art.
33, cioè si può affermare che l’art. 33 comma primo non faccia altro che dettare una sorta di
nozione generale la quale però non è destinata a determinare l’individuazione di ipotesi di
abusività ulteriori rispetto a quelli della green list dell’art.33 comma 2. Si è tentato di dire pure
questo. La risposta della migliore dottrina è no. Cioè l’elencazione dell’art. 33 comma 2 non è
esaustiva, è una scelta di politica del diritto, il legislatore ha stabilito di individuare alcune clausole
perché sono quelle più diffuse del mercato e quelle nelle quali i segni di abusività sono evidenti,
ma a) il legislatore può allungare questa lista, b) il giudice è legittimato a ritenere abusive anche
clausole ulteriori rispetto a quelle previste dall’art. 33 comma 2; ovviamente lì il consumatore non
ha l’agevolazione costituita dal fatto che la clausola che sta impugnando appartiene
all’elencazione delle clausole della lista grigia, quindi questa facilitazione non ce l’ha e dovrà allo
specifico provare che vi sia stato un significativo squilibrio di diritti e doveri e che tutto ciò è
avvenuto in contrasto con la buona fede. La considerazione prevalente ritiene che l’art. 33 comma
1 sia una norma di impianto generale, che consente al giudice di individuare anche ipotesi di
clausole abusive ulteriori rispetto a quelle dell’art.33 comma 2, a condizione però che il
consumatore sia in grado di provare che quella clausola produce un significativo squilibrio di diritti
e di doveri in contrasto con la buona fede. Di che buona fede si parla? Il prof. Mazzamuto prende
questo esempio come esempio della difficoltà a creare il diritto europeo comune legato anche alla
diversità delle lingue e quindi ci si chiese se il riferimento sia alla buona fede soggettiva o alla
buona fede oggettiva, che differenza c’è? La differenza è che se la buona fede fosse in senso
soggettivo significherebbe che il consumatore dovrebbe provare che il professionista era
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perfettamente consapevole del carattere squilibrante che quella clausola porta con sè, e la mala
fede è uno stato soggettivo che è assai prossimo al dolo, ovvero è il grado precedente del dolo, in
quanto il dolo è coscienza e volontà, mentre la mala fede è coscienza. Quindi si tratterebbe di
dover provare che il professionista fosse, all’atto di predisposizione di quella clausola,
consapevole dello squilibrio che la clausola determinava, il che, dal punto di vista strettamente
processuale, comporta due cose: o abrogare il riferimento alla buona fede nei fatti, perché
sarebbe agevole sostenere che per definizione il professionista, in quanto tale, è consapevole
dell’effetto di squilibrio che la clausola che ha predisposto produce, perchè il professionista è
insider, è al di dentro del mercato e detiene tutte le informazioni specifiche per poter fare l’affare,
quindi il professionista è per definizione consapevole del carattere abusivo della clausola che
predispone; ma se la giurisprudenza non avesse accolto questa lettura, l’altra sarebbe stata anche
peggio, perché significherebbe ridurre grandemente la tutela del consumatore, perché al
consumatore non basterebbe provare l’oggettivo squilibrio che la clausola produce, ma dovrebbe
anche provare specificamente, il che è complesso, che il professionista era a conoscenza, era
perfettamente consapevole, e quindi dare una prova specifica della consapevolezza, che quella
clausola produceva squilibri. In assenza di elementi che convincano il giudice che il professionista
era consapevole, il giudice dovrebbe negare tutela al consumatore. Quindi o la buona fede
soggettiva la si considera sempre presente per il fatto che chi ha disposto la clausola è il
professionista che è in possesso di informazioni sensibili e per definizione non può essere in
buona fede. La Corte di Cassazione, nel settembre scorso, per il processo che vedeva di fronte
Silvio Berlusconi e De Benedetti, ha condannato la Fininvest al pagamento di una cifra pari a
circa 600 milioni di euro. Quindi la questione è: o la si da per assunta o la si deve provare nello
specifico e nel primo caso si abroga di fatto, nel secondo caso si riduce la protezione del
consumatore perché si presenta una prova specifica. Allora la dottrina maggioritaria, anche tenuto
conto di quello che hanno fatto gli altri ordinamenti dove il recepimento è stato tale da intendere il
riferimento alla buona fede come buona fede oggettiva, legge questo “malgrado la buona fede”,
che in effetti è la formula infelice che evoca la buona fede in senso soggettivo, come la buona
fede in senso oggettivo, quindi qua siamo di fronte alla buona fede come correttezza del 1175,
1375, 1333, la solita buona fede quindi imperativo di condotta, quindi sostanzialmente la norma va
intesa così: non è sufficiente provare che la clausola determini un significativo squilibrio di diritti e
di doveri, ma è anche necessario provare che il professionista l’ha negoziata e introdotta in
violazione della buona fede. E’ evidente che, se c’è stata unilaterale predisposizione del contratto
da parte del professionista, la violazione della buona fede la possiamo dare per assunta, perché il
professionista è stato l’artefice, ovvero l’unico realizzatore del testo contrattuale; già la cosa
diventa un po’ più complessa quando, alla base del contratto, c’è stata una interlocuzione fra
professionista e consumatore, allora in qual caso è necessario valutare come il professionista si
sia condotto. Su questo punto, c’è una parte della dottrina, rappresentata dal prof. Busnelli, la
quale ritiene che: La violazione della buona fede sia intrinseca, la si provi tramite la prova
dell’eccessivo squilibrio di diritti e di doveri, quindi, secondo questa diversa lettura, violazione della
buona fede ed eccessivo squilibrio di diritti e di doveri non sarebbero due elementi distinti, uno
attinente alla condotta e l’altro attinente al contenuto, lo squilibrio, ma invece sarebbero due
elementi connessi, perché si ha condotta scorretta se la clausola risulta caratterizzata dal
significativo squilibrio di diritti e doveri. Questa chiave di lettura, che a Piraino convince di meno, è
quella più diffusa, cioè l’opinione più diffusa è quella secondo la quale, provato lo squilibrio si
prova anche la condotta scorretta di chi l’ha predisposta, proprio per la forte correlazione tra l’uno
e l’altro. Un altro grande studioso del contratto, Enzo Roppo, nel tentativo di uscire da questa forte
contrapposizione, la buona fede è un elemento autonomo che va provato autonomamente rispetto
all’eccessivo squilibrio, oppure la buona fede è violata se vi è significativo squilibrio tra diritti e
doveri, quindi i due elementi sostanzialmente coincidono. Però lui dice che alla buona fede
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possiamo attribuire anche un altro significato. Essa potrebbe significare che il giudice debba, nello
stabilire se vi sia o meno significativo squilibrio, tenere conto del contesto, cioè di come il contratto
è stato concluso, delle caratteristiche del mercato nel quale l’operazione economica si inserisce, la
natura del bene, la natura del servizio e quant’altro. L’interpretazione è interessante, però si
scontra con un dato letterale, in realtà tutto ciò il legislatore lo prescrive specificamente all’art. 34
comma primo, che dice: la vessatorietà di una clausola è valutata tenendo conto della natura del
bene e del servizio, oggetto del contratto, e facendo riferimento alle circostanze esistenti al
momento della sua conclusione e anche alle altre clausole del contratto medesimo o di un
contratto collegato o da cui dipende. Quindi che nel giudizio di abusività la clausola a) no possa
essere valutata isolatamente ma debba essere invece valutata in combinato disposto con le
clausole dello stesso contratto e financo con le clausole di un contratto collegato o di un contratto
dipendente; b) che si debba tenere conto della natura del bene e del servizio , questo significa
anche tener conto delle caratteristiche del mercato, perché un contratto di vendita di beni
alimentari non è un contratto di vendita di strumenti finanziari, o di prodotti tecnologici, quindi ha
caratteristiche diverse ed è un mercato che ha le sue prassi e quindi anche quelle prassi possono
pesare. Quindi il fatto che l’art. 34 comma 1 attribuisca rilievo a queste circostanze di contesto,
toglie argomenti all’idea che tutto ciò sia espresso alla buona fede, allora perché il legislatore
avrebbe dovuto prevedere tutto ciò? Una prima volta all’art. 33 comma 1, affiancando al
significativo squilibrio anche alla buona fede, e poi avrebbe voluto replicare tutto ciò
specificamente nell’art. 31 comma 1. E’ poco convincente. Tuttavia, l’idea che la violazione della
buona fede, nella disciplina delle clausole abusive, non sia oggetto di un accertamento autonomo,
ma la si desuma dall’accertamento di significativo squilibrio, è alla base della convinzione, sempre
più diffusa, che il diritto privato europeo sia un diritto che propugna, che sollecita e che persegue
l’obiettivo della giustizia contrattuale. Quindi all’origine di tutto c’è questa norma, e questa
interpretazione, che è anche la più diffusa di questa norma, vale a dire che la regola di condotta e
la regola di condotta per antonomasia è la buona fede, che è la madre di tutte le regole di
condotta, e la si può considerare violata alla luce del particolare contenuto che il contratto esibisce;
quindi se il contenuto del contratto è significativamente squilibrato, allora ciò è indice che la
condotta del professionista sia stata scorretta. Il problema della giustizia contrattuale è
sostanzialmente questo: se sia possibile sindacare il contenuto del contratto e se sia
possibile sindacarlo tramite strumenti di natura invalidatoria. La regola, il principio non scritto
del codice civile, è che il prezzo concordato, il regolamento concordato, è per definizione giusto,
perché è il frutto della libera esplicazione dell’autonomia dei due contraenti; questo è un impianto
liberista, i contraenti sono dotati di pari poteri vicini al contratto, quindi sono egualmente liberi,
basta provare che la conclusione del contratto non sia stata inficiata da qualche vizio del consens