Diritto privato comparato
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hanno avviato un processo di liberalizzazione (pensiamo alla riforma del codice civile ungherese del 1977,
in cui vengono contemplati i diritti della personalità, la tutela dell’ambiente ed i poteri delle imprese.
Pensiamo anche all’istituzione del Tribunale costituzionale polacco del 1982: il diritto socialista non
riconosce la Costituzione come un documento superiore alla legge, ma l’istituzione di un organo
competente ad annullare, per contrasto con la Carta fondamentale, gli atti sublegislativi, anche se non le
leggi, è comunque un passo in avanti, una svolta che ben manifesta le intenzioni di quel Paese); la Bulgaria,
invece, non conosce la democrazia ed è stato l’unico alleato russo a non insorgere ed in cui il passaggio
graduale ad uno Stato democratico è stato più difficoltoso.
Nell’Europa orientale, sempre in senso stretto, invece, si è avuto il passaggio dall’Unione Sovietica alla
Comunità degli Stati Indipendenti, esattamente nel 1991, senza comprende più gli stati baltici, oramai
divenuti indipendenti. Il membro più importante della Comunità, ossia la Russia, si presenta oggi come uno
Stato federale con una forma di governo presidenziale, in cui diritto civile e penale sono di competenza
federale (diversamente dagli USA), così come la disciplina della terra, del lavoro e delle risorse minerarie.
Tuttavia, nonostante il graduale passaggio a realtà democratiche, occorre analizzare se, ed in che misura, il
periodo socialista abbia lasciato delle tracce in tali Paesi.
Tracce del periodo socialista nel diritto dei Paesi est-europei
Occorre ricordare che il comunismo, e di conseguenza la fase transitoria del socialismo, nascono da un’idea
economica di Karl Marx, economista dell’Ottocento: i tratti caratteristici dello Stato socialista, dunque,
sono l’economia pianificata e la politicizzazione della vita sociale, entrambi fattori extragiuridici. Il diritto, di
conseguenza, non è che uno strumento per il raggiungimento del fine, non l’oggetto della riforma. E’ per
tal motivo che, nei Paesi con una forte tradizione giuridica, vengono mantenuti alcuni elementi tecnici
dell’ordinamento giuridico non influenzati dal socialismo.
Tuttavia, nonostante la fase di transizione democratica, vi sono alcune impostazioni di stampo socialista
sopravvissute al crollo dell’URSS: si tratta di tracce riguardanti aspetti formali del diritto e la mentalità
giuridica degli esperti del diritto.
Tracce di forma
Per capire quali tracce socialiste abbiano conservato i Paesi dell’est inerentemente agli aspetti formali del
diritto prendiamo in considerazione uno tra i tanti Stati dell’Europa centro-orientale, l’Ungheria.
Anzitutto nella costituzione ungherese la parte sull’organizzazione dello Stato viene prima della parte
inerente i diritti fondamentali, il che rispecchia la vecchia idea socialista secondo cui lo Stato viene prima di
tutto, anche se l’unica norma mantenuta, nella transizione democratica, è quella inerente la capitale,
Budapest.
Il Parlamento ungherese ha una struttura unicamerale: la logica socialista non vedeva di buon occhio la
camera alta, espressione dell’aristocrazia, e per tal motivo essa venne sciolta, ma dopo il crollo del regime
la maggior parte dei Paesi ha reintrodotto il Senato. In Ungheria, invece, questo non è avvenuto, il che,
però, è più che altro riconducibile all’unità nazionale dello Stato ungherese, non frammentato a livello
territoriale e privo di aspirazioni regionaliste. 51
La tesi dell’unitarietà del diritto, propria della logica socialista, permane in alcuni settori del diritto
ungherese: diritto civile e commerciale sono in unico codice, mentre l’Ungheria possedeva, in precedenza,
un proprio codice di commercio mai ripristinato; il diritto di famiglia, disciplinante rapporti personali
secondo la logica sovietica, è rimasto escluso dal diritto civile.
Tracce di una concezione socialista del diritto
Se sotto il profilo formale il diritto socialista ha influito ben poco sul diritto dei singoli Stati nella transizione
democratica, molto più evidente è l’impronta del pensiero sovietico impressa nella mentalità giuridica di
tutti coloro che si sono formati sotto la dittatura del regime. Il pensiero socialista, infatti, proibiva
qualsivoglia forma di creatività nell’interpretazione del diritto, in particolar modo l’uso del metodo
teleologico (consistente nel cogliere lo scopo della norma, consentendo anche di attualizzare il significato
della stessa) che lasciava troppa discrezionalità all’interprete, il quale si doveva limitare ad applicare e
spiegare il diritto secondo un meccanismo prevedibile di osservanza della volontà del legislatore. Anche i
giuristi di oggi, quindi, appaiono in qualche modo condizionati da questa visione del diritto, incapaci di
esprimere una libertà interpretativa.
Le fonti del diritto
Premessa
Per i Paesi dell’Europa orientale vale ciò che abbiamo detto per le fonti nella tradizione di civil law: anche
qui i codici affermano il monopolio del legislatore, nell’ambito della produzione del diritto, come interprete
della volontà popolare ed anche qui il giudice è costretto a svolgere un’attività creativa in maniera
nascosta. Tuttavia analizziamo alcune peculiarità delle fonti del diritto di questi Paesi.
Le costituzioni
Abbiamo già avuto modo di vedere che, per ciò che concerne la tradizione di civil law, al vertice della
gerarchia delle fonti troviamo sempre la Carta costituzionale e, su questo punto, i Paesi dell’Est non fanno
eccezione. La Polonia è il primo Paese, nel 1791, ad avere una propria Costituzione, durata solo un anno
per via della divisione del territorio polacco, fino a che nel 1921, dopo la prima guerra mondiale e la
conquista dell’indipendenza, non viene emanata una nuova Carta fondamentale; Romania e Bulgaria
giungono alla Costituzione nel 1800, in seguito all’indipendenza dall’impero Ottomano, mentre l’Ungheria,
Paese che abbiamo visto essere all’avanguardia rispetto a tutti gli altri, attende sino al 1949 e la
Costituzione è chiaramente di stampo socialista, ispirata a quella sovietica del 1936: ancora in vigore oggi,
tuttavia, è stata completamente modificata.
Sebbene vi siano tracce residue del modello sovietico, solo a livello di linguaggio, nelle Costituzioni dei
Paesi dell’est, esse possono considerarsi in tutto e per tutto di stampo democratico-liberale.
La giustizia costituzionale
Quindi la Costituzione rappresenta il vertice della gerarchia delle fonti in tutti i Paesi dell’Europa orientale
e, per tal motivo, è facile intuire che sia presente anche un sistema di controllo di costituzionalità delle
leggi. Il quadro, però, è assai complesso, dato l’elevato numero di realtà da prendere in considerazione.
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Partiamo col dire che quasi tutti i Paesi in questione hanno scelto il modello accentrato, in cui un solo
organo è preposto al controllo di costituzionalità; fa eccezione la sola Estonia, dove all’interno della Corte
suprema ordinaria è presente una sezione speciale con il compito di decidere le questioni di
costituzionalità delle leggi.
Ovviamente i Paesi dell’Est si sono ispirati, in tutto e per tutto, al modello francese, a quello tedesco,
spagnolo e così via. Anche qui un’eccezione: la Corte costituzionale rumena esercita sia un controllo
astratto preventivo sulle leggi, sia un controllo incidentale.
Le corti costituzionali, in tutti i modi, rappresentano in questi Paesi le creature ed al contempo i creatori
della transizione democratica, essendo contemporaneamente tanto causa quanto effetto della nuova fase
post-sovietica (basti pensare alle dichiarazione di incostituzionalità della pena di morte in Ungheria, non
approvata né dal Parlamento né dal popolo, che ha contribuito a rendere tale Stato il primo ad entrare a
far parte del Consiglio d’Europa).
Il diritto europeo
Parlando delle fonti del diritto non possiamo non citare il diritto dell’Unione Europea, ovviamente in
merito agli Stati dell’est che ne fanno parte, solo dieci (Estonia, Lettonia, Lituania, Ungheria, Polonia,
Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Bulgaria e Romania), mentre gli altri 13 ne rimangono fuori. Tutti,
invece, fanno parte quantomeno del Consiglio d’Europa e sono firmatari della CEDU (Convenzione Europea
dei Diritti dell’Uomo), salvo la Bielorussia, la quale non intende abrogare la pena di morte, condizione
necessaria per l’ingresso nel Consiglio.
Inoltre i Paesi dell’est che fanno parte dell’Unione Europea hanno dovuto adeguare i propri ordinamenti
per consentire l’operatività del diritto comunitario, ed in quest’ottica è stato fondamentale il lavoro delle
Corti costituzionali e l’indirizzo dalle stesse fissato: quella polacca si è spinta addirittura oltre, prevedendo
una vera e propria soggezione del diritto interno al diritto europeo, al contrario degli altri Paesi, inclini ad
osservarlo, salvo il caso in cui non sia conforme ai principi fondamentali di quell’ordinamento (proprio
come avviene da noi). Infatti solo la Polonia non ha posto tale limite, mentre gli altri Stati hanno ribadito il
primato delle proprie Corti costituzionali sulle decisioni della Corte di giustizia di Lussemburgo dell’UE.
Le leggi
La legge, nei Paesi dell’Europa orientale, ha la stessa valenza che possiede all’interno degli altri Stati di civil
law, con un’unica differenza: se il Codice, in linea generale, rappresenta una rottura col passato, destinato
ad un’applicazione duratura, in questi Paesi questa concezione non esiste, in quanto essi hanno dovuto
fronteggiare diversi cambiamenti e, pertanto, si sono ritrovati dinanzi a continue variazioni dei propri
codici, arrivando talune volte a stravolgerli dopo un determinato evento storico.
L’organizzazione giudiziaria ed il ruolo della giurisprudenza
Il sistema giudiziario dei Paesi dell’Europa orientale si articola, ispirandosi a quello francese, in tre gradi di
giudizio, anche se le corti di ultima istanza, o quanto meno la maggior parte di esse, seguono il modello
tedesco di “revisione”, in cui la Corte suprema si presenta come un vero e proprio terzo grado di giudizio,
che entra nel merito della questione. Particolare è il caso della Corte suprema ceca che, da un lato è
competente a decidere solo in talune ipotesi, mentre dall’altro non scende nel merito della questione, ma
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si limita ad annullare la sentenza impugnata e a rinviarla presso un giudice di pari grado rispetto a quello di
seconda istanza.
Tuttavia, se forte è l’impronta della tradizione di civil law sulle Corti costituzionali, artefici come abbiamo
già detto della transizione democratica e che, sempre più spesso, fanno riferimento anche a sentenze
straniere, non si può dire lo stesso per ciò che concerne la giustizia ordinaria ed il ruolo della
giurisprudenza. Abbiamo detto che, nella tradizione di civil law, benché non valga il principio dello “stare
decisis” (del precedente giudiziario), la giurisprudenza tiene sempre in gran conto il parere della dottrina e
le precedenti decisioni di altri giudici. Abbiamo anche sottolineato come, in tali ordinamenti, il giudice
svolga quasi un’attività creativa “nascosta”: la decisione giurisprudenziale non è fonte del diritto, ma lo
diviene nel momento in cui si consolida l’orientamento dei giudici.
Tutto ciò, all’interno dei Paesi dell’Est e delle loro corti di giustizia ordinaria, fossero anche le Corti
supreme, non avviene: così come per i giuristi in dottrina, anche i giudici sono restii ad interpretare il
diritto in modo creativo, ad innovarlo; essi si limitano all’applicazione, quasi meccanica, di leggi,
regolamenti e decreti. Si tratta, quasi sicuramente, di un’abitudine dettata dal passato socialista, in cui non
venivano accettate, come abbiamo avuto modo di sottolineare, l’interpretazione teleologica, così come
l’eccessiva libertà ed intraprendenza dei giuristi. Questa resistenza degli ambienti giudiziari, tra l’altro,
determina degli scontri con le stesse Corti costituzionali, dato il vento di innovazione di cui esse sono
portatrici.
Il ruolo della dottrina
La dottrina est-europea ha rivestito, nel corso della storia, un ruolo di pari importanza rispetto a quella
occidentale: basti ricordare la prima università d’oltralpe ad insegnare il diritto romano, ossia quella di
Praga, fondata nel 1348. Anche i giuristi dell’Europa orientale, al pari dei nostri, sono stati artefici
dell’opera di codificazione, così come hanno dovuto assistere il legislatore nell’emanazione della varie
discipline.
Tuttavia, una differenza di estrema rilevanza esiste ed è dettata dall’estremo approccio “positivista”: come
per la giurisprudenza, anche per la dottrina il tempo, durante il periodo socialista, sembra essersi fermato;
anche i giuristi, come i giudici, sembrano essere troppo ancorati al diritto positivo, senza svolgere alcuna
opera interpretativa sfruttando la propria creatività.
Concludendo, “sembra che il marxismo-leninismo abbia creato uno scarto temporale significante nello
sviluppo intellettuale dell’Europa orientale” (ho citato la frase del testo, meritava attenzione per la sua
chiarezza). 54
CAPITOLO III – LA TRADIZIONE DI COMMON LAW
SEZIONE I – LE ORIGINI
Common law: significato e natura
Partiamo col dire che, se consideriamo la tradizione giuridica occidentale nel suo complesso, ossia civil law
e common law insieme, possiamo subito notare un elemento in comune: la figura professionale del
giurista. Tale figura, per esempio, difetta nelle tradizioni dell’estremo oriente o nei sistemi africani e tende
ad avvicinare di molto le due tradizioni occidentali. Tuttavia se questo è il punto di convergenza è anche
quello di differenza, nel senso che qui da noi, nei sistemi di civil law, padroneggia il giurista dotto, mentre
nella common law quello pratico, in particolar modo il giudice, dal cui ruolo partiamo per descrivere la
common law.
Common law/civil law
Anzitutto forniamo la definizione esatta di “common law” utile al nostro studio: con tale termine si indica
quella particolare famiglia giuridica occidentale distinta dalla civil law, dalla tradizione romanista in
generale, che affonda le proprie radici nel diritto inglese e che comprende diversi ordinamenti, dato il
successo e la circolazione del modello.
Il modello di common law, quindi, parte dall’Inghilterra e, dal 1600, si diffonde in tutti i Paesi colonizzati
dall’impero britannico: Americhe, India, Africa, Australia e Nuova Zelanda. Ovviamente il grado di
penetrazione del modello inglese varia da caso a caso, in quanto occorre prendere in considerazione la
durata della presenza britannica, il rapporto che si instaura con le colonie (un semplice protettorato o
un’integrazione completa), la capacità ed il grado di sviluppo del diritto autoctono.
Tra i vari ordinamenti della famiglia della common law vi sono tante differenze quante sono le similitudini:
attualmente il veicolo di diffusione di gran lunga più importante della common law è, sicuramente, il diritto
americano, che possiamo considerare come assestante rispetto a quello inglese, data la particolarità
sviluppata dal diritto statunitense. Tuttavia, la presenza del Privy Council, al contrario, contribuisce a
rendere omogenea la tradizione in questione. Si tratta di una corte sovrannazionale per il Commonwealth,
dotata di autorità persuasiva nei confronti di molti Paesi, che col passare del tempo, però, ha perso gran
parte della sua importanza: nel periodo coloniale, per esempio, esercitava la judicial review, ossia il
controllo di legittimità sul diritto delle colonie per assicurarne la conformità a quello della madrepatria.
I sistemi di common law, poi, sono tutti sistemi “aperti” in cui si parla la medesima lingua: queste due
caratteristiche contribuiscono, e non poco, a renderli piuttosto omogenei.
Se i primi comparatisti si soffermano, però, sulle differenze tra le tradizioni di civil law e common law,
sottolineando “il valore del precedente”, il potere di law-making del giudice, il diverso ruolo della dottrina
e la scarsa penetrazione del diritto romano in Inghilterra e nelle colonie, ultimamente la tendenza è
completamente inversa, in quanto si pone l’accento su quelle che sono le convergenze tra le due culture
giuridiche. 55
Common law/equity
La distinzione tra common law ed equity, differentemente da quella esaminata nel paragrafo precedente,
non ha solo valore sistematico, ma ha soprattutto un’importanza storica interna al diritto inglese.
Per common law, infatti, si intende quel ramo del diritto inglese elaborato, caso dopo caso, dalla
giurisprudenza delle corti di Westminster a partire dalla conquista normanna del 1066. L’equity, invece, è il
ramo del diritto inglese scaturito, a partire dal XIV secolo, dall’operato della corte di cancelleria,
caratterizzato da rimedi processuali estranei al rigore della common law. I due rami del diritto sono
amministrati, almeno fino alle importanti riforme del XIX secolo, da corti diverse.
Common law/statute law
Common law significa diritto giurisprudenziale (comprendente common law in senso stretto ed equity),
ossia insieme di regole create dalle corti superiori come frutto delle decisioni prese per dirimere delle
controversie concrete tra individui e si contrappone, ovviamente, agli Statutes (o Acts), ossia le leggi del
Parlamento, frutto del diritto di creazione legislativa.
Il “diritto inglese”
La common law, dunque, affonda le sue radici nel diritto inglese, nel diritto elaborato dalle corti centrali di
Londra a partire dalla conquista normanna. Per diritto inglese, però, possiamo intendere SOLO il diritto del
regno d’Inghilterra, del quale fanno parte, dal 1536, anche il Galles e l’isola di Wight.
Tuttavia non dobbiamo confondere il diritto inglese con il diritto “britannico” o con il diritto del “Regno
Unito”: per Gran Bretagna si intende un’entità territoriale e politica determinata dalla fusione tra
Inghilterra e Scozia, realtà che ha conservato, anche dopo l’unione, il proprio ordinamento giuridico,
influenzato dal diritto romano, e ben diverso da quello inglese; per Regno Unito si intende l’unione tra
Inghilterra, Scozia ed Irlanda del Nord, un vero e proprio Stato che, fino al 1998, è stato soggetto
all’autorità politica nazionale del Parlamento di Westminster, ma in cui, dopo tale data, si è attuata la c.d.
devolution, uno spostamento di poteri normativi a particolari organi di altre aree geografiche con proprie
caratteristiche (Scozia, Irlanda del Nord e Galles).
Se vogliamo essere puntiglio il diritto inglese non è neanche diritto dell’isola di Man o delle isole della
Manica, le quali pur dipendendo dalla Corona non fanno parte del Regno Unito.
Le origini della common law e l’affermazione delle corti centrali di Westminster
La nota affermazione “comparison involves history” (la comparazione coinvolge la storia) è quanto mai
vera per l’esperienza della common law, la quale è il risultato diretto della storia d’Inghilterra: il diritto
inglese, infatti, non ha subito processi di codificazione e non consiste in un complesso di norme ed istituti
ben distinti e classificati, ma è il risultato delle tecniche e della giurisprudenza accumulatesi dal XII secolo
ad oggi. Punto di partenza storico è sicuramente la battaglia di Hastings del 1066, in cui il normanno
Guglielmo I detto il Conquistatore riesce a sconfiggere l’ultimo sovrano sassone, Arnoldo II, sostituendo al
sistema barbarico di quest’ultimo una complessa struttura feudale e le istituzioni pubbliche normanne.
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Struttura unitaria della monarchia normanna
L’apparato istituzionale normanno è completamente incentrato sulla garanzia del potere del vertice: il
sovrano conserva il Ducato di Normandia ed i vasti feudi dell’Aquitania, mentre i Lords (tenants in chief)
sono legati al re per ciò che concerne il godimento dei fondi, essendo titolari di piccoli feudi, ed il profilo
politico-militare; poi ci sono i sub-tenants, legati ai Lords per la terra, ma legati direttamente al sovrano
sotto il profilo politico e militare. Quindi la monarchia normanna è si una monarchia feudale ma non
conosce, come invece avviene nel Sacro Romano Impero, una feudalizzazione delle funzioni pubbliche: ciò
non permette ai signori di conquistare posizioni di potere simili a quelle dei feudatari tedeschi o francesi.
La monarchia normanna ha, dunque, una struttura unitaria ed una mentalità “precocemente” burocratica:
il primo aspetto è testimoniato dall’obbligo di fedeltà al re (Lord paramount), proprietario delle terre per
investitura divina; il secondo aspetto è testimoniato, invece, dal Domesday Book del 1085, un censimento
generale volto a formare un libro del catasto, voluto dallo stesso Guglielmo ed operato, in ogni contea, da
un ufficiale regio, dal clero e da quattro agricoltori. Da tale censimento emerge la situazione inglese del
tempo: 9000 signori che controllano l’80% delle terre, 33.000 freemen (uomini liberi), categoria privilegiata
di sudditi, 106.000 villani che coltivano liberamente la terra della quale non possono disporre, 89.000
contadini che coltivano la terra in condizioni miserevoli e 25.000 servi privi di libertà e costretti ai lavori più
umili. Il Domesday Book risulta utilissimo per il controllo dell’apparato normanno nella sua totalità, ai fini
fiscali, giudiziari, amministrativi, di polizia e militari ed è una mossa all’avanguardia, considerato che siamo
nel XI secolo e che, un provvedimento in tal senso in Francia, sarà adottato solo nel XVIII secolo.
Quindi struttura unitaria e mentalità burocratica sono il punto di forza della monarchia normanna: Paolo
Grossi, nella sua opera l’Europa del diritto, sottolinea come il Medioevo inglese sembri finire già nel 1066,
data la creazione di un apparato statale centralizzato, anche se il maestro sottolinea come il Medioevo
giuridico duri sino ad oggi proprio in forza della Common law.
La centralizzazione delle corti
La struttura unitaria dello Stato normanno (possiamo già definirlo Stato) si manifesta anche
nell’amministrazione della giustizia, data la centralizzazione delle corti e la concentrazione a Londra di
giudici ed avvocati: la common law rappresenta il prodotto giuridico dell’organizzazione amministrativa,
che si estrinseca nella formazione di un nuovo diritto comune a tutto il regno, diritto di matrice regia ma
posto in essere dagli uomini di prassi, che spazza via tutte le consuetudini locali. In Inghilterra, dunque,
viene eliminato quel particolarismo giuridico che domina il resto d’Europa sino al periodo delle
codificazioni: qui non esistono vari ordini giuridici, quali la lex mercatoria, il diritto romano, quello canonico
e così via, ma si afferma un diritto uniforme, unitario, la common law.
L’accentramento regio della giurisdizione si articola su tre piani: affermazione delle corti regie, giustizia
itinerante e sistema dei writs.
Le corti regie di Westminster
Al centro di tutto vi è la “curia regis”, la corte londinese dei sovrani normanni, presieduta dal sovrano
coadiuvato dai Lords, il quale provvede alla gestione dello Stato ed all’amministrazione della giustizia. La
curia regis, dunque, è un organo centrale, anche quando svolge funzioni al seguito del re ed anche quando
opera tramite commissioni lontane dal luogo della corte e in assenza del sovrano.
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Funge da corte feudale dei grandi vassalli, i Lords, ma è anche la corte a cui si ricorre nel caso di “breach of
the King’s peace”, ossia nelle ipotesi di violazione della pace del regno, quando cioè le corti locali non siano
riuscite a rendere giustizia.
All’interno della curia regis, tra l’altro, vi sono tre organismi con sede, fino al 1882, nel palazzo di
Westminster, operanti inizialmente come commissioni della curia e in un secondo momento come corti
assestanti, detentrici della funzione giurisdizionale e composte da giuristi: l’Exchequer, il Common Pleas e il
King’s Bench.
L’Exchequer nasce come commissione della curia regis con compiti contabili, occupandosi inizialmente di
gestire il tesoro reale e di raccogliere le entrate, fino a quando nel XIII secolo diviene indipendente dalla
curia e si articola in due organismi, l’Exchequer of Account and Receipt e la Court of Exchequer. Tutti i suoi
membri sono baroni, giudici a tempo pieno in un primo momento e veri e propri giuristi in seguito.
La corte ha soprattutto una funzione fiscale, ma si occupa anche di questioni debitorie per mezzo di
“finzioni”, come la Quominus, in forza della quale se vi è un debito non soddisfatto il creditore può
ritrovarsi a non poter pagare i tributi locali e, per tal motivo, la Court of Exchequer interviene con un
apposito writ, un ordine, con cui il creditore è autorizzato a promuovere un procedimento nei confronti
dell’inadempiente (il debitore), all’interno del quale quest’ultimo dovrà provvedere al pagamento, utile al
creditore per far fronte ai tributi immediatamente.
L’Exchequer scompare nel XIX secolo, quando le proprie competenze fiscali vengono trasferite alla
Chancery Division della High Court e quelle di common law alla King’s Bench Division.
Court of common pleas
La (Corte delle cause civili) si occupa delle udienze comuni, delle liti fra
commoners, ossia delle controversie tra privati: è inizialmente composto da una curia formata da 2
ecclesiastici e 3 laici, mentre diviene corte autonoma a partire dal XIII secolo, quando viene nominato il
primo Chief Justice of the Common Pleas (Gilbert de Preston); nel XIV secolo i membri sono 4, tre più il
Chief Justice, scelti tra i “servientes ad legem”, ossia i giuristi più esperti. A livello quantitativo è la corte
che ha più lavoro da svolgere, dato che dirime le controversie tra privati ed è considerata come “the lock
and the key of the common law”, proprio per la sua importanza.
King’s Bench,
Il la Corte del Banco del Re, è in origine presieduta dal sovrano e lo segue nelle sue
peregrinazioni. Diventa da subito indipendente dal re, addirittura arrivando ad escluderlo nel 1613 quando
Giacomo I Stuart pretende di considerare i giudici come suoi delegati e di sostituirsi ad essi nelle decisioni.
Già dal XIII secolo si compone di giudici tecnici del diritto (juniores), presieduti da un Chief Justice
(presidente/capo della corte), e la sua competenza si estende ai “pleas of the Crown” (appelli alla Corona),
cause che coinvolgono direttamente il re come organo sovrano, oltre a giudicare le cause penali in cui vi
siano reati di ordine pubblico (Domini Regis, coronam et dignitatem suam). Se in primo grado il King’s
Bench è competente limitatamente al luogo in cui si trova e per il tempo in cui vi si trova, in secondo grado
la corte è titolare di una “supervisory jurisdiction” su tutta la giustizia penale, esercitata mediante
strumenti processuali quali il “writ of certiorari” (possibilità di avocare a se cause in corso presso una corte
inferiore, incapace di garantire un giusto processo o non in possesso della competenza adeguata), il “writ
of error” (indirizzato contro sentenze di primo grado palesemente viziate) e la “motion for new trial” (con
cui si ha una rinnovazione del processo per una “miscarriage of jurors”, un errore della giustizia, dei
giurati). 58
Sotto il profilo civile il King’s Bench è competente a giudicare i casi di trespass, illecita e violenta invasione
nella sfera giuridica personale o patrimoniale di un soggetto, con cui si passa, tramite un’evoluzione
giurisprudenziale, alla competenza nei casi di risarcimento del danno derivante da inadempimento del
contratto.
Una funzione di controllo (supervisory jurisdiction) viene esercitata nei confronti delle corti inferiori per
mezzo di rimedi straordinari (prerogative writs), quali il già citato writ of certiorari (avocazione), il writ of
prohibition (divieto di procedere rivolto ad una corte incompetente a trattare un caso), il writ od
mandamus (ordine di occuparsi di un caso trascurato o mal condotto), il writ quo warranto (indagine volta
a capire chi esercita funzioni pubbliche con implicazione giudiziarie), il writ of habeas corpus (ordine di far
comparire un soggetto dinanzi al King’s Bench con l’indicazione dei motivi che hanno condotto all’arresto).
N.B. ho dovuto citare molte parti del libro, in quanto ho ritenuto non riassumibile in poche parole dei
concetti sottolineati dagli autori come di fondamentale importanza.
Le corti speciali
Accanto ai tribunali ordinari, almeno inizialmente, figurano diversi tribunali dotati di giurisdizione speciale,
che si avvalgono di un diritto romano-canonico: le corti ecclesiastiche, le corti mercantili e quelle
marittime.
Anzitutto, lo stesso Guglielmo I, in risposta all’appoggio ricevuto dalla Chiesa nella sua opera di conquista,
assicura indipendenza alla stessa e le conferisce esclusiva giurisdizione in materia matrimoniale e
testamentaria, nelle questioni in cui sono coinvolti chierici o beni della Chiesa, così come per i reati di
bestemmia ed eresia. Tali corti, ovviamente, decidono secondo il diritto canonico, che proprio in quel
periodo è in via di sistemazione (non è ancora stata pubblicata l’opera di Graziano). Tuttavia, come è facile
intuire, non mancano i primi conflitti con la giurisdizione ordinaria, superati nel XVI secolo con la Riforma.
Il diritto inglese, ciò nonostante, deve molto al diritto canonico, dal quale ha appreso importanti nozioni
(pensiamo al concetto di buona fede) ed al quale continua a fare riferimento anche quando la giustizia
viene ricondotta ad unità.
Le corti mercantili, invece, applicano la lex mercatoria, ossia il diritto comune della pratica commerciale,
fino a che nel XV secolo le corti ordinarie di common law non ne assorbono le competenze.
Le corti marittime, infine, applicano un diritto fondato sullo ius gentium e sulle relazioni internazionali per
tutto il Medioevo, fino a che anche il diritto della navigazione non viene ricompreso nella competenza delle
corti di common law.
La giustizia itinerante
Abbiamo detto che l’accentramento della giurisdizione, al fine di eliminare le corti locali, è garantito anche
dalla “giustizia itinerante”: il sovrano normanno si rifiuta di istituire delle corti regie periferiche e
permanenti, mentre preferisce inviare i suoi giudici nelle province del regno, per estendere la common law
a tutta l’Inghilterra senza il bisogno di affidare tale compito ad organi del luogo.
Nel 1176, con Enrico II, si ha l’Assize of Northampton, con il quale l’Inghilterra viene divisa in contee,
visitate periodicamente dalla “corte itinerante” dotata di mandato reale.
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Unico organo di giustizia, polizia ed amministrazione locale è lo “sheriff”, eletto annualmente e sottoposto
a controlli periodici, il quale rappresenta la “longa manus regia” nell’amministrazione della giustizia.
Il sistema dei writs
Ultimo elemento che contribuisce ad assicurare l’accentramento del potere giurisdizionale è offerto dal
sistema dei writs.
Abbiamo potuto osservare che la Corte regia, parte del consiglio del re, inizia pian piano a sostituire le corti
locali: attenzione, però, esse non vengono abolite ma cadono semplicemente in desuetudine, dato che i
litiganti preferiscono affidarsi alla giustizia amministrata dal sovrano. Si forma, in sostanza, una vera e
propria concorrenza tra corti locali e corte regia, dalla quale esce vincitrice quest’ultima, in quanto offre sia
sotto il profilo penale che sotto quello civile, maggiore elasticità e nuovi rimedi, maggiore efficienza e
nuove forme di tutela quando il caso concreto lo richiede, creando nuovi writs (ordini/rimedi). Accanto al
giudice, poi, inizia a comparire, a partire dal regno di Enrico II, la giuria (nel trial by jury, processo con
giuria). Le corti reali, poi, si servono di “finzioni giuridiche”, come quella inerente la violazione della pace
del regno, dell’ordine pubblico, con le quali inglobano nella propria giurisdizione le cause più varie, specie
in materia penale. Enrico II, poi, introduce la tutela possessoria, per cui lo spossessato deve essere subito
reintegrato senza alcuna indagine sul titolo, così come introduce l’esecuzione coatta delle decisioni dei
giudici, sempre dinanzi alla Corte regia.
Quest’accentramento, ovviamente, contribuisce (e non poco) a diffondere la common law e ad evitare la
penetrazione del diritto romano-comune, garantendo, tra l’altro, la formazione di uno stato unitario, di un
apparato centrale forte. L’amministrazione centralizzata della giustizia ha un solo difetto: da luogo ad un
sistema carente a livello locale, problema risolto solo nel 1846 con l’introduzione delle “county courts” (le
corti della contea).
Il funzionamento del sistema dei writs
Quindi i writs (o brevi) sono uno dei mezzi di espansione della giurisdizione regia tra il XII ed il XIII secolo: si
tratta di “ordini del sovrano”, scritti in latino su pergamena e dotati di sigillo reale, inviati allo sheriff o al
Lord che presiede una corte locale, volti a sottrarre la trattazione di una causa ai signori feudali o alle corti
del luogo. La lite, quindi, inizia dinanzi alle corti locali ma finisce dinanzi alla corte regia per
l’insoddisfazione della parte/delle parti.
Si tratta di uno strumento, dunque, tanto politico quanto giuridico: da un lato, infatti, garantisce al re di
intromettersi nella giustizia delle corti locali e di esautorarle; d’altro canto, invece, il writ permette ad un
diritto soggettivo di sorgere, in quanto nel diritto inglese i “rimedi (writs) precedono i diritti”. Infatti
l’attore che intende adire la giustizia regia deve, prima di tutto, ottenere un writ, dietro pagamento di una
somma di denaro, in quanto solo “la finzione di disubbidienza all’ordine del re rende i suoi giudici
competenti a conoscere il caso”.
Quindi, col passare del tempo, si creano un numero svariato di writs, con cui il sovrano non fa altro che
“legiferare indirettamente” sulla materia del diritto privato: tra writs e legislazione, infatti, non esiste
alcuna differenza, se non formale, in quanto in entrambi i casi vi è l’attribuzione di diritti e doveri (compito,
appunto, del diritto privato). In sostanza, nella common law “writ, remedy and right are correlative terms”:
writs, rimedio e diritto sono sinonimi l’uno dell’altro.
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I singoli writs, tra l’altro, vengono “VENDUTI” agli interessati, con il doppio risultato di incrementare il
tesoro reale e di accrescere la competenza delle corti reali, a scapito di quelle signorili presiedute dai
baroni.
Il writ, tuttavia, pur provenendo dal re, viene in tutto e per tutto elaborato nella segreteria del cancelliere e
può avere due destinatari diversi:
Lo sheriff, al quale viene imposto un comando di esecuzione di un servizio, come la previsione che
• un soggetto restituisca una somma di denaro ad un altro o si presenti dinanzi alla Corte regia per
spiegare le proprie ragioni;
Il Lord titolare di una corte feudale, al quale viene imposto di rendere giustizia, pena l’avocazione
• della causa da parte della Corte regia.
Tra l’altro l’inosservanza dell’ordine determina l’imprigionamento del soggetto inottemperante.
Il writ è, in conclusione, il presupposto dell’azione dinanzi alla Corte regia: non significa ottenere una
pronuncia favorevole, ma accedere alla giustizia del sovrano.
Una distinzione che possiamo fare è quella tra “writs ordinari” (brevia de cursu/writs of course), consolidati
nella prassi giudiziaria ed annotati nel Registrum brevium, tenuto presso la cancelleria e a disposizione
degli acquirenti e “writs straordinari” (brevia de gratia/writs of grace), a carattere eccezionale, ottenuti dai
poveri gratuitamente o dagli abbienti pagando somme altissime, dato che è richiesta una nuova
elaborazione non contemplata nel Registrum brevium.
E’ facile intuire, nonostante quanto abbiamo appena detto, che i baroni titolari delle corti locali non
appaiono molto contenti, in questo periodo, della sottrazione di competenza operata dallo “Stato
centrale” (se così vogliamo definirlo) e tale opposizione è manifestata in tre documenti di straordinaria
importanza del XIII secolo, periodo in cui inizia la crisi dei writs: la Magna Charta del 1215, le Provisions of
Oxford del 1258 e lo Statute of Westminster II del 1285.
La crisi del sistema dei writs
Con la Magna Charta del 1215 i baroni riescono ad ottenere, dal sovrano, un primo documento di garanzia
dei “diritti di libertà”, volto anche ad arginare il potere dello stesso monarca, prevedendo nelle clausole 60
e 61 che lo stesso sovrano, così come i suoi vassalli, siano soggetti al diritto esistente e che la violazione da
parte del re possa dar luogo all’insurrezione dei baroni ed alla sottrazione al proprio dovere di fedeltà.
Ma se le clausole 60 e 61 pongono limiti al potere regio, le clausole 34 e 39 tutelano le prerogative
giudiziarie dei baroni: con la clausola 34 viene previsto che le cause riguardanti le terre oggetto del
dominio feudale di un barone debbano essere sotto la competenza dei signori locali; con la clausola 39,
invece, viene garantito il “due process”, il giusto processo, data la necessità di giudicare un soggetto
tramite “un giudizio legale dei suoi pari”.
Il secondo documento di estrema importanza che analizziamo, dal quale si avvertono le tensioni tra baroni
e sovrano, è costituito dalle Provisions of Oxford, imposte dai baroni in cambio del loro aiuto in armi e
denaro ed emanate da Enrico III nel 1258: il governo del regno deve essere affidato ad un “comitato
riformatore”, con il compito di nominare il Chief Justice, il Tesoriere ed il Cancelliere e vigilare sull’operato
di questi annualmente, oltre che di riformare “ciò che necessita di essere riformato”. Le Provisions of
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Oxford hanno un altro merito: la cristallizzazione dei writs, in forza della quale non è più possibile
emetterne di nuovi e straordinari se non con l’approvazione del re e del suo consiglio. Se prendiamo in
considerazione l’equivalenza fatta prima tra writs e legislazione, possiamo ben capire come la common law
veda arrestato, improvvisamente, il suo sviluppo.
Il superamento della crisi e l’evoluzione del writ of trespass
Lo Statute of Westminster II, 1285
A sanare la situazione di eccessivo irrigidimento della common law, causata dalle Provisions of Oxford,
interviene lo Statute of Westminster II del 1285, una sorta di accordo tra re e baroni, che al 24 contiene
un’importante previsione: nonostante permanga il divieto di nuovi writs, se non con l’approvazione del
Parlamento, la cancelleria del re ha il potere di estendere i writs esistenti a casi simili, a fattispecie
analoghe a quelle previste nel Registrum, sebbene non identiche. Alcuni autori ritengono questa possibilità
di fondamentale importanza per la ripresa della common law, mentre altri ritengono che tale potere sia
stato utilizzato con eccessiva parsimonia.
La tecnica dell’action on the case: dal trespass al trespass on the case
Siamo arrivati al punto in cui la giurisprudenza della common law assume il ruolo a cui, nel corso della
nostra trattazione, abbiamo più volte accennato: si tratta dell’action on the case, del procedimento sul
caso concreto, nel quale si da vita all’elaborazione giurisprudenziale evolutiva. Le corti, in sostanza,
nell’impossibilità della concessione di nuovi writs, si applicano per riconoscere la validità e l’ammissibilità
di azioni derivate da writs consolidati inerenti casi simili.
I giudici, in poche parole, ammettono che l’attore, ricevuto un writs noto in quanto contemplato nel
Registrum, esponga una “declaration” (dichiarazione) dettagliata dei fatto, evidenziando l’opportunità di
veder applicato quel particolare writ alla propria situazione.
Il writ su cui, principalmente, viene attuato questo sistema è il c.d. trespass.
Il writ of trespass è, inizialmente, concesso a chi ha subito un’illecita e violenta lesione della sua sfera
giuridica patrimoniale o personale, a chi, in sostanza, ha subito un atto materiale di forza che ha
determinato un danno a se stesso o ai suoi beni, oltre che una “violazione vi et armis (tramite la forza e le
armi)dell’ordine pubblico, della pace del regno”. Nel XII secolo esistono tre tipi trespass: to person (nei
confronti della persona), to goods (nei confronti dei beni) e to land (nei confronti della propria terra). Il
trespass utilizza, tra l’altro, il trial by jury (processo con giuria) e comporta l’imprigionamento del
convenuto oltre che il risarcimento del danno.
Nel XIV e XV secolo, invece, si ha un’evoluzione con l’elaborazione delle corti del “writ of trespass on the
case”, ossia l’applicazione al caso concreto, con la quale si fanno rientrare in tale writ tutte le ipotesi di
condotta dannosa e di illecito civile, senza che occorra l’uso formale della forza, ma con la sola necessità
che l’attore abbia subito un danno, personalmente o ai suoi beni, causato dal comportamento negligente o
doloso di un altro soggetto (per fare un esempio: viene imprigionato e costretto al risarcimento un
soggetto che ha lasciato un tronco in mezzo alla strada, provocando con la sua negligenza la caduta da
cavallo dell’attore…FIGURIAMOCI QUANTI INCIDENTI FALSI AVREMMO FATTO QUI SE AVESSERO
APPLICATO UN SISTEMA SIMILE). 62
L’assumpsit: origine della tutela contrattuale
L’estensione per analogia dell’action on the case prosegue per tutto il XV secolo ed anche nel XVI, dando
luogo a due azioni diverse, in forza della tutela contro l’inadempimento contrattuale e contro lo
spossessamento mobiliare.
of trespass on the case in assumpsit”
Il “writ si ha nel momento in cui l’attore specifica che il convenuto si
è obbligato a fare qualcosa, ma non avendo adempiuto o avendo adempiuto inesattamente, ha provocato
un danno alla persona o ai beni dell’attore. Si attua, dunque, una tutela contro l’inadempimento o contro il
non corretto adempimento. Se inizialmente è richiesta comunque la promessa del convenuto di assumersi
un obbligo, col passare del tempo ed a partire dallo Slade’s case del 1602, non c’è più la necessità della
promessa, che può essere implicita e pertanto presunta: in quest’ultima ipotesi, dunque, non si ha solo
l’estensione analogica del writ of trespass, ma addirittura l’estensione dello stesso assumpsit, che prende il
nome di indebitatus assumpsit, notevole per il diritto dei contratti inglese.
Dopo quella dell’assumpsit si sviluppa, sempre partendo dal writ of trespass on the case, anche l’azione di
“trover”, basata sulla finzione che l’attore richieda, perduti i suoi beni poi ritrovati e convertiti al proprio
uso dal convenuto, la restituzione degli stessi.
Tuttavia, tutte queste azioni derivano pur sempre dal trespass e comportano il risarcimento e
l’imprigionamento del convenuto, non suscettibili di esecuzione forzata in forma specifica, il che porta ben
presto, al fine di ottenere un decreto in tal senso, verso la procedura di equity.
Ubi remedium ibi ius e “remedies precede rights”
Ecco, dunque, che possiamo notare una prima importante convergenza tra due tradizione distanti nel
tempo, come nascita, e lontane in forza della mancata penetrazione dell’una nell’altra: stiamo parlando
della vicinanza tra diritto romano e common law. Le frasi titolo del paragrafo rendono l’idea più di mille
parole: “Ubi remedium ibi ius”, dove c’è un rimedio c’è il diritto, così come, nella common law, “remedies
precede rights”, i rimedi precedono i diritti. In entrambi i casi il rimedio, che scaturisce da un documento
(formulae e writs), da luogo al diritto, lo riconosce e lo rende applicabile al caso concreto, perché è da
quest’ultimo che trae spunto lo stesso documento.
La Court of Chancery e lo sviluppo del’equity
L’equity è il sistema di diritto giurisprudenziale creato dalla Chancery Court nel XIV secolo, affiancato da
quel momento sino ad oggi al sistema di common law (inteso in senso stretto): è l’impronta dualista che
contraddistingue questa tradizione giuridica.
Le ragioni dell’affermazione dell’equity
Le origini dell’equity sono rinvenibili nella caduta di popolarità ed efficienza del sistema di common law in
senso stretto: abbiamo già accennato a come, dopo le Provisions of Oxford, la common law diventi più
rigida, data l’impossibilità di emettere nuovi writs, ed a come, anche successivamente allo Statute of
Westminster II, il potere di elaborarne di nuovi in consimilibus casibus (in casi analoghi ed assimilabili a
quelli dei writs già esistenti e consolidati) sia scarsamente utilizzato.
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A ciò si aggiunge la procedura sempre più formalistica delle corti di Westminster, il che comporta la perdita
di molte cause per soli motivi tecnici. La concessione del writ da parte del cancelliere, inoltre, assicura
l’ACCESSO alle corti di common law, ma non la vittoria della causa: le corti di Westminster rivendicano,
sempre con più forza, il proprio potere discrezionale, l’esercizio del quale può portare lo stesso attore, che
ha ottenuto il writ, a perdere la causa.
Molti soggetti, per tutti questi motivi, fanno appello direttamente al sovrano, al fine di ottenere una
decisione secondo aequitas: la petizione viene rivolta al cancelliere, definito come keeper of the king’s
conscience (custode della coscienza del re), che ha il potere di decidere se trasmetterle al monarca
affinché egli decida in consiglio. A partire dalle guerra delle Due Rose, tuttavia, le riunioni del consiglio
divengono rare e si viene a creare una giurisdizione autonoma del cancelliere, la quale da luogo ad un
insieme di regole e principi costituenti dell’equity.
Caratteristiche essenziali dell’equity
L’equity altro non è che un insieme di regole complementari, e non sostitutive, rispetto a quelle di
common law, intuibile tramite il principio “equity follows the law”, l’equity segue la legge. Il cancelliere,
dunque, agisce non contro la common law, ma all’interno di essa e per temperarne il rigore, specie nelle
ipotesi in cui l’applicazione della stessa darebbe luogo ad una summa iniuria (somma ingiustizia).
Inizialmente, tra l’altro, come sottolinea lo studioso Maitland, l’equity è caratterizzata da inorganicità al
punto che “senza la common law sarebbe come un castello in aria”: si crea un rapporto simile a quello
esistente, nella tradizione di civil law, tra codice e legislazione speciale, tale che il primo può sopravvivere
senza la seconda, ma non viceversa.
Inoltre, l’attore che presenta la petizione al cancelliere non ha alcun diritto alla pronuncia della Chancery
discrezionalità
Court, data che la è uno degli elementi chiave dell’equity: se la giurisdizione delle corti di
Westminster si configura come eccezionale, la giurisdizione dell’equity lo è in maggior misura.
Le corti di common law, sin dal XIII secolo, si concentrano su rimedi volti, da un lato, a recuperare la terra
di cui l’attore è stato illecitamente privato, e, dall’altro, all’ottenimento del risarcimento dei danni: la
fortuna e la diffusione della Chancery Court è determinata proprio dall’introduzione di nuovi rimedi
(esecuzione in forma specifica, tutela preventiva ed injuction), più efficaci di quelli della common law.
Inoltre l’artefice di tutto è il cancelliere, che almeno inizialmente è un ecclesiastico, il quale si avvale di
chierici e del diritto canonico per la risoluzione delle controversie: si vengono a scontrare, dunque, la
pubblicità, l’oralità e la presenza della giuria, elementi caratterizzanti le corti di Westminster, con la
segretezza, la forma scritta e l’assenza di giuria proprie dell’equity.
Il procedimento di equity si svolge in questo modo: l’attore presenta la propria petizione al cancelliere, il
bill,
quale ne notifica una copia, definita come alla controparte, con in allegato un ordine di comparizione
in un determinato giorno, sub poena di gravi sanzioni; se il convenuto non si presenta la Chancery Court ha
il potere di far eseguire la propria decisione, presa nel silenzio dell’assente: se la common law acts in rem,
agisce sulle cose, l’equity acts in personam, agisce sulla persona. L’inottemperanza del convenuto può
essere punita con una pena pecuniaria o, addirittura, con l’arresto per “contempt”, oltraggio alla corte. Il
cancelliere, dunque, ha un enorme potere nelle sue mani: egli può domandare al convenuto di rispondere
a quanto previsto nel bill o anche ad altre domande, così come può prevedere il discovery order, ossia la
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presentazione di documenti rilevanti per dirimere la controversia; tramite un “injuction”, poi, può ordinare
alla controparte di desistere da un comportamento lesivo dei diritti dell’altra parte.
Nel 1600, quindi, lo scontro tra Chancery Court, appoggiata dal sovrano e che non ottempera più al
principio “equity follows the law”, e le corti di Westminster, appoggiate dal Parlamento, è inevitabile
(culmina nello scontro tra Sir Edward Coke, Chief Justice prima del Common Pleas e poi del King’s Bench, e
il cancelliere Lord Ellesmere): il contrasto viene risolto nel 1616 da Giacomo I Stuart, che sancisce la
supremazia dell’equity in caso di conflitti, supremazia tuttavia utilizzata in maniera moderata da parte degli
avveduti cancellieri, capaci di far convivere pacificamente equity e common law.
Esempi di rimedi elaborati dall’equity
Facciamo qualche esempio di rimedi proposti dall’equity, dalla giustizia equitativa, per comprenderne la
diffusione e la popolarità:
In caso di inadempimento contrattuale la common law offre un unico rimedio, il risarcimento del
• danno, mentre il cancelliere, tenendo conto del fatto che il risarcimento può non bastare, elabora
la figura “dell’esecuzione in forma specifica del contratto” (decreto di specific performance):
tramite l’injuction, infatti, egli può ordinare di fare o non fare qualcosa, in questo caso di dar luogo
all’esecuzione del contratto, imponendo un vero e proprio obbligo in capo all’inadempiente, pena
la sanzione per contempt of court (oltraggio alla corte);
Secondo la common law, SOLO in caso di violenza fisica come vizio del consenso, si da luogo
• all’annullamento del contratto. Ecco che il cancelliere introduce la figura dell’undue influence, della
violenza morale;
Se Tizio trasferisce un bene a Caio con l’obbligo di amministrarlo in favore di Sempronio, che ne
• percepirà i frutti, si attua il rapporto fiduciario definito come “trust”, opera della Chancery Court: la
common law non riconosce l’obbligo sorto in campo a Caio, ritenendolo il vero proprietario, mentre
il cancelliere tutela l’obbligazione assunta dallo stesso, in forza della propria coscienza, nei
confronti di Caio.
L’equity, dunque, si afferma, almeno inizialmente, come giustizia “secondo coscienza”, ed infatti a porla in
essere è proprio il “custode della coscienza del re”, the keeper of King’s coscience, il cancelliere. Si tratta di
una giustizia morale, del caso concreto, contrapposta a quella legale della common law, che pur
prendendo in considerazione la singola fattispecie risulta incapace di raggiungere un grado di elasticità
simile a quello dell’equity.
In un secondo momento, però, anche l’equity muta e diventa, correndo su un binario parallelo, una
giustizia simile a quella offerta dalla common law, non più secondo coscienza ma basata sul “principio del
precedente”: il diritto equitativo viene racchiuso in appositi “reports” e diviene un complesso di casi
giudiziali, di istituti e di regole acquisite, che si pone al fianco della common law.
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SEZIONE II – L’AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA
Le grandi riforme della giustizia: dalla seconda metà del XIX secolo all’inizio del terzo millennio
Abbiamo potuto osservare, nei paragrafi precedenti, la nascita e lo sviluppo da un lato della common law
elaborata dalle corti di Westminster, dall’altro l’affermazione dell’equity della Chancery Court. Si tratta, in
entrambi i casi, di corti che amministrano la giustizia civile e penale nei casi “di maggior rilievo economico”
(civile) o dei reati più gravi (penale). Il terzo sistema dell’ordinamento inglese, ispirato alla civil law, è
caratterizzato dall’Admiralty Court e dalle corti ecclesiastiche.
Ma come viene gestita la giustizia minore, ossia i casi in cui si tratti di controversie civili di modesto valore
economico?
Dal 1846 la giustizia civile minore viene affidata alle County courts, mentre sino ad allora la gente povera,
che non possiede né beni mobili né immobili, non avverte la necessità di adire alcuna corte.
Le cause penali relative ai reati meno gravi, invece, sono affidate alla competenza del Justice of the Peace a
partire dal 1361.
Quindi se la giustizia civile tende verso la centralizzazione, quella penale segue un percorso inverso.
Le prime riforme ed i Judicature Acts 1873-1875
Nel XIX secolo, uomini come Jeremy Bentham tentano di attuare delle riforme processuali al fine di
modificare la situazione descritta nel paragrafo precedente e garantire una maggiore certezza del diritto: le
leggi dal contenuto privatistico esistono da sempre, ma tendono solo a consolidare il diritto elaborato dalla
giurisprudenza, mentre Bentham tenta di attribuire all’operato del legislatore un ruolo di maggior rilievo.
Il County Courts Act del 1846
Nel 1846, con il County Courts Act, viene introdotto, per dirimere le controversie civili di modesto valore
economico, un sistema di corti locali (le county courts appunto), distribuite in 500 distretti, raggruppati a
loro volta in circuiti, ciascuno dei quali fa capo ad un giudice togato, nominato dal Cancelliere tra gli
avvocati con almeno 7 anni di esperienza professionale.
Sebbene le county courts incontrino il favore della popolazione, in quanto ad esse ricorrono i piccoli-medi
commercianti che prima di allora non erogavano credito, perché timorosi di non poterlo recuperare data la
mancanza di tribunali e procedure poco costose, ad esse NON ricorrono i meno abbienti: l’antica
procedura “in forma pauperis” viene ritenuta inapplicabile e la povera gente rimane priva di un sistema di
giustizia.
Le riforme processuali
Fino al 1873 sono molte le riforme della giustizia che si succedono in Inghilterra: con il Common Law
Procedure Act del 1854 le parti sono autorizzate a rinunciare al processo con giuria ed alle corti di common
law viene attribuito il potere, dapprima esclusivo delle Chanchery Court, di ordinare la discovery dei
documenti e di emettere injuctions; nel 1852, con il Chancery Practice Amendment Act, viene introdotto
l’esame orale dei testimoni ed alle corti di equity viene attribuito il potere di concedere il risarcimento del
danno, monopolio sino a quel tempo delle corti di Westminster.
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Le riforme più importanti, però, sono quelle che toccano l’organizzazione giudiziaria: in ogni tribunale vi è
una particolare procedura e dalla scelta del writ dipende il successo dell’azione; vi è un eccessiva divisione
di competenze tra corti totalmente diverse, dato che un soggetto che voglia ottenere tanto il risarcimento
del danno, quanto la cessazione delle turbative da parte del convenuto deve adire due corti diverse.
Nel 1873-1875 arrivano i Judicature Acts, con cui tutte le corti vengono riunite all’interno della Supreme
Court of Judicature, articolata in due livelli di giurisdizione: in prima istanza sono competenti la High Court
of Justice (materia civile) e la Crown Court (materia penale), mentre in seconda istanza è presente la Court
of Appeal.
Dalle cinque sezioni iniziali della High Court of Justice (Chancery, Queen’s Bench con la regina Vittoria,
Exchequer, Common Ples, Probate-Divorce and Admiralty) si passa alle tre del 1881:
La Queen’s Bench, competente per le cause un tempo attribuite alle corti regie di Westminster;
• Chancery, competente per le cause attribuite, un tempo, alla Court of Chancery;
• Probate, Divorce and Admiralty, competente in materia di successioni, matrimoni e diritto
• marittimo.
La divisione della High Court è variata ancora: oggi comprende la Queen’s Bench, la Chancery e la Family,
tutte con giudici monocratici.
In secondo grado, invece, diviene competente un’unica Court of Appeal, con una sezione civile ed una
penale: il giudizio d’appello è un rehearing, un riesame della causa con il quale la corte può sostituire la
propria decisione a quella dell’organo di prima istanza oppure ordinare un nuovo processo. Non si tratta
però di un diritto di proporre l’impugnazione della parte soccombente, ma di una possibilità che si realizza
solo in taluni casi, laddove occorre (a partire dal 1999) il consenso del giudice a quo.
In ultima istanza, a partire dall’Appellate Jurisdiction Act del 1876, è competente la House of Lords, ed in
particolar modo una sua speciale suddivisione, l’Appellate Committee, di cui fanno parte il cancelliere (Lord
Chancellor) in carica, i suoi predecessori ed altri 12 giudici chiamati Law Lords, i quali benchè membri della
House of Lord, non partecipano alla funzione legislativa.
Se negli altri gradi di giudizio Inghilterra, Scozia ed Irlanda del Nord sono indipendenti, tutte fanno capo
alla House of Lords come tribunale di massima istanza.
Le decisioni della House of Lords sono vincolanti per tutti i giudici inferiori e sono estremamente poche,
concentrate sulle questioni più controverse, in quanto l’accesso alla stessa corte non è libero, occorre il
consenso del tribunale di seconda istanza o una pronuncia della stessa House of Lords.
Le decisioni della House of Lords, così come quelle del tribunale di seconda istanza (Court of Appeal,
scaturiscono da un organo collegiale (no giudice monocratico) e, diversamente dalle pronunce dei giudici di
civil law, non si configurano come “decisioni delle corti”: ogni giudice porta le proprie opinioni, che non
restano anonime, e si parte sempre dal fatto concreto, descritto chiaramente nelle pronunce.
Per una chiarezza di esposizione parliamo anche del Judicial Committee of the Privy Council: il consiglio
privato della corona che, ancora oggi, rappresenta l’ultima istanza in Paesi come lo Sri Lanka, mentre altri
Stati (Canada, Australia e Nuova Zelanda), hanno stabilito che le decisioni prese dalle proprie Corti
supreme siano definitive, rendendo impossibile il ricorso al Privy Council.
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L’amministrazione congiunta di common law ed equity
A partire dai Judicature Acts del 1873-1875, dunque, le varie sezioni della High Court si ritrovano a dover
applicare tanto le rules of law proprie della common law, quanto le rules of equity. Ciò permette di
domandare diversi rimedi all’interno di un medesimo procedimento, ma, nonostante la prevalenza
dell’equity sulla common law in caso di contrasto, è comunque previsto che l’equity vada applicata,
appunto perché nata come sistema di regole eccezionali, solo laddove il rimedio di common law risulti
inadeguato.
La trattazione di cause che si basano su regole di equity, tra l’altro, è affidata alla Chancery Division, ed è
prevista una procedura diversa, basata, per esempio, sull’assenza del contraddittorio orale connesso al
processo con giuria, proprio della common law.
Il rule making power e le nuove regole processuali
Il rule making power (potere di emanare regole) delle corti inglesi consiste nella possibilità di
regolamentare il processo mediante l’emanazione di nuove regole, ogni volta che se ne presenti la
necessità, da parte di apposite commissioni composte da giudici e avvocati, le cui proposte possono essere
approvate o respinte, ma non modificate, dal Parlamento.
Le nuove rules, emanate nel 1883, semplificano i procedimenti ed eliminano gli inutili tecnicismi: tutti i
procedimenti dinanzi alla High Court diventano “actions”, senza distinzioni tra actions at common law e
suits in equity; il sistema dei writs viene semplificato: tutti i writs esistenti vengono sostituiti da un unico
writ of summons, atto introduttivo del procedimento che, dal 1999, viene definito “clain form”, in maniera
tale da non far dipendere l’esito del processo dalla corretta formulazione del writ.
Vengono istituiti uffici periferici della High Court e con il Civil Procedure Act del 1997, che autorizza
l’emanazione di nuove Civil Procedure Rules per la Court of Appeal, la High Court e le county courts, il “rule
committee”, ossia la commissione che si occupa di emanare nuove regole, cambia nella sua composizione,
accogliendo senior judges e membri laici, mentre il rule committee per le county courts viene abolito.
Il Constitutional Reform Act 2005 e la nuova Supreme Court
Abbiamo detto, dunque, che organo di ultima istanza è la House of Lords.
Proprio al fine di eliminare qualsiasi collegamento tra potere giudiziario e potere legislativo, però, nel 2005
un’importante legge ha variato il sistema preesistente: stiamo parlando del Constitutional Reform Act, il
Supreme Court,
quale ha sostituito la vecchia House of Lords con la in funzione dal 1° ottobre 2009. La
Corte Suprema è del tutto indipendente, ora, dal Parlamento, composta da 12 giudici non più membri della
House of Lords (Justices of the Supreme Court), nominati con un’apposita procedura: quando si verifica
una vancaza, il Lord Chancellor convoca la Selection Commission (composta da presidente e vice
presidente della Corte suprema e da un rappresentante per ogni commissione dei territori devoluti, di cui
uno deve essere laico), che ha il compito di scegliere il sostituto (il Lord Chancellor ha il potere, solo una
volta, di respingere il nome scelto); lo stesso cancelliere si occupa di comunicare tale nome al Primo
Ministro che lo raccomanda alla Regina per la nomina.
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L’Appellate Committee della House of Lords, dunque, è sostituita dalla Supreme Court, che ne esercita
tutte le funzioni ed è competente nelle medesime ipotesi; anche il ricorso ad essa è possibile solo dopo
una pronuncia della stessa corte o nel caso in cui si sia pronunciata favorevolmente la corte sottostante.
Il ceto dei giuristi e la magistratura laica
La common law, se da un lato è caratterizzata dalla struttura accentrata delle corti, dall’altro deve la sua
affermazione alla costituzione di un “ceto di giuristi” professionalmente organizzato e politicamente
influente.
Barristers e solicitors
Quando in Inghilterra si afferma il potere delle corti di Westminster ed il sistema dei writs si arricchisce di
formalità, in tal modo complicandosi, diventa difficile per i litiganti stare in giudizio di persona, molto
spesso non comprendendo bene gli aspetti tecnici: è per tal motivo che a partire dal XIII secolo è frequente
attorneys,
il ricorso agli rappresentanti di parte, che hanno una formazione giuridica solo ed
esclusivamente “pratica”, svolta per lo più presso un giurista già affermato, sotto il controllo della stessa
Corte regia, unico organo che può garantire l’accesso alla professione. All’attorney si affianca, col passare
narrator,
del tempo, il figura di maggior prestigio. In entrambi i casi, comunque, la formazione di questi
soggetti è, ripeto, pratica e non universitaria, il che crea una netta contrapposizione rispetto alla tradizione
di civil law medievale, dove le università sono il centro massimo di formazione, il veicolo per eccellenza di
propagazione del diritto romano, oltre che il mezzo per garantire che il diritto sia “scienza”, studiato nella
teoria lontana dai casi concreti. Inns of Court,
La preparazione dei giuristi inglesi, invece, avviene nelle dove gli apprendisti vengono istruiti,
benchers readers:
anche tramite la simulazione di processi, da esperti del ramo, i e i in tali inns si ha la vita
in comune dei membri, oltre che un’unione dettata dal lavoro.
Gli attorneys, inizialmente, fanno parte delle Inns of Court annesse alle corti regie, mentre in un secondo
Inns of Chancery solicitors,
momento, data la loro esclusione, si riuniscono nelle insieme ai giuristi
praticanti nelle corti di equity. serjeants at law,
Al di sopra di tutti questi giuristi pratici vi sono i eredi dei narratores e scelti tra i migliori
readers, con il compito, all’interno delle corti, di definire giuridicamente i termini della controversia. E’
proprio tra di serjeants che vengono scelti, infatti, i nuovi giudici.
Nel 1600, però, in sostituzione delle categorie appena esaminate, emergono i barristers, eredi dei
serjeants, e i solicitors, eredi degli attorneys: la suddivisione in queste due branche è una peculiarità del
diritto inglese, analizziamone dunque la preparazione ed i compiti.
I solicitors si formano presso la Law Society (fondata nel 1823) tramite la frequenza di un corso annuale
seguito da un tirocinio biennale. Il proprio lavoro consiste nel tenere i rapporti con i clienti e sembrano
incapaci di stare in giudizio dinanzi alle corti superiori, mentre compaiono dinanzi alle county courts ed ai
giudici di pace, dinanzi ai quali si svolgono la maggior parte delle cause penali e civili. Il solicitor ha una
competenza esclusiva per ciò che concerne il trasferimento di beni immobili e la redazione dei testamenti,
ma si occupa anche di preparare il materiale informativo e probatorio utile al barrister dinanzi alle corti
superiori. 69
La formazione dei barristers avviene, ancora, oggi nelle Inns of Court, il che è particolarmente costoso e
richiede una laurea riconosciuta, a cui segue un corso annuale presso una struttura accreditata ed un
periodo di pratica di un anno: tutto ciò abilita il barrister non solo a fornire consulenza, ma soprattuto a
comparire dinanzi alle corti superiori (è titolare del right of audience), senza avere alcun contatto con i
clienti, compito dei solicitors.
Il monopolio di patrocinio dinanzi alle corti superiori dei barristers, tuttavia, è stato perso con il Courts and
Legal Services Act del 1990, con il quale è stata data la possibilità ai solicitors di ottenere il right of
audience, sebbene a determinate condizioni, e con esso la possibilità di divenire magistrati: il barrister,
tuttavia, ha acquistato la possibilità di intrattenere rapporti con i clienti (ben poca cosa rispetto alla perdita
di un diritto esclusivo dapprima detenuto). Nonostante ciò, in Inghilterra non si può ancora parlare di
un’unica figura di avvocato, diversamente dal sistema statunitense che non ha conosciuto una tale
dicotomia.
Tra l’altro solo ultimamente la formazione accademica/universitaria ha assunto rilievo in Inghilterra, dato
che il diritto ha cominciato ad essere insegnato come materia di riferimento per la preparazione dei
giuristi, dapprima formati solo tramite la pratica.
I giudici: la tradizione ed il rinnovamento del Constitutional Reform Act 2005
Quando la common law si afferma in Inghilterra a partire dal XII-XIII secolo, con essa si fa strada l’idea che i
giudici professionisti debbano essere scelti tra i serjeants at law, gli avvocati più competenti. Se, come
abbiamo detto, eredi dei serjants sono i barristers, è facile intuire come la scelta dei giudici sia sempre
stata collegata alla figura dei barristers, in particolar modo a quelli con maggiore esperienza: i giudici
superiori inglesi (quelli della High Court, della Court of Appeal e della House of Lords) vengono nominati
dalla Corona su proposta del Cancelliere e vengono scelti, per esempio, tra i barristers con una esperienza
professionale di almeno 15 anni (per la nomina a Lord Justice of Appeal) o 10 anni (per la nomina a giudice
onorario della High Court).
Avvocati e giudici, quindi, formano una sola categoria nel sistema inglese, sin dalle origini.
Se la scelta dei giudici tra i barristers garantisce, da un lato, che vengano presi in considerazione solo i nomi
di persone altamente preparate, ciò determina, da un altro punto di vista, che la scelta venga fatta
all’interno di una cerchia ristretta di privilegiati, appartenenti ad un determinato standard (maschi, bianchi,
mezza età ecc.).
Il Courts and Legal Services Act del 1990 muta la situazione preesistente: i giudici della High Court vengono
scelti dal Lord Chancellor tra i barristers ed i solicitors (prima novità) titolari del right of audience (la
possibilità di patrocinare dinanzi alle corti superiori) e con almeno 10 anni di esperienza professionale,
nominati dalla regina, così come i giudici delle county courts vengono, scelti e nominati nella medesima
maniera, sono barristers o solicitors con almeno 7 anni di esperienza.
Bar e bench (avvocatura e magistratura), dunque, convivono all’insegna di un grande rapporto di affinità
tecnica e culturale, e tale sistema si contrappone decisamente a quello di civil law, in cui il giudice è un
funzionario “di carriera”. 70
Spicca, dall’analisi fatta nelle ultime pagine, la figura del Lord Chancellor: egli è membro del governo, e
pertanto figura politica, allo stesso tempo artefice della nomina, o meglio della scelta, di tutti i giudici, così
come contemporaneamente presiede la House of Lords nella sua funzione giurisdizionale, il Judicial
Committee of the Privy Council e la Chancery Division della Hight Court ed è Speaker della House of Lords
in sede legislativa. Vi è, dunque, l’accentramento di grandi poteri nelle mani di un’unica persona, anomalia
eliminata dal Constitutional Reform Act del 2005, modificativo del sistema di reclutamento dei magistrati.
Grazia all’intervento legislativo citato il Lord Chancellor non è più un magistrato, ma un mero
rappresentante dell’esecutivo, Segretario di Stato per gli Affari Costituzionali dal 2005 e, dal 2007, Ministro
della giustizia (mantiene comunque il titolo di Lord Chancellor). Le funzioni giurisdizionali sottratte allo
stesso vengono affidate al Chief Justice, Presidente delle Corti di Inghilterra e Galles e Capo del potere
giudiziario di nei medesimi Paesi. Infine, il Lord Chancellor non è più Speaker (portavoce) della House of
Lords.
Il reclutamento dei giudici segui uno schema ben preciso, nel quale una Judicial Appointments Commission
seleziona i candidati per ciascun posto presso qualunque corte, fatta eccezione per la Supreme Court
sostitutiva dell’Appellate Committee, e comunica la decisione al Lord Chancellor, il quale provvede
direttamente alla nomina o la raccomanda alla regina, sebbene abbia la facoltà di respingere la proposta o
di chiedere un riesame. I giudici vengono scelti sempre tra barristers e solicitors aventi il right of audience,
ma la Commissione deve tener conto delle “diversità”, ossia deve assicurare una rappresentanza nelle corti
di tutta la società inglese. La stessa Commissione, poi, è composta da magistrati, laici e rappresentanti
delle professioni legali, nominati dalla regina su proposta del Lord Chancellor, in tutto 15 membri.
I giudici delle corti inferiori alla High Court, poi, possono essere rimossi per incapacità e cattiva condotta
dal Lord Chancellor di concerto con il Lord Chief Justice, mentre i giudici della High Court e delle corti
superiori possono essere rimossi dalla regina su risoluzione congiunta del Parlamento.
Un altro aspetto da considerare è quello inerente il numero dei giudici inglesi, da sempre esiguo, specie in
rapporto agli altri Stati europei: ai 1500 giudici inglesi, dei quali solo 164 sono quelli delle corti superiori
(considerabili come giudici nel senso costituzionale del termine), si contrappongono i 9000 giudici italiani, i
7000 francese e, addirittura, i 21.000 tedeschi, sebbene la società inglese non appaia meno litigiosa di
quelle degli altri Paesi. Ma allora come è possibile?
La spiegazione è semplice, se si tiene conto del fatto che nei secoli in Inghilterra si è sempre fatto ricorso,
per la soluzione delle controversie, ai cosiddetti giudici laici, pensiamo ai Justices, of the Peace ed agli
special tribunals, così come le motivazioni di un numero così esiguo di giudici sono rinvenibili nella
particolare struttura del processo civile: solo l’1% delle cause iniziate annualmente dinanzi alle corti
ordinarie arriva al trial, ossia al dibattimento presieduto da un giudice di professione, in quanto ai giudici
togati spetta solo la soluzione delle questioni nuovo o realmente complesse.
La magistratura laica
Partiamo col dire che l’utilizzo di una magistratura laica, composta da giudici di pace e membri laici dei
tribunali speciali, così come dalla giuria all’interno dei processi civili, garantisce notevoli vantaggi sotto il
profilo economico: i giudici togati, per esempio, godono di stipendi altissimi, rispetto ai giudici di pace
considerati come sottopagati. Oltre al vantaggio economico, poi, si garantisce una partecipazione della
71
cittadinanza all’amministrazione della giustizia, il che ha dei risvolti in termini di esperienza e di funzione
educativa.
I Justices of the Peace (magistrates) commissioners,
Già al tempo dei sovrani normanni, nel XII secolo, ritroviamo i dei veri e propri “keepers of
the peace” (tutori della pace), scelti dal sovrano tra la piccola nobiltà locale ed aventi compiti
amministrativi e di polizia. Con il regno di Enrico III, nel XIV secolo, essi assumono i caratteri ancora oggi
posseduti dai Justices of the Peace inerenti compiti giurisdizionali. L’espressione “giudici di pace” risale al
1361, eppure sino ad oggi non è cambiato alcunché: hanno competenza come organi giudicanti, tanto che
la maggior parte dei processi penali si svolge dinanzi ad essi.
magistrate,
Il Justice of the Peace, chiamato anche è un giudice laico, salvo nei casi di Londra e di alcune
stipendiary magistrate.
città importanti dove è un giudice professionista e prende il nome di
A partire al Constitutional Reform Act del 2005 essi vengono nominati dal Lord Chancellor, dopo la
selezione operata dalla Judicial Appointments Commission, scelti tra le persone più in vista della contea,
mentre nel caso deigli stipendiary magistrate, essi vengono selezionati tra i barristers ed i solicitors con
almeno sette anni di anzianità professionale. In tutto, in Inghilterra, vi sono 30.000 giudici di pace che
operano sotto il controllo della High Court. Essi non ricevono alcun compenso per il compito svolto (ciò ci
fa capire come vengano scelte persone abbienti e mature), salvo poter chiedere un’indennità per il
mancato guadagno, e devono seguire, prima di prestare il proprio servizio, un corso in materie giuridiche,
clerks,
sebbene siano sempre assistiti dai solitamente barristers o solicitors che si occupano delle questioni
procedurali.
Tutte le cause penali sono, inizialmente, gestite dai giudici di pace, i quali decidono direttamente nelle
ipotesi di reati minori (summary offences, il 95% dei casi), mentre hanno il compito di provvedere alla
stesura di un’istruttoria preliminare (preliminary inquiry) nel caso di reati più gravi, dibattuti poi dinanzi
alla Crown Court con la presenza della giuria. In ambito civile, invece, essi hanno un’ampia competenza, in
particolar modo nell’ambito del diritto di famiglia.
Il collegio dei magistrates è formato da 3 membri che decidono a maggioranza, senza motivare la decisione
se non in talune ipotesi (per esempio se hanno rifiutato la libertà su cauzione), e contro la stessa è
ammesso ricorso dinanzi alla Crown Court che, fungendo in tal caso tra tribunale di seconda istanza o
impugnazione, non è coadiuvato dalla giuria.
Gli special tribunals
Le teorie del famoso costituzionalista Albert Dicey, vissuto tra la fine del 1800 e gli inizi del ‘900, hanno
influenzato la visione dell’ordinamento inglese nei confronti del diritto amministrativo: il giurista, infatti,
afferma che tale diritto non può trovare spazio nel sistema inglese, perché contrasta con la rule of law,
ossia col dominio della legge comune, e perché sottrae autorità ai giudici di common law in favore della
giustizia amministrativa.
Le idee di Dicey, però, sono ormai sorpassate da tempo, in quanto a tali concetti ha fatto seguito, in
Inghilterra, un’ampia attività legislativa in senso sociale (welfare state), che ha portato all’istituzione degli
special tribunals, organi giurisdizionali estranei al sistema delle corti ordinarie ma con importanza
72
competenze: le controversie tra Stato e cittadini o anche tra privati sorte in forza del welfare state vengono
risolte dai tribunali speciali.
Tali tribunali, dunque, altro non sono che strumenti di giustizia alternativi rispetto alle corti ordinarie,
caratterizzati da maggior accessibilità, da costi inferiori e minore durata dei procedimenti. Un tempo
contraddistinti da maggior informalità e dalla libertà dal vincolo del precedente, hanno via via assunto dei
propri caratteri essenziali dettati dall’estensione delle garanzie dei procedimenti di fronte alle corti
ordinarie, quali la garanzia del difensore.
Un inquadramento sistematico di questi tribunali speciali, sottolineano gli autori, è però impossibile, in
quanto ognuno di esse ha delle caratteristiche proprie, sebbene si tratti sempre di organi giurisdizionali
ispirati ai princi di openess (apertura), fairness (correttezza/onestà) e impartiality (imparzialità).
Gli special tribunals, dunque, rappresentano oggi il “sistema inglese di giustizia amministrativa” e non sono
sfuggiti alle riforme dell’organizzazione giudiziaria degli ultimi anni: nel 2005 il Constitutional Reform Act
ha previsto che i membri degli stessi tribunali debbano essere nominati dal Lord Chancellor dopo la scelta
operata dalla Judicial Appointments Commission; nel 2007 il Tribunals, Courts and Enforcement Act ha
previsto l’accorpamento di questi tribunali in due nuovi organi indipendenti, a composizione mista
professionale e laica, con competenza su tutto il Regno Unito, il First-tier Tribunal e l’Upper Tribunal (che
gode dello status di corte superiore come la High Court). A vigilare sull’operato di questi due organi vi sono
tanto il Senior President of Tribunals, nominato dalla Corona su proposta del Lord Chancellor, ed una
Administrative Justice and Tribunals Council. Per ciò che concerne le impugnazioni, poi, entrambi gli organi
hanno il potere di review, ossia di rivedere anche d’ufficio le proprie decisioni, così come contro le
decisioni del First-tier Tribunal è ammesso ricorso, per soli motivi di diritto, dinanzi all’Upper Tribunal
(occorre sempre il consenso del tribunale inferiore), le cui decisioni sono impugnabili, a loro volta, sempre
per motivi di diritto ma senza previa permission, dinanzi alla Court of Appeal. Con la legge del 2007, infine,
si afferma definitivamente l’indipendenza totale di tali tribunali, altro strumento che permette, insieme ai
giudici di pace, un ridotto impiego di giudici togati.
Le linee essenziali del processo adversary e le riforme della giustizia civile (1990-1999)
Abbiamo visto come il funzionamento della giustizia inglese, in presenza di un numero esiguo di giudici, sia
motivabile tramite la presenza dei magistrati laici, ma anche prendendo in considerazione la struttura del
processo, alla luce della quale possiamo spiegare anche le modifiche intervenute negli ultimi decenni in
ambito civile.
Le linee essenziali del modello adversary di processo
Il processo adversary (accusatorio) si contraddistingue per la presenza di due fasi ben distinte, quella
predibattimentale ed il dibattimento (pre-trial e trial).
Il pre-trial inizia con le primissime battute del processo e si conclude con l’avvio del dibattimento: è qui che
gli avvocati di parte possono dimostrare tutta la propria abilità, in quanto “il caso è nelle loro mani”, dati gli
interventi sporadici del giudice (non più sporadici, come vedremo, dopo il 1999) e l’intervento, in caso di
necessità, del master, un funzionario della corte. 73
Il pre-trial ha tre funzione fondamentali:
La preparazione della causa per il dibattimento (trial, ripeto sempre per fissare bene i concetti): si
• tratta di tutti gli atti che vanno dalla proposizione della domanda (clain form), la cui notificazione
gravava sull’attore mentre oggi è compito del giudice, all’udienza nella quale si danno le ultime
disposizione per il trial; qui vengono individuate le parti in cause e la “cause of action”, la causa
dell’azione. Le parti si scambiano i pleadings (oggi definiti statements of case), ossia le proprie
memorie in cui individuano qual è l’oggetto del contendere su cui la corte deve pronunciarsi, e si ha
la discovery (oggi definita come disclosure), ovvero lo scambio di elementi di prova a supporto della
propria tesi, quali documenti, testimonianze e prove materiali;
La decisione della causa senza dibattimento: nella fase predibattimentale vengono offerti vari
• strumenti volti a garantire la possibilità, per le parti, di non giungere al dibattimento: le actions
tried, infatti, rappresentano solo l’1/1,5% delle azioni proposte. Notiamo, dunque, come il
dibattimento, pur essendo il momento centrale del processo, si configuri come un mero strumento
eccezionale, al quale si può evitare di ricorrere, il che spiega anche il numero esiguo di giudici
togati, dato che la maggior parte dei casi si risolve dinanzi alle parti e con l’operato del solo master.
Vi sono, dicevamo, vari meccanismi che possono portare alla conclusione, già nel pre-trial, del
processo:
La transazione giudiziale: stiamo parlando del “settlement”, l’accordo avutosi dopo l’inizio
o del procedimento;
Il payment into court, oggi denominato “offer to settle” ed utilizzabile anche dall’attore:
o consiste nel deposito presso la corte, da parte del convenuto, di una somma di denaro volta
a soddisfare, nei procedimenti a contenuto pecuniario, le pretese dell’attore, senza tra
l’altro riconoscere la propria responsabilità; a quel punto l’attore può accettare, ed il
procedimento si conclude in quel momento, oppure decidere di proseguire nel trial, nel
dibattimento; tuttavia, qualora nel dibattimento venga riconosciuta, all’attore, una somma
pari o inferiore a quella oggetto del deposito da parte del convenuto nella fase
predibattimentale, l’attore è tenuto al rimborso delle spese processuali sostenute a partire
dal momento del rifiuto dell’offerta, incluse quelle del trial;
Il “default judgment” (giudizio in contumacia): riguarda la sanzione per la mancata
o osservanza degli adempimenti richiesti da una norma o dal giudice, che chiude
anticipatamente il procedimento. Se la parte ha omesso di dichiarare la propria intenzione
di difendersi o non ha notificato un atto difensivo va incontro alla pronuncia di un default
judgment. In sostanza, la contumacia è presunzione di colpevolezza.
L’adozione di provvedimenti cautelari e provvisori in attesa del dibattimento: le parti, qualora
• abbiano deciso di andare al trial, al dibattimento, possono comunque ottenere dal giudice un
provvedimento volto a mantenere inalterata la situazione quo ante, precedente, oppure volto
all’ottenimento di una tutela rapida ed immediata, sebbene provvisoria. In tal caso il giudice,
effettuata una valutazione/bilanciamento di interessi e verificato il fumus boni iuris (che ricordiamo
essere la possibilità che il diritto vantato esista concretamente), può emettere un’interlocutory
injuction, ordine di non fare, o un mandatory injuction, ordine di fare, meno frequente.
74
Al trial, dunque, si giunge solo dopo la fase predibattimentale e, come abbiamo avuto modo di far notare,
in un numero ristretto di casi, poco più dell’1%. In tal caso, però, lo stesso dibattimento è caratterizzato da
alcuni elementi chiave:
L’oralità: in quanto le prove vengono assunte oralmente dinanzi al giudice ed alla giuria, sebbene
• questa sia considerata come “assente ed invisibile”, dotata di una sola presenza morale, in quanto
le regole che disciplinano l’assunzione delle prove sono ancora piuttosto rigorose (nel processo
all’interno del sistema statunitense, invece, in forza del VII emendamento della Costituzione, la
presenza della giuria è determinante). E’ qui che il processo diventa quasi teatrale, dando luogo
all’interrogatorio ed al controinterrogatorio dei testimoni;
La concentrazione e l’immediatezza: in quanto il dibattimento si risolve in una sola udienza o in più
• udienze molto vicine nel tempo;
La distribuzione dei poteri tra giudice e parti: il dibattimento si mostra come uno scontro tra
• contendenti, in quanto si svolge dinanzi ad un giudice “passivo”. Sono le parti, infatti, dar luogo alla
“presentation”, ossia alla ricerca delle prove a conforto della propria tesi, nonché all’elaborazione
delle argomentazioni giuridiche a sostegno della stessa, ed alla “prosecution”, in quanto sono
sempre le parti ad iniziare il procedimento, fissandone l’oggetto, ed a farlo proseguir fino alla sua
naturale conclusione.
Tuttavia, la riforma del 1999 del processo adversary civile assicura lo spostamento del controllo sulla
progressione del processo dalle parti al giudice, in quanto è diventato inconcepibile che l’amministrazione
della giustizia si basi solo e solamente sugli sforzi delle parti, lasciando il giudice nell’ombra.
Le riforme recenti
Negli anni ’90 inizia ad affermarsi, in Inghilterra, un movimento definito, a ragion veduta, riformatore,
volto a rendere il sistema inglese della giustizia non solo più economico, m anche efficiente e accessibile.
Nel 1988 viene emanato il Report del Civil Justice Review Body, il quale conduce, in breve tempo, a due
importanti atti: il Courtss and Legal Services Act del 1990, con il quale si rompe il monopolio dei barristers
inerente il patrocinio dinanzi alle corti superiori, concedendo tale possibilità anche ai solicitors (riducendo,
di fatto, le spese per le cause da parte dei cittadini), ed il County Courts Jurisdiction Order del 1991, che
con una sola mossa, ossia l’ampliamento delle competenze delle county courts e l’eliminazione del limiti di
competenza per valore, assicura l’alleggerimento del lavoro dell’High Court ed una procedura più rapida
presso le corti della contea. Le controversie con il cui valore è superiore a £ 50.000 sono di competenza
della High Court, quelle con valore inferiore a £ 25.000 sono di competenza delle county courts e le
controversie aventi valore intermedio sono di competenza comune, distribuite a seconda della
complessità. Inoltre viene sancita la competenza esclusiva delle county courts in caso di lesioni personali.
Nel 1996, poi, a seguito di uno studio portato avanti da Lord Woolf, presidente della Court of Appeal, su
incarico del Lord Chancellor, viene pubblicato il Lord Woolf’s Final Report, con il titolo di Access to Justice,
il quale pone le basi per la successiva riforma, definita da Andrews come “il più importante cambiamento
nella procedura civile dal 1870, quanto common law ed equity vennero riunite nella High Court”.
Dal Report di Lord Woolf emergono quelli che sono i problemi del sistema: eccessivi costi, tempi e
complessità procedurali, derivanti da un’eccessiva cultura accusatoria delle parti e dei loro avvocati. Da ciò
scaturiscono le Civil Procedure Rules del 1998, volte a regolare i procedimenti dinanzi alle county courts,
75
alla High Court ed alla Civil Division della Court of Appeal. Da tale insieme di regole, ritenuto così tanto
organico da essere definito come “new procedural code”, scaturisce l’importanza del ruolo “attivo” del
giudice in tutte le fasi del procedimento, che deve spaziare dall’incoraggiamento delle parti alla reciproca
cooperazione all’identificazione delle questioni realmente controverse, dalla decisione circa quali questioni
debbano essere decise per prime alla fissazione di un calendario del processo, dall’uso della tecnologia alla
decisione che la presenza delle parti non sia necessaria.
Vengono identificate, inoltre, una serie di “corsie processuali” (tracks) per garantire maggiore efficienza e
rapidità delle decisioni: la small claim track, per esempio, viene riservata alle cause aventi un valore
economico inferiore alle £ 5.000 e prevede una procedura informale presso le county courts; la fast track,
per le controversie con valore compreso tra £ 5.000 e £ 25.000, prevede scadenze processuali molto rigide,
una discovery semplificata e limiti all’oral evidence (prova orale); la multi track, riservata a controversie
con valore superiore a £ 25.000, prevede la procedura ordinaria ma con un ruolo attivo da parte del
giudice.
L’Access to Justice Act del 1999 ha garantito, poi, ai non abbienti un nuovo sistema di assistenza legale,
non più basato sul diritto all’assistenza dei soggetti che ne hanno i requisiti, ma su metodi alternativi
rispetto al finanziamento pubblico: il ricorso al conditional fee agreement, un accordo in base al quale, in
caso di vittoria, l’onorario dell’avvocato può essere maggiorato di una “success fee” non superiore al 100%
del suo onorario, della sua fee normale; l’allargamento del right of audience dei solicitors.
Notiamo, dunque, come lo scopo sia quello di rendere più celeri le decisioni dei giudici e più facile l’accesso
alla giustizia, forse (e sottolineamo il forse), avvicinando l’esperienza di common law a quella della civil law,
sebbene permangano delle differenze notevoli, alla base delle quali vi sono fattori culturali ed ideologici
molto importanti che spiegano i due grandi modelli di processo.
SEZIONE III – LE FONTI DEL DIRITTO
Premessa
Lo studio delle fonti del diritto è importante perché ci permette di analizzare gli aspetti fondamentali delle
due tradizioni giuridiche occidentali (civil law e common law), senza fermarci agli aspetti superficiali:
abbiamo già sottolineato come le due famiglia si stiano avvicinando, dati gli statutes della common law e la
rinata interpretazione creativa dei giudici di civil law, ma analizzare le fonti è utile proprio per capire quali
sono, ancora oggi, le divergenze e le convergenze.
La gerarchia delle fonti e la nozione inglese di costituzione
Aprendo un qualsivoglia testo inglese in tema di fonti del diritto sembra quasi di sfogliare uno dei manuali
oggetto del nostro studio (e delle nostre bestemmie) universitario: il sistema inglese, infatti, almeno
formalmente include nella gerarchia delle fonti la costituzione, il diritto comunitario, la legge, i precedenti
(che a noi mancano, almeno formalmente come abbiamo già osservato) e le consuetudini.
Tuttavia, al di là dell’aspetto formale, le differenze ci sono e sono anche profonde, anzitutto partendo da
quella che, nei sistemi di civil law, si è affermata come fonte al vertice del sistema, fonte per eccellezzenza,
la costituzione. 76
Noi sappiamo che il costituzionalismo, ed i documenti fondamentali che ne scaturirono, nasce nell’Europa
continentale (così come in Amercia) contemporaneamente alle Rivoluzioni (americana e francese): questo
è già un primo punto di differenza rispetto al sistema inglese, in quanto nella storia di questo Paese vi sono
documenti di straordinaria importanza già in periodi più remoti (pensiamo alla Magna Charta del 1215 o al
Bill of Rights dell 1688…anche se Paolo Grossi, nel testo “L’Europa del diritto”, sottolinea bene che in tali
casi si tratta di “costituzionalismo senza costituzioni”, di un agglomerato di diritti senza la previsione dei
rispettivi doveri).
Benché l’osservazione appena fatta sia importante, è un altro il punto su cui ci dobbiamo soffermare:
ancora oggi, nel Regno Unito, non è presente una costituzione intesa come documento scritto di rango
superiore alla legge ordinaria del Parlamento. Esiste un diritto costituzionale, di cui padre è sicuramente
Albert Dicey, volto a regolare i rapporti tra i poteri dello Stato e a definire la forma di governo (un diritto
costituzionale senza costituzione, in quanto basato sullo studio di vari testi che si sono succeduti nel
tempo), ma come sottolinea lo stesso Dicey “non esiste una legge superiore” e non è ammissibile un
controllo di costituzionalità sulle leggi, in quanto punto cardine dell’ordinamento è proprio la supremazia
del Parlamento (che può fare tutto tranne trasformare la donna in uomo, fonte: il folklore inglese). Ecco
perché nel Regno Unito, più che in altri Paesi, è stato molto difficile accettare la supremazia del diritto
comunitario, comunque assicurata dalla giurisprudenza inglese, ed è stato altrettanto difficoltoso garantire
l’ingresso della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a
Roma nel ’50 all’interno dell’ordinamento, poi assicurato solo, a tutti gli effetti, dallo Human Rights Act del
1998, il quale ha permesso alle corti inglesi di poter pronunciare la cosiddetta “dichiarazione di
incompatibilità” qualora il diritto interno entri in contrasto con la Convenzione. Ciò potrebbe configurarsi,
tra l’altro, come una specie di controllo di costituzionalità, o quanto meno di conformità delle leggi alla
Convenzione del ’50.
La giurisprudenza ed il principio stare decisis
Analizzando il sistema delle fonti inglese, notiamo subito come figuri, all’interno dello stesso, il precedente
giudiziario. A dire il vero, in tutta Europa vale la regola secondo cui “casi analoghi devono essere decisi in
modo analogo”, in quanto ovunque tale principio garantisce la certezza del diritto e la parità di
trattamento. Tuttavia, solo nella tradizione della common law vige la “doctrine of binding precedent”,
ossia la regola secondo cui i precedenti giudiziari sono vincolanti per i successivi casi simi (stare decisis et
quieta non movere): il giudice, quindi, non può discostarsi da un decisione precedente presa da un altro
giudice per un caso analogo, e ciò anche nell’ipotesi in cui non condivida tale decisione, appunto perché “la
regola dello stare decisis non si applica solo alle decisioni buone, ma soprattutto a quelle dubbie, altrimenti
non avrebbe senso”.
Vediamo, dunque, come la regola dello stare decisis si è affermata e come viene applicata al giorno d’oggi.
L’affermazione della regola dello stare decisis
Abbiamo già analizzato come il diritto inglese sia un diritto giurisprudenziale (case law, legge del caso),
frutto dell’apporto considerevole delle corti di Westminster e della Court of Chancery. E’ facilmente
intuibile, quindi, come in un diritto prettamente giurisprudenziale, le norme poste dai giudici debbano
essere rispettate anche da altri magistrati nel momento in cui si trovano dinanzi a casi analoghi.
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In realtà, benchè la teoria del precedente sia antichissima, il principio dello stare decisis si afferma soltanto
dopo la seconda metà del XIX secolo. Ovviamente la case law inglese non può essere identificata con il solo
principio dello stare decisis, in quanto occorre analizzare l’organizzazione dell’ordinamento giudiziario,
l’educazione giuridica, le regole del processo e quant’altro.
E’ a partire dai Judicature Acts del 1873-1875 che si afferma il principio del precedente vincolante: il
sistema delle corti, come abbiamo visto, viene organizzato in modo accentrato e gerarchico, quindi va da
se che le decisioni dei giudici superiori debbano essere osservate, nel futuro, dai giudici di rango inferiore.
In questo stesso periodo si perfeziona, in Inghilterra, il sistema della “repertoriazione delle sentenze”: i
vecchi Yearbooks (raccolte medievali, recanti la sola data, delle decisioni della Court of Common Pleas) ed
i Nominative Reports (resoconti delle decisioni delle corti superiori di common law con indicato il nome
dell’autore) vengono sostituiti, di fatto, dai Law Reports, raccolte dei più importanti casi decisi dalle corti
superiori, che fungono da strumento utili di lavoro per i giudici, in quanto totalmente affidabili in forza del
fatto che la loro redazione proviene dall’Incorporated Council of Law Reporting.
Inoltre, se in Europa nel XIX secolo si afferma la concezione scientifica delle discipline sociali, ivi incluso il
diritto, che porta ben presto alle codificazioni, in Inghilterra, sebbene le teorie di Bentham spingano in tal
senso, ci si rende da subito conto che il modello di “codice” non ha nulla a che vedere con il diritto
prettamente giurisprudenziale della common law. Cosicchè si giunge a consolidare, ancora maggiormente,
la stessa common law.
Già nel XVIII secolo, ad opera di Blackstone, si afferma la “teoria dichiarativa del precedente giudiziario”, in
forza della quale quest’ultimo non rappresenta la decisione di un giudice, bensì la verbalizzazione di una
norma di diritto consuetudinario positivo, teoria sorpassata solo di recente tramite il riconoscimento del
potere creativo dei giudici, veri e propri law makers (produttori di diritto).
Tra l’altro c’è un altro aspetto rilevante da sottolineare: il rispetto del precedente non è previsto in alcun
atto legislativo inglese, non essendo frutto dell’imposizione di un legislatore, ma di una scelta degli stessi
giudici. E’ sufficiente considerare alcune pronunce delle corti superiori:
Caso Mirehouse v. Rennel, 1833, il giudice Parke afferma che il sistema di common law si basa
• interamente sull’applicazione dei giudici, a nuove circostanze, di regole giuridiche che altri giudici
derivano dai principi giuridici e da altri precedenti. Ciò serve a garantire, secondo Parke, la certezza
del diritto, nonché la coerenza e l’uniformità dello stesso, in quanto sostituire nuove regole a quelle
già consolidate, porterebbe il giudice ad un clamoroso errore: “credere che la nuova regola, la
propria, sia più ragionevole di quella applicata da diversi giudici nel corso dei secoli”;
Caso London Street Tramways Co. Ltd. V. London County Council, 1898, il cancelliere Lord Halsbury
• afferma che, qualora fosse possibile rendere ogni questione soggetta a ritrattazione, allora non
dovrebbe mai esistere una decisione finale, in quanto, salvo casi rari, non esistono casi straordinari
che possano comportare un esame diverso da quello fatto in precedenza. Una decisione presa da
una Corte vincola non solo altre corti, ma quella stessa nel futuro, anche qualora cambiasse idea.
Teoria e prassi della regola stare decisis
La regola del precedente è ben descritta da Cross e Harris, autori della più nota monografia sul tema,
secondo cui “La regola del precedente obbliga una Corte a seguire tutti i casi decisi da una Corte ad essa
superiore nella gerarchia, e le corti in grado di impugnazione, fatta eccezione per la House of Lords, sono
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vincolate al rispetto anche delle “proprie” decisioni precedenti”. Questa definizione è, però, troppo concisa
perché non indica che la sola parte del precedente che vincola è la ratio decidendi…”
Quindi la definizione fornita presenta è superficiale: da un lato perché, come viene espresso dagli stessi
autori, va preso in considerazione solo il vincolo nascente dalla ratio decidendi (la motivazione da cui è
scaturita la decisione), dall’altro in quanto non si precisa che il giudice ha a disposizione diversi strumenti
per eludere la decisione precedente.
Per capire bene la regola del precedente, dunque, è utile anzitutto comprenderne l’operatività verticale ed
orizzontale all’interno del sistema inglese, ed in secundis tener conto della distinzione tra ratio decidendi e
obiter dictum.
Operatività verticale ed orizzontale della regola del precedente
Ripercorriamo, velocemente, il sistema di organizzazione giudiziaria inglese: il primo grado di giudizio, per
le cause civili di scarso valore economico e per i reati penali di minore allarme sociale, è costituito dalle
county courts e dalle magistrate’s courts (dai giudici di pace); la competenza generale, invece, spetta in
primo grado alla High Court in materia civile ed alla Crown Court in materia penale; in seconda istanza è
competente la Court of Appeal, mentre organo di ultima istanza è la House of Lords, ora Supreme Court.
Ovviamente, poi, aggiungiamo che l’operatività verticale (è anche futile dirlo) si attua tra corti di diverso
grado, mentre l’operatività orizzontale si esprime tra corti di pari grado. I giudici inferiori, ovviamente,
osservano la “gerarchia delle corti” e pertanto sono vincolati alle decisioni prese da giudici di rango
superiore; i giudici superiori, dal canto loro, esercitano la propria influenza soprattutto con la regola del
precedente, esercitando una funzione prettamente nomofilattica.
Partiamo dal tribunale di massima istanza, la House of Lords (oggi Supreme Court), la quale si ritrova a
rispettare, in linea verticale, le sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea di Lussemburgo ai
sensi dell’art.234 del Trattato di Maastricht in tema di interpretazione di leggi comunitarie. In forza, poi,
della causa London Street Tramways Co. Ltd. V. London County Council, di cui abbiamo già parlato, la
House of Lords è vincolata anche alle proprie decisioni precedenti, almeno fino a quando, nel 1966, la
statement”,
stessa House of Lords annuncia, in una dichiarazione stragiudiziale nota come “practice di non
dover essere più vincolata alle proprie decisioni precedenti nei casi in cui “l’adesione troppo rigida possa
generare ingiustizia o limitare lo sviluppo del diritto”.
Tuttavia, la stessa corte suprema, raramente si discosta dalle proprie precedenti decisioni, mostrando
un’oculata attenzione nell’adoperare il principio espresso nella practice statement.
Per ciò che concerne, invece, l’organo di appello, la Court of Appeal, l’operatività in linea verticale della
regola dello stare decisis è quanto meno scontata: le corti di rango inferiore devono attenersi a quanto
stabilito dall’organo di appello per eccellenza. Notevoli, invece, sono state le discussioni ed i cambiamenti
di tendenza della Court of Appeal in merito all’operatività orizzontale, almeno fino a che, nel 1944, la
stessa corte nella sentenza Young v. Bristol Aeroplane Co. afferma di essere vincolata alle proprie decisioni
precedenti, salvo i casi in cui:
1. La Corte abbia facoltà di decidere a quale, di due sentenze proprie precedenti ed in conflitto tra
loro, debba dare ragione; 79
2. La precedente decisione entri in contrasto, a suo parere, con una sentenza della House of Lords;
3. La Corte si ritrovi dinanzi ad una propria decisione precedente emessa “per incuriam”, ossia
pronunciata senza tener conto di una norma di legge o di un diverso precedente che avrebbero
dato luogo ad una decisione diversa.
Negli anni la Court of Appeal, in forza di queste tre ragioni, si è trovata soventemente a mutare il proprio
indirizzo e non attenersi a decisioni precedenti, il che non avrebbe dovuto comportare grossi problemi data
la presenza di un tribunale di ultima istanza (House of Lords) in grado di eliminare una sentenza scomoda,
ma che nella prassi ha creato non poche ambiguità dato che la Court of Appeal, il più delle volte, funge da
corte di vertice, dato il rarissimo ricorso alla House of Lords, in forza del criterio di selettività svolto dal
sistema dei “permessi” e dagli altissimi costi di un tale ricorso.
Per ciò che concerne la High Court, invece, dobbiamo dire che le proprie decisioni vincolano solo le corti
inferiori, county courts e giudici di pace, mentre le decisioni di queste ultime non vincolano alcuno,
considerando che non vengono incluse neanche nei reports e sono, per tal motivo, difficilmente reperibili.
La distinzione tra ratio decidendi e obiter dictum
Un’importante distinzione che dobbiamo operare per comprendere adeguatamente la regola del
precedente è quella tra ratio decidendi ed obiter dictum. La definizione di Cross e Harris che abbiamo
citato, infatti, prevede che a vincolare il giudice nell’applicazione del principio dello stare decisis sia solo la
ratio decidendi della decisione precedente, non la decisione nel suo complesso.
ratio decidendi
La altro non è che la “ragione della decisione”, ossia l’insieme di argomenti essenziali
addotti dal giudice per giustificare la decisione del caso a lui sottoposto. La ragione si trova nei fatti ed è
quindi da questi che il giudice deve estrarre il principio giuridico in base al quale ha deciso. Il giudice
successivo, dunque, ha il potere di operare il cosiddetto “distinguishing”, ossia può benissimo fare una
distinzione tra gli elementi di fatto del caso che sta analizzando e quelli del precedente: egli può prendere
in considerazione la concretezza dei fatti, ed in tal caso risulta difficile l’estensione della ratio decidendi di
un precedente caso, in quanto sono sempre riscontrabili delle differenze “concrete” (interpretazione
restrittiva); oppure il giudice può analizzare i fatti ad un alto livello di astrazione, potendo ricomprendervi
diverse fattispecie associabili tra loro, in tal caso dando luogo all’estensione della ratio decidendi
(interpretazione estensiva).
Esempio di interpretazione estensiva: la pronuncia di un giudice obbliga un soggetto A al risarcimento del
danno nei confronti di B, in forza del fatto che A, guidando a 100 km/h in città (dove il limite è di gran lunga
inferiore) ed avendo investito B, gli ha procurato un danno di carattere fisico; allo stesso modo un giudice,
nella sua successiva pronuncia, attuando un’interpretazione estensiva concede un risarcimento ad un
soggetto D, pagato dal soggetto C, in quanto quest’ultimo, per fare uno scherzo a D, gli ha procurato un
esaurimento nervoso. Come vediamo, i due casi non si somigliano, eppure il secondo giudice può operare
la seguente interpretazione ed estendere, in tal modo, la ratio decidendi del primo caso a quello
sottoposto al sue esame: in entrambe le ipotesi è la condotta negligente di un soggetto a produrre un
danno fisico alla vittima.
Esempio di interpretazione restrittiva: un cliente trova € 1000 sul pavimento di un negozio ed il giudice,
nella sua pronuncia inerente il contrasto nato tra l’inventore (colui che ha trovato i 1000 euro) ed il
proprietario del negozio, decide che i soldi spettino al ritrovatore; un altro giudice, in seguito, decide
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invece che due anelli d’oro, ritrovati in uno stagno da un soggetto, spettino al proprietario dello stagno. Il
secondo giudice, quindi, si rifiuta di dar luogo ad un’interpretazione estensiva, in quanto applica una
distinzione dei fatti (distinguishing) e reputa la differenza tra il negozio (luogo aperto al pubblico) e lo
stagno (luogo non aperto al pubblico) rilevante ai fini della decisione: la ratio decidendi, in poche parole, è
diversa da un caso all’altro e NON si osserva la regola del precedente.
dictum”:
Abbiamo citato l’espressione “obiter si tratta di ciò che non rientra nella decisione del giudice, o
meglio, delle argomentazioni non essenziali per la decisione, del commento incidentale potremmo dire.
Anche su questo punto, però, dobbiamo soffermarci: l’obiter dictum non ha efficacia vincolante nei
confronti dei casi successivi, ma gode sicuramente di un’efficacia “persuasiva”, in quanto contiene le
diverse opinioni dei giudici che possono concordare sul risultato della decisione (judgment) e non sui
motivi della stessa (reasoning) e allora parleremo di opinioni concorrenti, oppure possono essere in
disaccordo sia sul judgment, sia sul reasoning, e parleremo di opinioni dissenzienti. Tutto ciò può
benissimo influire sulla distinzione dei fatti operata dal giudice: egli, infatti, sarà più incline ad osservare
una decisione unanime che non una con più opinioni concorrenti o addirittura dissenzienti, da cui quindi
potrà discostarsi operando il distinguishing; allo stesso modo una decisione abbastanza datata od una
troppo giovane avranno un’influenza minore sul giudice: nel primo caso il principio giuridico estratto dai
fatti risulta, o può risultare, obsoleto anziché consolidato, mentre nella seconda ipotesi tale principio non
ha avuto modo di essere confermato più e più volte.
Diversa dalla tecnica del “distinguishing” è quella di “overruling”, la quale indica il potere del giudice di
discostarsi da un precedente ABROGATO dalla stessa giurisprudenza: per esempio, se una corte superiore
“va oltre” , “rovescia”, “capovolge” la regola precedente di una corte inferiore, oppure se la House of Lords
“ovverrule” una propria decisione precedente, ovviamente viene meno l’osservanza del principio dello
stare decisis. Il precedente, infatti, è equiparabile in tal caso all’abrogazione di una legge e alla sostituzione
con un’altra nei sistemi di civil law.
Particolare importanza è rivestita dalla tecnica dell’overruling nelle corti statunitensi, dove viene applicato
“l’anticipatory overruling”, con cui una corte inferiore si sottrae al rispetto del precedente di una corte
superiore quando è palese che la stessa corte superiore non intenda più attenersi a quella determinata
regola, ed il “prospective ovverruling”, con cui viene abrogato il precedente limitando l’effetto retroattivo
dell’abrogazione: il giudice, in tale ipotesi, decide il caso attenendosi al precedente, che però non viene
osservato nelle decisioni future (da quel momento in poi è abrogato).
Le corti inglesi, però, sono più legate alle “teoria dichiarativa”, limitandosi all’applicazione delle regole
esistenti, rispetto a quelle statunitensi, più propense ad attribuirsi un ruolo creativo. Comunque sia, le
tecniche esaminate del distinguishing e dell’overruling offrono al giudice la possibilità di discostarsi da un
precedente sgradito, permettendogli di fungere da mediatore tra l’esigenza di certezza del diritto e la
flessibilità del sistema.
La legge e la sua interpretazione
Tra le fonti del diritto, anche nei sistemi di common law, figura la legge ed è importante analizzare, specie
sotto una prospettiva comparatistica, il rapporto tra la stessa e la giurisprudenza. Anche qui, però, come
teoria classica
nel caso della regola del precedente, esistono una che contraddistingue la tradizione di
realtà attuale.
common law ed una 81
Il rapporto tra la legge e la giurisprudenza
Ricostruiamo brevemente qualche tappa storica.
Il Bill of Rights del 1688 afferma la supremazia, all’interno della gerarchia delle fonti, della legge
proveniente dal Parlamento, affidandola a “the King in the Parliament”, ossia ad un organo complesso
formato dalla House of Commons, dalla House of Lords e dal Sovrano. Ciò nonostante, per circa un secolo e
mezzo dopo il Bill, il Parlamento si astiene dal legiferare, consentendo lo sviluppo indisturbato della
common law.
L’aumento della produzione legislativa
Nell’Ottocento, però, il legislatore inglese si sveglia da un lungo sonno ed inizia una consistente attività di
produzione, volta ad eliminare le caratteristiche più antiquate della common law, anche se i giudici sono
abituati a dare poca importanza agli atti legislativi, considerandoli come eccezionali e limitandone
l’impatto. Grazie alle idee di Bentham, comunque, il diritto si identifica con la volontà del legislatore e si
succedono numero riforme (Judicature Acts, Partnership Act ecc.)
Con l’inizio del XX secolo, poi, la common law entra “in the age of statutes” (la definizione è di Calabresi) e
nel secondo dopoguerra inizia la legislazione sociale, volta ad edificare il sistema di welfare state. Se da un
lato, come osservano McCormick e Summers, il metodo legislativo impone di elaborare un principio in
anticipo, mentre il metodo del precedente impone di trovare la migliore soluzione al caso concreto alla
luce di decisioni già prese da altri, è anche vero che, come afferma Ugo Mattei, i giudici non hanno il potere
di creare istituzioni o di finanziarle, e pertanto non possono dar luogo ad importanti riforme.
Il giudice inglese, inoltre, deve sottostare al principio “iura novit curia” (il giudice conosce le leggi) e deve
conoscerle “tutte”, al punto che una decisione presa non tenendo conto di una disposizione legislativa
rilevante da luogo ad un “PRECEDENTE NON VINCOLANTE in quanto emesso PER INCURIAM”, motivo di
ricorso in appello.
Secondo quanto abbiamo appena detto, dunque, gli statutes sono al vertice della gerarchia delle fonti,
proprio come nei sistemi di civil law: il giudice deve sottostare alla legge, non può non tenerne conto, così
come solo la legge è in grado di riformare il sistema.
Tuttavia, abbiamo già sottolineato come, anche per la legge, esista una netta differenza tra teoria e la
realtà.
Il diritto inglese, infatti, nasce, si afferma e si consolida come common law ed il risveglio improvviso del
legislatore non può in alcun modo determinare un decadimento del diritto giurisprudenziale. Il rapporto
tra case law e statute law è complesso: le leggi, pur detenendo la supremazia formale, sono inferiori sotto
il profilo sostanziale alla common law e ciò è ben espresso dal pensiero di un grande studioso, tale Geldart,
secondo cui “la parte fondamentale del diritto inglese è costituita dalla common law, in quanto essa
potrebbe esistere (ed è esistita) senza gli statutes, mentre questi ultimi, in assenza della common law,
finirebbero per risultare come un insieme di regole disorganizzate”.
Quindi, così come accade inizialmente per il rapporto tra common law (intesa in senso stretto come diritto
elaborato dalle corti regie) ed equity, secondo cui “equity follows the law”, la medesima considerazione si
estende al rapporto tra case law e statute law: il diritto elaborato dalle corti regie prevale sempre.
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Neanche la peculiarità dello stile legislativo inglese, tendente a lasciare poco spazio di manovra ai giudici
tramite la previsione di un’interpretazione autentica all’interno di tutti gli statutes e tramite la
formulazione puntigliosa e casistica delle proprie disposizioni, riesce a piegare il potere della common law:
una norma di legge vive all’interno delle decisioni dei giudici, senza le quali non verrebbe riconosciuta
all’interno dell’ordinamento, proprio per l’importanza storica del diritto giurisprudenziale in Inghilterra.
Il diritto comunitario e lo Human Rights Act: un nuovo ruolo per il giudice inglese?
Abbiamo detto, all’inizio della trattazione sulle fonti, che anche nell’ordinamento inglese hanno assunto
una straordinaria importanza le norme del diritto comunitario: fondamentale per affermare la supremazia
del diritto europeo sul diritto interno inglese è sicuramente lo Human Rights Act del 1998, entrato in vigore
nel 2000, il quale ha recepito la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali. Questo importantissimo documento ha il merito di tracciare due linee guida per i
giudici: essi devono interpretare il diritto inglese in modo compatibile e conforme ai diritti tutelati dalla
Convenzione, così come, pur non essendo stato contemplato esplicitamente il potere di judicial review (il
potere, diciamolo, di dichiarare nulla una legge), i giudici possono emettere una “dichiarazione di
incompatibilità”, inerente il contrasto tra il diritto comunitario/la Convenzione ed il diritto interno. Spetta
sempre al Parlamento, però, abrogare o modificare la legge contenente la norma dichiarata incompatibile.
La codificazione
Se da un lato il pensiero di Bentham, auspicante una codificazione della common law, non fa presa in
Inghilterra, diversamente dagli Stati Uniti, tuttavia è utile capire come la codificazione non sia estranea a
tale ordinamento. Anzitutto degli esempi di codice si trovano per quanto riguarda specifiche materie del
diritto sostanziale; in secondo luogo dobbiamo ricordare come le nuove Civil Procedure Rules siano state
definite come “a new procedural code”.
Quindi ciò che distingue la tradizione di common law da quella di civil law non sono l’assenza o la presenza
di uno o più codici, bensì il concetto stesso di codice, che in Inghilterra non rappresenta NE’ un taglio con il
passato, NE’ un testo completo e centrale, un punto di riferimento assoluto, nell’ordinamento.
La Law Commission istituita nel 1965 e che funziona ancora oggi, per esempio, dovrebbe avere il compito
di provvedere ad una “codificazione del diritto inglese”, ma le resistente politiche e culturali non
permettono una tale opera.
Lo stile della legge e la sua interpretazione
Gli statutes, dunque, figurano in Inghilterra come un male necessario rispetto alla common law, di cui
tuttavia non si può fare a meno: questo, però, non vieta di fornire una quanto più restrittiva
interpretazione degli statutes, al fine di lasciare spazio alla creazione giurisprudenziale del diritto,
diversamente da ciò che avviene negli USA, dove la presenza di una Costituzione (con la C maiuscola)
scritta, dotata di clausole ampie, permette un’interpretazione quanto più estensiva possibile.
Anche per ciò che concerne i criteri ermeneutici di interpretazione, tra l’altro, si assiste ad una differenza
tra la realtà concreta e l’impostazione classica. Quest’ultima prevede, anzitutto, che il giudice debba
attenersi alla “literal rule”, ossia al significato letterale delle parole così come espresse all’interno della
legge. Un secondo criterio, invece, è previsto dalla “golden rule”, la quale consente di discostarsi
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dall’interpretazione letterale nel caso in cui la stessa conduca ad un esito assurdo, optando per un
significato della norma quanto più ragionevole. Il terzo criterio, quello della “mischief rule”, permette di
interpretare la norma in modo tale da rimuovere la carenza (mischief) che ha spinto il legislatore ad
emanare quella legge: va ricercato, in poche parole, lo scopo della norma; si ha un’interpretazione quasi
teleologica, con cui il giudice, a partire dal 1992 (Pepper v. Hart), anno in cui la House of Lords ha attenuato
la portata della “exlusionary rule” (secondo la quale non si può, per comprendere ed interpretare la
norma, far ricorso ai lavori preparatori della legge in cui essa è contenuta), può ricorrere ai resoconti
parlamentari per comprendere quale sia lo scopo del legislatore.
Intervengono, infine, una serie di presunzioni, utilizzate dai giudici per l’interpretazione dei testi legislativi:
leggi penali interpretate in maniera favorevole all’imputato, leggi fiscali intepretate restrittivamente,
giurisdizione delle corti non limitata, presunzione che il Parlamento non intenda limitare né le libertà
individuali né il diritto di proprietà ecc.
La consuetudine
Il diritto inglese non è assolutamente un diritto consuetudinario, tant’è che la consuetudine, all’interno
della gerarchia delle fonti, figura ma riveste un ruolo marginale. Solo le consuetudini immemorabili
(immemorial antiquity) possono essere applicate, ossia quelle osservate ininterrottamente da epoca
anteriore al 1189, il che rende l’ipotesi veramente ardua.
Il ruolo della dottrina
Il diritto inglese, lo abbiamo detto, è un diritto essenzialmente pratico: i protagonisti non sono i professori
universitari, già dal Medioevo, bensì i giudici e gli avvocati. Contrariamente a ciò che avviene nella
tradizione di civil law, dunque, la formazione del giurista in Inghilterra è affidata alle Inns of Court e non ai
docenti universitari, alle raccolte di giurisprudenza, dagli Yearbooks ai reports, e non ai testi scritti dalla
dottrina.
Anche qui, però, non possiamo tracciare una netta linea di confine tra professore protagonista dei sistemi
di civil law e giudice padrone di quelli di common law.
Il ruolo delle università inglese è cresciuto notevolmente col passare del tempo, sino a ricoprire un ruolo
essenziale nella formazione del giurista. Ciò è manifestato anche dal fatto che sia scomparso il divieto di
escludere le citazioni dei “dottori” dalle sentenze: le decisioni delle corti, sempre più frequentemente,
fanno riferimento alla letteratura accademica. Non dimentichiamoci, infine, che l’aumento della
produzione legislativa ha alle sue spalle la presenza della dottrina: l’elaborazione di uno statute, data
anche l’impostazione casistica e puntigliosa delle leggi inglese, richiede il lavoro di profondi conoscitori
della materia, i giuristi della dottrina.
SEZIONE IV – LA COMMON LAW NEGLI STATI UNITI
Premessa
Abbiamo chiuso la trattazione della common law inglese parlando delle fonti del diritto ed è da qui che
partiamo per descrivere il sistema statunitense, da sempre ben distinto rispetto a quello della
Madrepatria: se il diritto degli USA, come dice David, appare anch’esso giurisprudenziale, in forza della sua
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stessa struttura e della nozione di regola giuridica, è utile sottolineare come diverso sia il rapporto tra
legislazione e giurisprudenza.
L’aumento della produzione legislativa, il ruolo delle law schools e della dottrina in generale nella
formazione dei giuristi, la presenza di una Costituzione scritta e di un insieme di leggi statati e federali,
sono tutti elementi che contraddistinguono il sistema americano e lo rendono portatore di una fisionomia
particolare.
La recezione della common law nelle colonie e l’indipendenza
Per comprendere l’importanza della Costituzione statunitense è opportuno ripercorrere, seppur
velocemente, le tappe fondamentali che hanno portato all’indipendenza americana.
I primi insediamenti inglesi nel nord America risalgono al 1600, secolo in cui vengono create le colonie della
Virginia, del Maryland, del Plymouth e del Massachusetts ed in cui divengono di dominio inglese la colonia
di New York, dapprima olandese, e quella della Pennsylvania, originariamente svedese. Si tratta di
comunità molto distanti tra loro, unti soprattutto dal sentimento religioso, in cui si applica, seppur in
maniera insoddisfacente, la risposta offerta dal Calvin’s case del 1608, la quale prevede che regole della
common law debbano applicarsi alle colonie nella misura in cui siano appropriate alle condizioni di vita del
luogo. L’alto tecnicismo della common law, tuttavia, non permette inizialmente una piena applicazione
all’interno delle comunità coloniali, che non solo non possiedono delle corti, ma non vantano neanche dei
giuristi altamente specializzati come quelli inglesi.
Il quadro, col tempo, muta radicalmente, tanto che nel 1700 incomincia a formarsi un ceto di giuristi di
common law grazie alla diffusione di opere inglesi in materia giuridica. Nasce, in questo stesso periodo, il
movimento d’indipendenza che porta, in breve tempo alla firma, da parte di cinquantasei giuristi (il che
manifesta come la situazione sia cambiata) alla firma della Dichiarazione d’indipendenza del 4 luglio 1776,
autore della quale è principalmente Thomas Jefferson. Gli ideali della Dichiarazione tutelano le libertà
fondamentali, la necessità di un consenso ai tributi da parte dei tassati (ricordiamo che l’autonomia,
inizialmente, è voluta proprio in forza della tassazione della Madrepatria alle colonie), il diritto ad un
giudizio con giuria, il privilegio dell’habeas corpus (l'ordine emesso da un giudice di portare un prigioniero
al proprio cospetto).
Le tredici colonie, dunque, divengono veri e propri Stati sovrani e si avvicinano l’uno all’altro riunendosi in
un Congresso, inizialmente utile solo in tempi di guerra, in seguito rielaborato all’interno degli Articles of
Confederation del 1781, con i quali nascono gli Stati Uniti d’America. In principio, però, i poteri politici
riconosciuti al Congresso sono insufficienti, soprattutto per costringere i singoli Stati al rispetto dei doveri
confederali, almeno sino alla Convenzione di Filadelfia del 1787, la quale provvede a redigere un progetto
di costituzione, per cui è necessaria la ratifica dei singoli Stati, che si protrae sino al 1788, etrando in vigore
nel 1789.
L’importanza della costituzione e del Bill of Rights
Molti autori e giuristi statunitensi, sin dai primi anni di vita della Costituzione, osservano come negli USA
“non vi sia questione politica che non si risolva prima o poi in una controversia giudiziaria” (de Tocqueville),
così come “nessun altro Paese del mondo, seppur dotato di costituzione scritta, conferisce al potere
giudiziario un potere così ampio” (Frankfurter e Landis): queste riflessioni sottolineano come il diritto si
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trasformi, in breve tempo, in un prolungamento del discorso politico. Ecco perché è fondamentale, per
capire l’intero sistema, lo studio della Costituzione.
Gli articoli originari della costituzione
La costituzione americana rappresenta la prima e più antica costituzione moderna di uno Stato federale,
frutto del compromesso tra i tredici Stati originari, riflettente le tensioni tra federalisti (sostenitori di uno
Stato unitario) ed antifederalisti (timorosi del fatto che uno Stato unitario possa sottrarre libertà ai singoli
che lo compongono). Tale compromesso, per esempio, emerge nell’art.III inerente il potere giudiziario, il
quale prevede una sola Corte suprema federale con il potere del Congresso di istituire una struttura più
articolata, potere esercitato con il Judiciary Act del 1789 con il quale vengono create le corti federali
inferiori.
Gli articoli originari sono 7 e si occupano di dettare le basi istituzionali della forma di governo, definita
presidenziale, e di individuare la distribuzione dei poteri tra stati e federazione; a tali articoli si sono
aggiunti appena 27 emendamenti nel corso di più di duecento anni e nonostante l’adesione di altri 37 Stati.
I primi dieci emendamenti costituiscono il Bill of Rights (la Carta dei diritti), la carta dei diritti fondamentali
approvata nel 1791, mentre l’ultimo emendamento (il XXVII), inerente il trattamento economico di
senatori e rappresentanti, è stato introdotto nel 1992.
La Costituzione americana è una costituzione rigida, per la modifica della quale occorre l’osservanza di un
procedimento particolare al quale prendono parte i singoli Stati membri.
I primi tre articoli sono dedicati alla tripartizione dei poteri: articolo I potere legislativo, articolo II potere
esecutivo e articolo III potere giudiziario, ma all’idea della separazione dei poteri si affianca, negli USA,
quella di “checks and balances” (controllo ed equilibrio), in forza della quale ognuno dei tre poteri è
controllato dagli altri e controlla gli altri. Così i giudici federali sono nominati dal Presidente, ma occorre il
consenso del Senato; i giudici possono esercitare il controllo di costituzionalità delle leggi, ma competenza
e numero degli stessi è fissato dal Congresso; l’iniziativa legislativa spetta al Congresso, ma il Presidente
può porre il veto sospensivo sulle leggi approvate. Analizziamo nello specifico i primi articoli.
Articolo I – Potere legislativo
Il potere legislativo federale è esercitato dal Congresso, organo bicamerale composto dal Senato, due
rappresentanti per ogni Stato membro rinnovati per un terzo ogni due anni, e dalla Camera dei
rappresentanti, formata su base nazionale, proporzionalmente alla popolazione degli Stati, da deputati con
mandato biennale.
La competenza legislativa del Congresso, però, riguarda solo le materie espressamente previste: moneta,
tasse, difesa, diritto d’autore, diritto marittimo, commercio con l’estero ed in interstate commerce. Il
Congresso ha, poi, il compito di promulgare leggi “necessarie e adatte” all’esercizio di quanto attribuitogli
dalla Costituzione. La “necessary and proper clause” e la “interstate commerce clause” hanno ampliato, col
passare del tempo ed in forza dell’intervento della Corte suprema tramite un’interpretazione estensiva, il
potere d’intervento del legislatore nazionale. 86
Nei settori PRINCIPALI del diritto privato la competenza spetta, invece, ai singoli Stati (diritto di famiglia,
successioni, responsabilità civile, contratti, diritto societario), sebbene più che dal legislatore esse è
disciplinata dalla giurisprudenza delle corti locali.
Nel XIX secolo l’intervento del Congresso, nelle poche materie di diritto privato di propria competenza, è
apparso assai ridotto; nel XX secolo, invece, il Congresso è più volte intervenuto in materia economica e
nella tutela dell’ambiente e del consumatore, sviluppando anche un ampio corpo di diritto amministrativo,
sempre grazie all’interpretazione estensiva offerta dalla Corte suprema in riferimento ad alcune clausole
costituzionali (es. commerce clause).
Articolo II – Potere esecutivo
Il potere esecutivo, oggetto dell’articolo II della Costituzione, è attribuito al Presidente degli Stati Uniti
d’America, il quale è sia capo dello stato, sia capo di governo ed ha un ruolo politico di marcata
preminenza, in forza del fatto che riceve l’investitura nazionale dal corpo elettorale, sebbene con un
sistema indiretto. Gli elettori, infatti, non eleggono il Presidente, bensì il “collegio dei grandi elettori”, che
si occupa di eleggere il Presidente, che ha carica quadriennale, rinnovabile una sola volta.
Il Presidente ha anche il comando delle forze armate esercitato molto spesso, nella storia degli Stati Uniti,
come ausilio al suo programma di politica estera, sebbene la dichiarazione di guerra spetti al Congresso.
Il Presidente, poi, con “l’advice and consent” del Senato si occupa di stipulare trattati internazionali e di
nominare ambasciatori, consoli e, soprattutto, giudici della Corte suprema.
Può essere rimosso dal suo incarico solo tramite un procedimento di “impeachment”, ossia tramite la
messa in stato di accusa da parte della Camera dei rappresentanti ed il giudizio di condanna da parte del
Senato, presieduto in tale occasione dal Chief Justice della Corte suprema.
Articolo III – Potere giudiziario
L’articolo III affida il potere giudiziario ad una Corte suprema federale, prevedendo il potere del Congresso,
esercitato prontamente con il Judiciary Act del 1789, di creare corti federali inferiori.
Articoli IV-VII
I successivi articoli contengono norme molto eterogenee, inerenti l’uguaglianza dei cittadini di tutti gli Stati
membri, il procedimento per emendare la Costituzione, la previsione secondo cui leggi federali e
Costituzione rappresentano la “supreme law of the land”.
A modifica del testo costituzionale, come abbiamo già osservato, sono intervenuti un numero piuttosto
esiguo di emendamenti, 27 per l’esattezza, in un periodo di tempo di 222 anni.
Il Bill of Rights
I primi dieci emendamenti alla Costituzione statunitense rappresentano il Bill of Rights, ossia la carta dei
diritti fondamentali dei cittadini americani, importantissima nel processo di federalizzazione: abbiamo visto
come, nel periodo di approvazione della Costituzione, si contrappongano i federalisti e gli antifederalisti e,
se guardiamo bene tali emendamenti (che risalgono al 1791), possiamo notare come essi rappresentino la
vittoria, sotto certi aspetti, dei secondi sui primi, in quanto limitano il potere del governo federale.
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Il primo emendamento, per esempio, prevede che “il Congresso non possa fare alcuna legge per il
riconoscimento di qualsiasi religione, o per proibirne il culto, o per limitare la libertà di parola o di stampa,
o il diritto di riunione in forma pacifica o per evitare che i cittadini inoltrino petizioni al governo per la
riparazione di torti subiti”. In sostanza, l’emendamento in questione limita il potere del governo federale
inerentemente alle libertà fondamentali e solo nel 1868 il XIV emendamento estende tale tutela dei diritti
limitando anche il potere dei singoli stati.
La formula del “due process” contenuta nel V e nel XIV emendamento, poi, somiglia molto alla clausola 39
della Magna Charta inglese del 1215 (vedi pagina 61 della dispensa). Un altro esempio di limitazione del
governo federale è offerto dalla previsione della giuria nei processi.
Le libertà individuali, dunque, sono tutelate tutte all’interno della Costituzione, che appare rigida, in
quanto modificabile solo tramite un determinato procedimento: tale tutela, tra l’altro, si estrinseca nel
controllo giudiziario di costituzionalità delle leggi, affermato in via definitiva nel 1803 dalla sentenza
Marbury v. Madison.
Il contenuto essenziale del Bill of Rights
La gran parte degli emendamenti è dedicata a limitare il potere del Congresso, prevedendo che giustizia
federale civile e penale, nelle materie di competenza dello stesso, debbano rispettare determinate
procedure:
IV emendamento: protegge la persona, l’abitazione e la corrispondenza da perquisizioni e sequestri
• illegittimi;
V emendamento: rinvio a giudizio solo da parte della giuria, diritto a non testimoniare contro se
• stessi, divieto di bis in idem (double jeopardy), tutela della vita, della libertà e della proprietà
tramite il due process;
VI emendamento: assistenza del difensore, diritto alla presentazione di testimoni a favore e ad
• interrogare quelli a carico, diritto al giudice naturale ed alla giuria, tutte a tutela dell’imputato nel
processo penale;
VII emendamento: presenza della giuria in cause civile di un certo rilievo;
• VIII emendamento: divieto di pene crudeli e diritto alla libertà provvisoria su cauzione.
•
Altri emendamenti, invece, riguardano garanzie estranee al corpo processuale:
I emendamento: tutela la libertà di parola, di opinione, di stampa, di riunione, di culto ed impedisce
• agli USA di avere una religione ufficiale;
V emendamento: divieto dell’espropriazione senza indennizzo.
•
La due process clause
Il V emendamento, come abbiamo già detto, garantisce il cosiddetto “due process of law”, ossia il principio
del “regolare processo”, importante parametro costituzionale anche per la tutela di nuovi diritti.
La materia del due process accoglie la distinzione tra procedural due process e substantive due process, il
cui chiarimento può farci rendere conto, da un lato, del ruolo della Corte suprema nell’ordinamento e,
dall’altro, della possibilità della giurisprudenza di tornare sui suoi passi attraverso l’overruling, ipotesi
eccezionale e particolare in Inghilterra, ma molto diffusa negli USA.
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Procedural due process
procedural due process
L’accezione di si riferisce ad un giudizio “fair”, ossia equo/giusto/imparziale sotto il
profilo tecnico: i vari diritti garantiti costituzionalmente (vita, libertà, proprietà) non possono essere
formali
limitati e subire restrizioni senza la previsione di una serie di garanzie (diritto al contraddittorio, ad
una giuria rappresentanti della società, ad un giudice terzo e imparziale).
Sebbene riguardi l’aspetto tecnico, anche tale concetto ha provocato diversi dibattiti, come ad esempio
quello sul diritto al gratuito patrocinio per i non abbienti, poi garantito da una pronuncia della Corte
suprema del 1963 (Gideon v. Wainwright).
Substantive due process
Per substantive due process, invece, si intende il senso sostanziale della clausola del due process,
estrinsecatasi nella possibilità della Corte suprema di impiegare tale formula per la tutela dei diritti
fondamentali (libertà e proprietà sopra a tutti).
E’ opportuno partire da alcune sentenze della Corte per capire di cosa stiamo parlando:
Sentenza Lochner v. New York, 1905: la Corte dichiara illegittima, per in contrasto con la libertà di
• contrattare tutelata proprio dalla due process clause, una legge dello Stato di New York inerente il
limite di dieci ore giornaliere come durata massima dell’attività lavorativa dei panettieri. I giudici,
infatti, seguono l’ideologia del libero mercato e della libera contrattazione, secondo cui non si può
porre un limite all’accordo tra le parti, ed in tal modo non fanno altro che ostacolare i primi
tentativi di una “giusta” legislazione sociale. Solo un giudice, Holmes, è contrario a tale decisione:
secondo costui, infatti, la costituzione non prevede una particolare teoria economica da far
rispettare;
Sentenza West Coast Hotel v. Parrish, 1937: 32 anni dopo la sentenza Lochner, la Corte suprema
• torna sui suoi passi, ritenendo valida una legge dello Stato di Washington inerente la previsione di
un salario minimo per le donne. I giudici, dunque, non fanno altro che riconoscere la possibilità che
la libertà contrattuale sia limitata.
Nel periodo tra le due sentenze citate, tra l’altro, lo scontro tra potere giudiziario e potere esecutivo è
fortissimo: la Corte suprema, prima di giungere alla sentenza del ’37, invalida una serie di leggi dei vari
Stati volte ad indirizzare l’economia in un certo modo, oltre ad invalidare la legislazione del primo New
Deal, accusando il Congresso di aver sconfinato in un territorio che non è di sua competenza. Il Presidente
Roosevelt, però, intende attuare un proprio programma politico, incentrato per lo più sull’economia e
teme che esso possa essere assoggettato al medesimo trattamento da parte della Corte suprema
(invalidazione) e pertanto viene studiata una soluzione: il numero dei giudici non è fissato dalla Carta
packing
costituzionale e, pertanto, può essere modificato senza alterare la stessa; ecco, dunque, il “Court
plan”, il quale prevede che il Presidente possa nominare un giudice aggiuntivo al compimento del
sessantesimo anno di età di ogni giudice in carica a vita, il che, data la situazione anagrafica della Corte,
può garantire la nomina di 6 nuovi giudici, capaci di sovvertire le decisioni del collegio. Il New Deal di
Roosevelt, tuttavia, non incontra ostacoli ed il Court packing plan cade nel nulla, data la pronuncia del ’37
della Corte (a me viene da pensare che i giudici, giunta la voce del piano, abbiano optato per un’inversione
di tendenza). 89
Notiamo, quindi, come sia determinante l’interpretazione estensiva e creativa della Costituzione da parte
rights”,
della Corte suprema, il che si manifesta anche attraverso i “penumbra diritti tutelati dalla Corte in
quanto rientranti, seppur in senso lato, nella sfera d’azione del due process: pensiamo al diritto di privacy e
al diritto della donna di interrompere volontariamente la gravidanza nella sua prima fase.
Ecco, dunque, che le clausole costituzionali americane si configurano come “aperte” ed è sempre qui che
possiamo riscontrare il ruolo di rilievo della Corte suprema, capace di far parlare, addirittura, di un “diritto
costituzionale giurisprudenziale”.
Il X emendamento
Abbiamo detto, in apertura di questa sezione, che gli Stati Uniti presentano un sistema federale, tra l’altro
particolare, in cui figurano tanto un livello federale, con Presidente, Congresso e sistema di corti, quanto
un livello locale, in cui troviamo ugualmente un sistema legislativo, esecutivo e giudiziario.
E qui sorge il problema della distribuzione del potere e della divisione delle competenze tra federazione e
Stati: quali sono le materie di competenza federale? I singoli Stati sono esclusi dalle materie di competenza
del Congresso o mantengono una competenza residua ed integrativa? Qual è la competenza delle corti
federali?
Una prima risposta proviene dalla lettura dell’articolo I, dove sono elencate le materia di competenza del
Congresso.
Il X emendamento, invece, prevede: “I poteri non demandati dalla Costituzione agli Stati Uniti, o da essa
non vietati agli Stati, sono riservati ai rispettivi Stati, o al popolo”.
Il che significa che “la competenza legislativa degli Stati è la regola, mentre la competenza federale è
l’eccezione”. Il diritto federale, dunque, è limitato ma superiore a quello statale: limitato perché
esercitabile solo nelle materie di propria competenza previste costituzionalmente; superiore perché lo
stesso articolo VI, alla sezione 2, prevede che “Costituzione, leggi federali e trattati sono leggi supreme del
Paese”.
Tuttavia, anche nelle materie di competenza del Congresso, individuate dall’articolo I, si ha una
competenza residuale ed integrativa degli Stati (si ha competenza concorrente, in sostanza): gli Stati non
possono legiferare in contrasto con le disposizioni federali, ma possono completare ed integrare le stesse
(un po’come le nostre regioni, nelle materie di competenza concorrente, sono tenute a rifarsi ai principi
dettati dal legislatore centrale, ma possono comunque occuparsi della normativa di dettaglio come
ritengono più opportuno…l’esempio non è identico, perché nel nostro caso c’è un vincolo al fine, ma
appare simile per l’impossibilità di entrare in contrasto con la legge dello Stato).
Se per logica siamo portati a pensare, sotto il profilo giudiziario, che le corti federali debbano applicare il
diritto federale e quelle locali il diritto dei singoli Stati, purtroppo ci stiamo sbagliando. Per capire, però,
occorre analizzare l’organizzazione giudiziaria americana.
L’articolo III della costituzione e l’organizzazione giudiziaria
L’articolo III della Costituzione, come è stato già detto (scusate se uso sempre espressioni tipo “come
abbiamo già osservato, come abbiamo visto, come abbiamo detto”, ma sono essenziali per farci/farvi
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capire, mentre studiate, che c’è un collegamento, da qualche parte, in cui si parla-accenna allo stesso
argomento), si occupa del potere giudiziario federale ed è diviso in tre sezioni: la terza non ci interessa, in
quanto parla delle ipotesi di tradimento, mentre la prima si occupa di istituire la Corte suprema e di
conferire al Congresso il potere di creare corti federali di grado inferiore (potere esercitato con il Judiciary
Act del 1789), oltre che di offrire garanzie di indipendenza ai giudici, e la seconda sezione prende in
considerazione la competenza delle corti, dando luogo ad una “limited jurisdiction”.
Accanto alle corti federali, poi, figurano quelle dei singoli stati: dualismo perfetto tra giudiziario nazionale e
locale, è in questi termini che il libro di testo pone la questione, sottolineando la differenza rispetto ad altri
Stati federati, come Germania e Svizzera, in cui le corti federali sono SOLO al vertice della gerarchia e non si
può parlare di dualismo perfetto.
Le corti federali
Analizziamo il sistema di corti federali istituito in forza dell’articolo III della Costituzione, grazie soprattutto
ad atti del Congresso (esempio: Judiciary Act del 1789): le corti di primo grado prendono il nome di District
Courts, quelle di secondo grado sono le Courts of Appeals ed infine, in ultima istanza, è competente la
Supreme Court of USA. Abbiamo detto che tutti i giudici federali godono di determinate garanzie: la
propria carica è a vita e possono essere rimossi dal loro incarico solo attraverso il procedimento di
impeachment; inoltre la loro retribuzione non può essere soggetta a diminuzioni di alcun genere.
In base all’articolo I, sezione 8, tra l’altro, il Congresso ha il potere di istituire altre corti federali, definite
come specializzate, con competenza particolare, i cui giudici non godono di alcuna delle garanzie sopra
descritte e la cui carica è limitata nel tempo: pensiamo alla U.S. Tax Court o alla U.S. Court of International
Trade.
U.S. District Courts
Le corti federali di primo grado, le District Courts, sono in tutto 94 e vi appartengono circa 600 giudici,
assistiti in taluni casi da magistrates con funzioni decisorie e da clerks. E’ presente almeno una District
Court in ogni Stato, che opera come giudice monocratico, il più delle volte in procedimenti con giuria.
U.S. Courts of Appeals
Vi sono 13 Courts of Appeal in tutti gli Stati Uniti, le quali si articolano in “circuiti” territoriali, ossia
comprendenti più Stati, a cui si aggiungono il District of Columbia ed il Federal circuit, giudice di appello
contro le decisioni delle corti specializzate e delle agenzie amministrative. Ne fanno parte circa 200 giudici
e la Court of Appeals si presenta come un organo collegiale, formato da tre giudici, le cui decisioni sono
prese, nella maggior parte dei casi, “en banc”, ossia a sezioni unite.
U.S. Supreme Court
La U.S. Supreme Court è l’organo giudiziario al vertice del sistema federale, unico ad essere previsto
espressamente dalla Costituzione, composto da otto Associate Justices e da un Chief Justice: solo i giudici
della Corte Suprema hanno l’appellativo di Justice, mentre tutti gli altri sono definiti come judges. La Corte
suprema, come abbiamo già osservato, svolge un ruolo innovatore in ambito politico (policy-making),
potendo pronunciarsi sulla legittimità delle leggi, ed è per tal motivo che, nel silenzio della Costituzione, il
legislatore è molto spesso intervenuto per variare il numero dei giudici, o ha semplicemente minacciato di
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farlo, come nel 1937 prima del New Deal di Roosevelt. I giudici vengono nominati dal Presidente con il
consenso del Senato ed il numero di essi, dunque, viene definito con legge ordinaria: è una chiara
manifestazione del principio di “checks and balances”.
Sono due le ipotesi in cui la Corte suprema ha competenza: quella assai rara di controversie in cui sia parte
uno Stato della Federazione e di controversie riguardanti rappresentanti diplomatici, in cui funge da
organo di primo grado, e le “appellate jurisdiction”, in cui funge da organo di impugnazione contro le
decisioni delle Courts Of Appeals e delle corti supreme statali, nei casi di controversie tra cittadini
appartenenti a Stati diversi o, più soventemente, nelle ipotesi in cui sia necessario applicare il diritto
federale.
Attualmente la Corte suprema è composta da nove Justices, i quali si limitano a decidere pochissimi casi
(circa 70 su 8.000 ricorsi annuali), il che testimonia la severa selezione delle questioni da trattare,
attraverso lo strumento tecnico del “writ of certiorari” (possibilità di avocare a se cause in corso presso una
corte inferiore, incapace di garantire un giusto processo o non in possesso della competenza adeguata,
vedi pagina 58 della dispensa), unico strumento a partire dal 1988, con cui, dunque, è la stessa Corte a
stabilire quali casi decidere.
Le proprie pronunce hanno notevolissima autorità di precedente ed un grande impatto sulla vita degli Stati
Uniti. E’ sufficiente, a testimonianza di ciò, prendere in considerazione due sentenze storiche:
Plessy v. Ferguson, 1896: la Corte, inerentemente alla regolamentazione segregata (ossia alla
• separazione tra gruppi) dei mezzi di trasporto, decide che bianchi e neri debbano godere di un
trattamento “separato ma uguale”; solo il giudice Harlan, nella propria opinione dissenziente,
asserisce che “La Costituzione non ha colore e non può tollerare la distinzione in classi tra cittadini”;
Brown v. Board of Education, 1954: la Corte, grazie alla tecnica dell’overruling, si svincola dal
• precedente sopra citato e, permettendo a bambini bianchi e neri di frequentare le stesse scuole,
stabilisce che la segregazione razziale, ossia la divisione in gruppi, così come il principio “separate
but equal”, non possano trovare spazio “in the field of public education” (nel campo
dell’educazione pubblica), aprendo di fatti la strada alla legislazione sui diritti civili degli anni
Sessanta.
La procedura delle corti federali
Per ciò che concerne la procedura seguita dalla corti federali, occorre ricordare che nel 1934 lo stesso
Congresso incarica la Corte suprema di elaborare un insieme di norme di procedura civile valido per tutto il
sistema federale, compito portato a termine nel 1938, quando si ha l’approvazione (da parte del
Congresso) delle Federal Rules of Civil Procedure (Regole Federali di Procedura Civile), a cui pian piano si
sono uniformati tutti gli Stati. Il compito di tali regole è quello di snellire il processo e di ridurre i costi.
Tuttavia il processo statunitense, come precisano gli autori, ha delle caratteristiche proprie molto
particolari, tali che si può parlare tranquillamente di “American Exceptionalism” (Eccezionalità Americana),
dato che un tale sistema può sopravvivere solo dove vi siano valori profondi e condivisi sul tema, ossia solo
negli USA: il modello, dunque, di processo è difficilmente esportabile in un altro Paese.
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Pensiamo alla continua diffidenza nei confronti lo Stato e le autorità, che porta al ruolo passivo del giudice
del trial, alla costante presenza della giuria, allo “battle of experts” (la battaglia degli esperti), al criterio di
ripartizione delle spese processuali.
Le corti statali
Il sistema giudiziario americano è contraddistinto dalla contemporanea presenza di un duplice ordine di
corti: federali e statali.
Parlare, anche in termini generali, delle corti, della propria organizzazione e dei rispettivi nomi all’interno
di ogni Stato è impresa ardua: possiamo dire, in via di approssimazione, che in due terzi degli Stati esistono
3 gradi di giurisdizione, mentre nel restante terzo sono solo due (manca il livello intermedio). Prendiamo
ad esempio lo Stato di New York: qui l’organo di prima istanza è definito come Corte Suprema (una per
ogni contea), l’organo di seconda istanza è definito Supreme Court Appellate Division e l’organo di terzo
grado prende il nome di New York Court of Appeals. Anche gli stessi nomi, dunque, potrebbero farci cadere
in errore, in quanto l’organo di ultima istanza dello Stato di New York ha un nome simile a quello
intermedio del sistema federale (Court of Appeals). Accanto a tutti questi tribunali ordinari, poi, vi sono
quelli specializzati in tema di diritto di famiglia o di successione, giusto per fare qualche esempio.
I giudici federali
I giudici federali, in linea generale, vengono tutti nominati, al di là del grado delle corti, dal Presidente con
il consenso del senato.
Tuttavia, va sottolineato come il Presidente svolga un ruolo attivo solo nella nomina dei componenti della
Supreme Court: egli deve tener conto non solo dell’orientamento ideologico, che non corrisponde sempre
con l’appoggio al suo partito politico, ma anche di alcune considerazioni “d’equilibrio”, in quanto è molto
facile e quasi dovuto che un giudice ebraico venga sostituito da un altro giudice ebraico, così come una
donna, il più delle volte, viene sostituita da un’altra donna.
Non bisogna sottovalutare, inoltre, il ruolo del Senato: è a questo organo che spetta l’approvazione della
nomina e si ricordano casi in cui il Senato ha rigettato la scelta del Presidente.
I giudici federali sono nominati a vita e possono essere rimossi solo tramite il procedimento di
impeachment, avviato una sola volta nel 1805 ma conclusosi con l’assoluzione del giudice Chase. Oltre alle
garanzie offerte direttamente dall’articolo III della Costituzione, i giudici godono di una grande autonomia
e di un equivalente prestigio, portatori, il più delle volte, di idee riformatrici: molti Presidenti, nel corso
della storia, hanno gradito l’operato di soggetti da loro nominati, così come numerosi sono i casi in cui i
Presidenti si sono ritrovati a pentirsi di una determinata nomina (Nixon nominò Chief Justice il giudice
Burger, colui che si occupò di redigere l’opinione della sentenza che obbligo il Presidente, nel ’74, a
rendere pubbliche le registrazioni che lo portarono alle dimissioni, scandalo del Watergate).
Il Chief Justice ha un ruolo importantissimo all’interno della Corte Suprema, assegnando, giusto per fare un
esempio, la redazione delle opinioni agli altri giudici: i periodi storici della Supreme Court, infatti, prendono
tendenzialmente il nome del loro Chief Justice.
Per un Presidente, nominare uno o più giudici della Corte Suprema ha un’importanza vitale: con tale
nomina le idee di un Presidente oltrepassano il suo mandato e si diffondono nella storia statunitense.
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Alla nomina dei giudici federali degli altri gradi di giudizio, invece, non provvede direttamente il Presidente
(anche se la nomina formale proviene da lui), ma se ne occupa l’Attorney General, il ministro della giustizia,
coadiuvato nella scelta da un comitato dell’American Bar Association, il Committee on Federal Judiciary.
I giudici federali, in linea di massima, vengono sempre scelti tra i giudici delle corti inferiori, i professori
delle facoltà universitarie ed i pubblic officers, il che comporta una mobilità nelle professioni legali
notevole, del tutto assente in Inghilterra, dove i giudici vengono reclutati tra gli avvocati di maggior
prestigio (come abbiamo già visto).
I giudici statali
Lo status dei giudici statali, così come i sistemi di reclutamento degli stessi, variano da Stato a Stato e,
volendo generalizzare, è possibile parlare di tre modelli per la scelta di tali giudici:
Modello basato sull’elezione popolare: è il popolo a scegliere un giudice, in carica per un periodo da
• 6 a 12 anni, influenzato ovviamente dai partiti politici che portano avanti la campagna elettorale dei
propri candidati di riferimento (la Corte Suprema, nel 2009, ha stabilito che un giudice debba
astenersi dal decidere una causa in cui l’imputato sia un soggetto che ha contribuito,
finanziariamente, alla propria elezione);
Modello basato sulla nomina: qui è il governatore di uno Stato, previo consenso del Senato, a
• scegliere un giudice;
Modello misto con due varianti: la prima variante, propria della California, prevede che governatore
• sottoponga la nomina di un giudice alla Commission of Qualifications; se il nome viene approvato, il
candidato viene nominato per un anno, per poi presentarsi all’elettorato per la conferma e, se
confermato, rimanere in carica per dodici anni. La seconda variante, propria del Missouri, prevede
che una commissione di giuristi (giudici, laici, avvocati) provveda alla scelta di tre candidati per un
unico posto vacante, tra cui il governatore ne sceglie uno solo, il quale dopo il primo anno di carica
si presenta all’elettorato per la conferma del proprio mandato, che va dai sei ai dodici anni. Il
modello, per il coinvolgimento di specialisti del settore e popolo, ha avuto un grande successo ed è
stato adottato da circa 10 Stati.
Marbury v. Madison e il controllo giurisdizionale di costituzionalità delle leggi
review”,
Negli Stati Uniti d’America il “judicial ossia il potere di giudicare la legittimità costituzionale di
leggi federali e statali, non è sancito all’interno del documento costituzionale, ma è affermato dal Chief
Justice Marshall nella sentenza del 1803 Marbury v. Madison.
Ciò nonostante, nel dibattito che accompagna l’elaborazione della Costituzione, viene comunque
teorizzato un potere simile da parte dei giudici, così come molti esperti giudicano la “supremacy clause”
dell’articolo VI come fondamento testuale della judicial review (l’articolo VI, infatti, dice che le leggi
federali e la Costituzione, ed anche i trattati internazionali, costituiscono la legge suprema a cui tutti i
giudici, anche quelli dei singoli Stati, devono conformarsi).
Non possiamo, però, comprendere realmente come avviene l’attribuzione del judicial review se non
prendiamo in considerazione il singolo caso, e la conseguente decisione, del 1803.
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Marbury viene nominato giudice di pace dal Presidente federalista Adams poche ore prima che scada il suo
mandato. Madison, funzionario della nuova amministrazione Jefferson, dichiaratamente antifederalista,
non provvede alla notificazione dell’incarico, dato che la precedente amministrazione non ha fatto in
tempo a portarla a termine. Marbury, a questo punto, agisce in giudizio presso la Corte suprema,
sottolineando che la notificazione è un atto dovuto e che, in assenza di un provvedimento in tal senso da
parte di Madison, la Corte ha il potere, in forza del Judiciary Act del 1789, di emettere un “writ of
mandamus” che obblighi la nuova amministrazione a provvedervi.
La Corte suprema, presieduta da Marshall appartenente allo stesso partito politico dell’attore (Marbury), si
trova tra due lame: da una parte può accogliere la domanda, rischiando di apparire schierata con “l’amico
di partito” e con l’opposizione; dall’altra può rigettare la domanda, apparendo in tal modo sottomessa al
governo.
Il giudice Marshall, però, pur non vantando una notevole conoscenza giuridica (egli viene fatto Chief Justice
dallo stesso Presidente Adams di cui era Segretario di Stato ed è un politico, non un giurista), possiede una
spiccata creatività e nella sentenza del 1803, dopo una serie di obiter dicta (plurale di obiter dictum, per la
cui definizione vi rimando alle pagine 80 e 81 della dispensa) volte a supportare il diritto vantato da
Marbury, nega a quest’ultimo il rimedio del writ of mandamus da parte della Corte suprema. Secondo
Marshall, infatti, la Corte non è competente a decidere del caso specifico e la questione viene posta sul
piano del rapporto tra Judiciary Act e Costituzione: se è vero che il primo conferisce a Marbury il diritto
vantato per cui egli ha agito in giudizio, ossia il diritto ad ottenere il writ of mandamus da parte della Corte
suprema che obblighi Madison alla notificazione dell’incarico, è altrettanto vero che la Corte, in forza
dell’art.3 della Costituzione, non può decidere della questione in primo grado, laddove è competente solo
nelle ipotesi di controversie in cui sia parte uno Stato della Federazione e di controversie riguardanti
rappresentanti diplomatici, ma solo in secondo, laddove si renda necessario un suo intervento per
applicare il diritto federale, di cui fa parte il Judiciary Act. Marbury, dunque, non può adire la Corte
suprema direttamente in quanto la Costituzione non glielo consente e la Corte stessa è obbligata a
disapplicare il Judiciary Act.
La previsione dell’emissione di un writ of mandamus da parte del Judicary Act su ricorso della persona
lesa, quindi, è in contrasto con la previsione costituzionale inerente i poteri della Corte suprema in primo
grado. Ecco il contrasto sottolineato da Marshall e la prima ipotesi, nella storia degli USA, di controllo di
costituzionalità di una legge, disapplicata pertanto dalla Corte.
Marshall, quindi, giunge ad una semplice conclusione: o la Costituzione è superiore ad ogni atto legislativo
NON CONFORME, ed in tal caso ogni legge ad essa contraria NON E’ legge, oppure il potere legislativo può
modificare la Costituzione in qualsiasi momento con una legge ordinaria, rendendo la Carta costituzionale
La Corte,
un assurdo tentativo di limitazione, da parte del popolo, di un potere di per se illimitabile.
dunque, deve avere il potere di decidere quale, tra due regole in contrasto, debba prevalere.
Secondo Marshall il controllo di costituzionalità delle leggi altro non è che un corollario dell’obbligo del
giudice di decidere un caso: da qui proviene il modello “diffuso” statunitense, in ragione del quale il
giudizio di legittimità costituzionale di una legge deriva dalla soluzione di una controversia reale ed
effettiva. In forza di tale modello, dunque, non esiste un giudice costituzionale ad hoc, ma tale compito di
controllo è svolto da qualsiasi giudice ordinario che si trovi a risolvere un caso concreto. Tuttavia, sebbene
tale potere sia concesso a tutte le corti, l’operatività della regola dello stare decisis prevede che la
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decisione di una corte inferiore possa vincolare, nel tempo, solo se stessa e le corti di pari grado, non
anche le corti di grado superiore. Tra l’altro, tramite i sistemi di impugnazione si può sempre giungere
sempre dinanzi alla Corte suprema ed è il giudizio di quest’ultima a rendere una legge legittima, o meno, in
tutto il territorio degli Stati Uniti.
La Corte, tra l’altro, esercita con giusta e cauta parsimonia il potere di judicial review: nel corso della sua
attività, infatti, ha ritenuto incostituzionali SOLO 150 leggi federali, 940 statali e 120 atti regolamentari
restraint”.
degli enti locali, adottando quindi quello che viene definito come “atteggiamento di
La complessità del federalismo americano e il rapporto tra giurisdizione federale e statale
“Se per logica siamo portati a pensare, sotto il profilo giudiziario, che le corti federali debbano applicare il
diritto federale e quelle locali il diritto dei singoli Stati, purtroppo ci stiamo sbagliando. Per capire, però,
occorre analizzare l’organizzazione giudiziaria americana.”
E’ così che abbiamo chiuso il paragrafo precedente alla descrizione dell’organizzazione giudiziaria
statunitense. Ora che vi abbiamo provveduto, è bene tornare sulla domanda: “Quale diritto deve essere
applicato dalle varie corti, federali e statali???”
Il Congresso federale ha la possibilità di legiferare sulle materia espressamente attribuitegli dalla
Costituzione, mentre in tutti gli altri casi è competente il legislatore dei singoli Stati.
Per ciò che riguarda la giurisdizione vale la stessa cosa: la competenza delle corti statali è la regola, mentre
quella delle corti federali è l’eccezione. Le corti federali, infatti, sono dotate di limited jurisdiction e
possono essere adite solo nei casi previsti dalla Costituzione.
Abbiamo visto, infatti, che l’articolo III attribuisce competenza ai giudici federali solo in due ipotesi: nel
caso in cui debba essere applicata la Costituzione o una legge federale, tenendo conto quindi della
“natura” della controversia, e nell’ipotesi in cui parte in causa siano il governo degli Stati Uniti o
cittadini
rappresentanti diplomatici e quando la controversia, con valore superiore ai 75.000 $, sorge tra
appartenenti a Stati diversi, tenendo conto in questo caso delle “persone” dei ricorrenti.
La controversia tra cittadini appartenenti a Stati diversi, però, è molto particolare: in questo caso le parti
possono adire la giurisdizione statale, sebbene vi possa essere il ricorso alla Corte suprema degli Stati Uniti
contro la decisione dell’organo statale di ultima istanza. Questa ipotesi è nota come “diversity jurisdiction”
(diversa giurisdizione) e le corti federali si ritrovano a dover applicare il diritto statale. Facciamo un
esempio: nella città di San Francisco, Stato della California, avviene un incidente automobilistico tra un
cittadino di quello Stato ed un cittadino del Maine. La Corte federale distrettuale competente è quella del
luogo in cui si è verificato l’incidente, in forza delle regole sul conflitto di leggi tra Stati (simili alle nostre
norme di diritto internazionale privato), che deve decidere secondo il diritto della California, in quanto non
essendo tale materia (quella degli incidenti) di competenza del Congresso NON SI PUO’ applicare il diritto
federale. Cosa si debba intendere per diritto della California (così come di tutti gli altri Stati) è ben descritto
all’interno dello Judiciary Act del 1789, nella Sezione 34, in cui si dice “The laws of the several States…shall
be regarded as rules of decision in trial at common law in the Courts of the United States in cases where
they apply” (Le leggi dei singoli Stati devono essere considerate come regole per prendere una decisione
nel processo di common law presso le Corti degli Stati Uniti). Ma anche qui sorge un problema: con il
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termine laws si fa riferimento alle sole leggi statali emanate dall’organo legislativo (statute law)? Oppure
vanno presi in considerazione anche i precedenti delle corti di quello Stato (common law di quello Stato)?
Una prima risposta alle nostre domande viene dalla sentenza della Corte suprema nel caso Swift v. Tyson
del 1842, in cui la Corte, per favorire l’uniformità del diritto, interpreta in maniera restrittiva il Judiciary
Act, sostenendo che il termine “laws” riguarda solo gli statutes di quello Stato e non anche i precedenti
giudiziari delle corti statali. Va presa, dunque, in considerazione la legge e non il diritto, statute law e non
common law.
In seguito a tale pronuncia, però, sorgono dei problemi sul piano pratico e sul piano costituzionale: sotto il
primo profilo si contrappongono soluzioni giuridiche diverse, a seconda che si investa della questione la
corte statale, che tiene in considerazione tanto la statute law quanto la common law, o la corte federale,
che tiene in considerazione la sola statute law, in difetto della quale applica la general common law (e non
la common law di quello Stato); sotto il profilo costituzionale, invece, si viene a creare, prendendo le
decisioni (in mancanza delle leggi statali) secondo la general common law, un diritto federale
giurisprudenziale in materie di non competenza del Congresso. La stessa nozione di general common law,
in questo caso, rende l’autorità giudiziaria federale superiore rispetto ai singoli Stati nelle materie di
competenza di questi ultimi.
Un cambiamento di pensiero si ha in seguito al caso Erie Ralroad Co. v. Tompkins del 1938. Il signor
Tompkins, cittadino della Pennsylvania, percorre di notte un sentiero lungo i binari della ferrovia e viene
urtato, e gravemente ferito, da uno sportello aperto di un treno appartenente alla Erie Railroad Co.,
società registrata nello Stato di New York. Data l’appartenenza a diversi Stati del signor Tompkins e della
Compagnia (Erie Railroad), Tompkins agisce presso la Corte federale del Southern District di New York: la
Compagnia sottolinea come, secondo la giurisprudenza della Corte suprema della Pennnsylvania, Tompkins
non abbia diritto al risarcimento del danno; quest’ultimo, invece, fa notare come, in mancanza di una legge
locale a riguardo, il giudice federale debba applicare non la common law di quello Stato, bensì la general
common law, che prevede il risarcimento. La Corte, tenendo in considerazione l’orientamento precedente
dettato dal caso Swift v. Tyson, condanna la compagnia newyorkese al risarcimento del danno. La
compagnia non ci sta e presenta ricorso alla Corte suprema degli Stati Uniti, che cassa la decisione e rinvia
il caso alla corte d’appello affinché si decida secondo la common law della Pennsylvania: secondo la Corte,
infatti, il diritto da applicarsi in certi casi è quello dello Stato particolare, almeno che non si tratti di materie
regolare dalla Costituzione federale o dal Congresso. Che il diritto di quello Stato sia formulato dal suo
organo legislativo o dalla sua Corte suprema non è argomento che interessa le autorità federali. Anche
perché, seconda il giudice Brandeis, redattore della sentenza, “There is no federal general common law”.
Il giudice federale può comunque discostarsi da quella che è la common law dei colleghi di quello Stato
particolare, qualora ritenga inesatto quell’orientamento, ma non lo deve fare a priori, ossia senza prendere
in considerazione i “precedenti” giurisprudenziali locali.
Fattori di semplificazione e uniformazione del diritto americano
Secondo la sentenza Eire Railroad Co. v. Tomkins, dunque, non esiste una common law federal, ma solo
quella dei singoli Stati, cui si aggiungono la Costituzione, le leggi del Congresso laddove ciò sia permesso e
le leggi dei singoli Stati. 97
Questo non significa che negli Usa non vi siano, a sanare questa frammentarietà, degli elementi
“unificanti” del diritto, che rendono tra l’altro il sistema statunitense distinguibile da quello inglese. Primo
fattore discretivo è sicuramente la Costituzione, assente in Inghilterra, di cui abbiamo già
abbondantemente parlato. Tra gli altri ritroviamo la presenza delle law schools e l’importanza della
dottrina e della propria capacità creativa.
Le law schools e la dottrina
Abbiamo già potuto osservare come le università e la dottrina inglesi abbiano un ruolo secondario rispetto
al giudice all’interno di quel determinato ordinamento (basti pensare alla formazione dei giuristi nelle Inns
of Court). Negli USA, al contrario, l’educazione giuridica è sempre stata accademica: nelle università di tutti
gli Stati, oltre al diritto di quella specifica zona, vengono insegnati i principi “comuni” del diritto. Le law
schools sono, dunque, fondamentali ed hanno un ruolo molto considerevole, specie in rapporto alle
università inglesi: i giudici, molto spesso, sono scelti tra i docenti con maggiore preparazione. Il fatto che
non esista una federal common law, quindi, non comporta l’esclusione di una tradizione comune a tutti gli
Stati.
Langdell e il case method
A fare la storia del mondo universitario statunitense è Cristopher Columbus Langdell, preside alla Harward
Law School dal 1870, il quale cambia totalmente l’approccio allo studio del diritto: i corsi passano da
annuali a triennali, vengono introdotti gli esami, il corpo accademico viene completamente rinnovato e
viene, soprattutto, introdotto il “case method”, un nuovo metodo di insegnamento basato non più
sull’analisi delle procedure giudiziarie e degli elementi tecnici del processo, bensì sui casi della
giurisprudenza, da cui sono ricavabili i principi del diritto, i quali vengono raccolti nel “casebook”, il
manuale di riferimento. L’approccio dello studente, quindi, è critico e coerente: egli deve comprendere il
“perché” delle decisioni adottate, tramite l’insegnamento di un nuovo ceto di giuristi emergenti, i
professori, in sostituzione dei vecchi avvocati/giudici che riempivano le università con i propri formalismi e
tecnicismi.
Il metodo di insegnamento si dimostra così tanto rivoluzionario da attirare studenti da tutti gli Stati,
accrescendo l’importanza del diritto giurisprudenziale e l’idea che esistano principi comuni condivisi
dall’intera federazione. Langdell è artefice anche del formalismo giuridico, in base al quale le teorie della
common law, anche quando in contrapposizione tra loro, possono essere razionalizzate giustificandone le
differenze: la dottrina del precedente è sottoposta ad un notevole irrigidimento.
Il superamento del formalismo giuridico
In risposta al formalismo giuridico langdelliano nase, nei primi anni del Novecento, la Scuola sociologica di
Roscoe Pound, secondo la quale, sebbene il precedente rivesta un ruolo chiave nell’ordinamento, è
necessario dare maggiore attenzione alla potenzialità creativa del giudice, il quale suggerisce nuovi sviluppi
del diritto basandosi sulle esigenze concrete della società in cui vive. Continuità ed innovazione giuridica,
dunque, devono essere entrambe garantite non solo dai giudici, ma anche dai professori, chiamati ad
essere sociologi, economisti e scienziati della politica.
A rafforzare il pensiero della Scuola sociologica interviene, verso gli anni ‘20/’30 del XX secolo, il Realismo
giuridico, contrapposto al formalismo langdelliano: se Langdell invita alla scoperta della regola giuridica da
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applicarsi al caso concreto, il Realismo auspica un’analisi ravvicinata del processo decisionale. Il diritto,
quindi, appare come un mezzo per la realizzazione degli scopi sociali e non può scaturire, secondo il
pensiero di Llewellyn e Frank, dalle “paper rules” e dai manuali, in quanto deve discendere dal
comportamento dei tribunali, dall’osservazione di ciò che essi decidono.
All’irrigidimento della regola del precedente del formalismo giuridico segue, dunque, la manipolazione del
precedente da parte del Realismo: la soluzione del caso concreto deve essere adeguata al contesto sociale
ed economico. Vengono criticate alcune caratteristiche proprie del formalismo: le sentenze delle corti
superiori non possono essere l’unico oggetto di studio, così come la “biblioteca” non è più l’unico
laboratorio del giurista; il case book non è più sufficiente, occorre analizzare “cases and materials”. Alle
questioni sociali del Realismo giuridico risponde, ben presto, la teoria del “legal process”, in forza della
quale è necessario privilegiare soluzioni neutre ed apolitiche indipendenti dalla personalità dei singoli
giudici, affidando il potere decisionale ad istituzioni capaci di gestirlo.
Le teorie postmoderne
Il Realismo giuridico da luogo, in poco tempo, ad analisi della vita giuridica e della norma di diverso tipo.
Nascono, dunque, diverse scuole di pensiero: la Economic analysis of law, secondo per valutare e spiegare
le regole giuridiche occorre utilizzare il criterio dell’efficienza oltre che quello della giustizia; i Critical legal
studies, secondo cui il diritto è un discorso ideologico regolato dalla relazioni di potere e non esiste alcuna
differenza tra il ragionamento giuridico e quello politici; la teoria giuridica femminista e la teoria della
differenza razziale, in forza delle quali il “genere” o la “razza” sono i concetti chiave del diritto.
Le law schools e la professione legale
Le law schools, oltre ad affermare un proprio pensiero giuridico, restano il luogo in cui avviene la
formazione utile per l’esercizio della professione legale che possiede, negli USA differentemente
dall’Inghilterra, carattere unitario (nessuna distinzione tra solicitors e barristers).
Per ottenere la qualifica di lawyer (avvocato) occorre un diploma conseguito presso una law school
riconosciuto dall’American Bar Association (fondata nel 1878) e per l’ammissione in queste “scuole del
diritto” occorre aver superato il Law School Admission Test. Inoltre, per ottenere il patrocinio presso le
corti, occorre il titolo formale di “attorney at law”, per cui è necessario superare il “bar exam” statale, che
verte su principi generali del diritto americano (e non di quel singolo Stato).
Peculiarità del sistema americano è la presenza degli “studi associati”, in cui operano centinaia di avvocati,
benché esistano ancora avvocati che esercitano individualmente.
Il Restatement e l’idea di codificazione
Come fattore unitario del diritto americano, oltre alla presenza delle Law Schools, possiamo prendere in
considerazione il cosiddetto “Restatement” (alla lettera significa riaffermazione”, un originale ed
importante prodotto della dottrina, il cui fine è quello di ordinare, e talune volte di selezionare, la
giurisprudenza frammentata e complessa su determinate materie. L’American Bar Association, nel 1923,
istituisce l’American Law Institute, composta da giudici, avvocati e professori, con il compito di attuare una
semplificazione del diritto, immerso in talune materie nella confusione dettata da diversi “precedenti”.
Tutti i campo del diritto (contratti, trust, successioni, diritto di famiglia ecc.) vengono rielaborati nei
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