Riassunto esame Diritto Penale, prof. Trapani, libro consigliato Diritto Penale, Gallo - seconda parte
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questa ispirazione venne tradotta nel diritto positivo?
Leggiamo gli artt. 40 e 41 c.p., dedicati alla disciplina del rapporto di causalità.
Art. 40. Rapporto di causalità. — Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se
l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od
omissione.
Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.
Art. 41. Concorso di cause. — Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se
indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra la azione od
omissione e l’evento.
Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare
l’evento. In tal caso, se l’azione od omissione precedentemente commessa costituisce per sé un reato, si
applica la pena per questo stabilita.
Le disposizioni precedenti si applicano anche quando la causa preesistente o simultanea o sopravvenuta
consiste nel fatto illecito altrui.
A questo dettato normativo, i sostenitori delle diverse scuole reagiscono in modo diverso.
Da un lato, i sostenitori del criterio dell'adeguatezza sostengono che il termine “conseguenza”, che compare nel
comma I dell'art. 40, indica che l'effetto deve discendere non solo dalla condotta mera conditio sine qua non, ma che
deve esserci una condizione qualificata proprio dall'adeguatezza.
Tuttavia ciò non trova conferma nei lavori preparatori dei redattori del codice, i quali espressamente consideravano che
cpv dell'art 41 non costituisse un'eccezione rispetto al criterio della conditio. Ma, per Gallo, gli stessi redattori del
codice erano confusi: tantopiù che l'interpretazione letterale porterebbe all'abrogazione del cpv dell'art. 41 come inutile
e contraddittorio. Infatti il ricorso all'indicativo “quando sono state” in luogo del condizionale “sarebbero state”
insieme alla locuzione “da sole” sembrano richiedere espressamente la sufficienza delle cause sopravvenute in ordine
alla produzione dell'evento, escludendo così il nesso di causalità fra condotta ed evento. Ed a conferma di detta
conditio –
contraddittorietà, sta anche il fatto che – se davvero il legislatore si fosse voluto attenere al criterio della
avrebbe fatto riferimento anche alle cause preesistenti e simultanee, e non solo a quelle
sopravvenute.
Per Gallo, quindi, la ragione dell'art. 41 è un'altra: ed è quella che risiede proprio nel pericolo di un ricorso esclusivo
al criterio della conditio. Quando il legislatore parla di “cause sopravvenute che sono state da sole sufficienti a
determinare l'evento” parla, infatti, di quelle condizioni sopravvenute che si presentano con tali caratteristiche di
eccezionalità ed imprevedibilità da sconsigliare in concreto l'imputazione dell'evento alla condotta umana.
Per taluni ciò confermerebbe la validità del criterio della causalità adeguata: l'intervento di fattori incalcolabili
dimostrerebbe l'inadeguatezza della condotta umana rispetto all'evento. Per altri sostenitori di questo criterio, il cpv
dell'art. 41 introdurrebbe, invece, la nota della proporzione tra condotta ed evento.
Invece, per i sostenitori de criterio della causalità umana, tale cpv farebbe in modo che il nesso di causalità venga
interrotto ogniqualvolta ricorra un fattore eccezionale.
Quale fra le due anzidette posizioni è da preferire? Gallo è per la terza via: bisogna utilizzare la lettura piu piana, quella
per la quale l'intervento di un fattore eccezionale sopravvenuto fa perdere rilevanza al nesso di causalità. Il
rapporto di adeguatezza deve inoltre essere considerato in concreto, non in astratto. Ciò pena l'impossibilità di imputare
la condotta all'evento in relazione a situazioni del tipo assassinio di Tizio – già condannato alla pena di morte – da parte
di Caio. Ragionare in termini astratti, infatti, porterebbe all'esclusione del nesso di causalità in questa situazione.
Ciò che conta è, dunque, se in concreto l'evento storico presenti caratteristiche e modalità dovute al fattore eccezionale.
Ultima domanda: l'efficacia di esclusione del rapporto di causalità può riconoscersi, oltre che al fattore eccezionale
sopravvenuto, anche al fattore eccezionale preesistente o simultaneo alla condotta del soggetto agente? La logica
della causalità umana e quella della causalità adeguata indurrebbero ad una risposta affermativa; ma la lettera dell'art.
41 menziona esclusivamente le “cause sopravvenute”. Non siamo, per Gallo, di fronte ad un vuoto normativo: è
proprio il legislatore che, espressamente, ha voluto circoscrivere l'efficacia interruttiva del rapporto causale ai soli
fattori sopravvenuti.
In conclusione, c'è da dire che il nostro ordinamento non accoglie né la teoria della causalità umana, né quella della
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causalità adeguata.
La regola dell'art. 41 va infatti letta come puro e semplice limite alla condizionalità sine qua non. Infatti, attribuire
efficacia di esclusione del nesso casuale solo a quei fattori successivi alla condotta sui quali è più sicuro il giudizio di
non conoscenza, equivale ad affermare il principio della conditio, temperandolo con un correttivo.
Il rapporto causale, tra condotta omissiva ed evento
Gli artt. 40 e 41 riguardano tanto la condotta commissiva che quella omissiva. Il problema del nesso di causalità
condotta-evento si pone per i reati di omissione impropria, detti anche reati commissivi mediante omissione.
Tali reati possono presentarsi secondo due schemi fondamentali:
1. Fattispecie nelle quali è espressamente contemplata una condotta di omissione impropria: esempi di
questo tipo sono gli artt. 57 e 437 c.p.: “il direttore [...] il quale omette di esercitare sul contenuto del
periodico da lui diretto il controllo necessario [...]”. In questi casi, dunque, è la stessa norma incriminatrice
che prescrive di tenere un certo comportamento.
2. Fattispecie art. 40 II comma c.p.: esso prescrive che “non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di
impedire equivale a cagionarlo”. Esso va posto in relazione con le altre disposizioni di legge: a.e. l'art. 575
c.p. (omicidio). In questi casi, il mancato adempimento equivale a causazione. Ed è questa una regola che si
innesta su ogni norma incriminatrice.
In entrambe le forme in cui il reato commesso mediante omissione può presentarsi, si è sempre di fronte alla stessa
struttura si coportamento, consistente nella trasgressione di un obbligo a contenuto positivo; un “obbligo di fare”, in
altri termini.
Dobbiamo ora interrogarci sul rapporto di causalità tra condotta omissiva ed evento. Anche se il contenuto delle due
forme di reato poco prima individuate è lo stesso, le tecniche di accertamento saranno diverse. Nella prima va
individuata nei fattori positivi sufficienti alla produzione dell'evento; nella seconda l'accertamento va effettuato in
ordine alla capacità di impedire l'evento che avrebbe avuto l'azione prescritta e non realizzata qualora fosse stata
effettivamente posta in essere.
L'operazione in questione si svolge secondo le fasi seguenti:
A) Verifica dei fattori positivi che hanno condotto all'evento
Da qui l'indagine prende l'avvio.
B) Individuazione dell'obbligo giuridico che imponeva di attivarsi
La ricerca assume importanza particolare ogniqualvolta si deve ricorrere all'art 40, II comma; perplessità non corrono,
invece, quando era la stessa norma incriminatrice a prescrivere l'obbligo di condotta nella fattispecie astratta.
In questo caso, occorre accertare se l'azione prescritta avrebbe impedito l'evento, ove qualora fosse stata
effettivamente posta in essere. Tale obbligo, ad esempio, nel caso in cui l'evento segua al compimento di attività
pericolose, ha fondamento normativo nell'art. 2050 c.c.: regola che prescrive il dovere di adottare le norme
precauzionali atte ad evitare il danno.
Il collegamento causale, infatti, non è fra l'attività compiuta ed il danno provocato, ma tra l'omissione degli
adempimenti dovuti ed il danno. L'obbligo giuridico, infatti, non può trovare esclusivo fondamento in un semplice
fatto.
C) Indagine sull'idoneità del comportamento ad impedire il verificarsi dell'evento
Nel caso in cui l'effettivo adempimento dell'obbligo giuridico non avrebbe potuto avere alcuna efficacia impeditiva – ad
esepio per le modalità concrete di svoglimento dell'evento – il nesso causale deve essere escluso. Non può essere
infatti imputato all'agente un evento che si sarebbe comunque verificato indipendentemente dall'adempimento.
Limiti dei criteri logico naturalistico e della conditio sine qua non
Abbiamo finora considerato utilizzabile ai nostri scopi il criterio della conditio sine qua non, per il quale un
antecedente è condizionante solo se – qualora venga eliminato – anche il risultato viene meno. Alcuni, tuttavia, hanno
dubitato della validità euristica di questo criterio.
Per Gallo critiche possono essere mosse, ma – qualora vengano apportati gli opportuni correttivi – il criterio non viene
invalidato. Ma bisogna sempre applicarlo al caso concreto: non conta il risultato di genere, quanto il risultato specifico;
già così l'area della problematicità viene a ridursi di molto. 14
Ma passiamo all'analisi delle osservazioni che vengono sollevate circa la validità del criterio della conditio. Alcuni
fanno l'esempio della c.d. causalità cumulativa o additiva: in questi casi il criterio non potrebbe operare. Poniamo
l'esempio: Tizio e Caio somministrano contemporaneamente due dosi di veleno a Sempronio, ognuna delle quali letale,
nel suo bicchiere. Questo all'insaputa, l'uno dell'altro.
Qui, né Tizio né Caio nella loro condotta possono essere la conditio: la condotta di Tizio, a.e., non appare necessaria al
verificarsi dell'evento, che si sarebbe realizzato comunque, per effetto della condotta di Caio. Ma questo soltanto sotto il
profilo di un'indagine pedissequa e letterale: per Gallo il correttivo che può essere qui apportato è quello di considerare
causa ogni condizione senza la quale il risultato non si sarebbe avverato astraendo – vale a dire non considerando –
il concorso di altra condizione con la stessa efficienza causale. Tali “correttivi” potranno essere utilizzati non solo
quando le condizioni concorrenti sono costituite da condotte umane, ma anche quando alla produzione dello stesso
evento concorrano forze naturali. C'è comunque da dire che – se quella della causalità cumulativa è una ipotesi
perfettamente configurabile nel mondo del pensiero e dell'astrazione giuridica, è anche vero che, nel mondo reale,
dimostrare che le cose sarebbero ugualmente accadute anche se uno degli antecedenti fosse mancato si riduce in una
probatio diabolica. Insomma, quella della causalità cumulativa si rivela un'ipotesi, più che una realtà.
Opposta alla causalità cumulativa si presenta la c.d. causalità alternativa: di due o più condotte una – senza ombra di
dubbio – ha rappresentato la conditio del risultato; ma quale fra di esse non lo si può dire. Si impone, in questo caso, ex
art. 530 c.p.p., l'assoluzione: la contraddittorietà delle prove, infatti, è equiparata alla loro insufficienza ed
inconsistenza.
A quali difficoltà va, invece, incontro il criterio logico naturalistico? Esso presuppone soltanto la consapevolezza che
due termini si pongano lungo una progressione inevitabile; non la cognizione del perché un dato fenomeno si produca.
In questa progressione, può inserirsi una modificazione del mondo esterno e dare luogo in questa progressione a
sequenze, che possono o rendere il risultato estraneo dal tipo di condotta posta in essere. E non sono casi rari: basti
pensare all'insorgere di malattie in un soggetto che lavori in un determinato ambiente, quando una identica patologia si
rinvenga anche in un'altra persona, che in quell'ambiente invece non ci ha mai passato neanche un'ora.
Deve, in questo caso, farsi un discorso a ritroso: non si parte più dall'antecedente, dalla fattispecie che conduce ad un
reato; ma il contrario: dal risultato (la malattia) per risalire alla fattispecie della norma incriminatrice. Questo non toglie,
anzi accentua, il rischio che quell'evento (la malattia, nel nostro caso), può anche discendere da antecedenti diversi da
quello che interessa il giudizio penale (a.e., il mancato rispetto della normativa sull'esposizione dei lavoratori di
un'impresa alle sostanze chimiche). Qui all'interprete – il giudice – si richiede di formulate un giudizio basato sulle
probabilità. Non vi è certezza, se non quella di trovarci ad una situazione che permette di considerare la costanza
equivalente alla frequenza: a.e., quando l'evento A per il 90% dei casi discende dalla condotta B.
E – conclude Gallo filosoficamente – questa non è altro che la causalità (opinione alla quale anche molti filosofi sono
arrivati, a.e. Hume): il fatto insomma che ad un evento A segua da milioni di anni un evento B non può darci la certezza
assoluta che ad A segua sempre B e nulla ci impedisce di pensare che un giorno le cose andranno diversamente e, per
esempio, a B segua A.
Di “leggi universali” non si può infatti parlare: Hume scriveva che l'ipotesi di un principio di unifomità della natura –
che si incarichi di tenere sempre ferme le leggi della causalità – è del tutto indimostrabile. E Gallo riprende tale filone di
pensiero, scrivendo che “le stesse leggi cosiddette universali non garantiscono per il futuro: soltanto danno conto di
una costante ripetizione nel passato”.
Riassunto sulla causalità alla luce delle spiegazioni e del testo
Come si può ricollegare una condotta ad un evento, di modo da accertare se tale condotta è o no rilevante per il diritto?
Ad esempio, se “chiunque cagiona la morte di un uomo è punito...”, come faremo ad accertare che una condotta è stata
causa d'un evento?
Tale materia è affidata allo studio delle teorie che si occupano del nesso di causalità. Varie ne sono state proposte, ma
tutte in qualche modo hanno, da sole, dei difetti, ovvero paiono inadeguate.
Fra le tante, il nostro codice accoglie la teoria che ha ritenuto più valida: quella della conditio sine qua non. Teoria la
quale, parlando del rapporto causa-effetto, sostiene che sia impossibile isolare la condotta individuando in sé la
causa di un certo evento. La condotta non potrà essere altro che una fra le tante condizioni. Nell'omicidio, l'azione di
premere il grilletto concorrerà, a.e., insieme alla reazione chimica dello zolfo con la polvere da sparo, al calibro del
proiettile, alla particolare posizione sulla traiettoria del cuore della vittima. Astrattamente, ipotizzando che anche una
sola di queste condizioni venga meno, l'evento – secondo le leggi scientifiche – non si sarebbe più verificato.
Unico strumento che rimane al penalista è quello di verificare se la condotta è condizione necessaria dell'evento. La
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verifica può avvenire in un modo solo: attraverso il giudizio controfattuale. La condotta sarà condizione dell'evento, e
così rilevante per il diritto qualora, astraendola da tutte le altre, l'evento sarebbe venuto meno, in altri termini non si
sarebbe verificato.
La verifica va effettuata dal giudice, che è consumatore di leggi scientifiche. Ma quali leggi possono essere prese in
considerazione? La dottrina ne considera di due sorte:
● Leggi universali: ci danno garanzia che ad una causa segua sempre un certo effetto;
● Leggi statistiche: ammettono delle eccezioni.
L'esistenza stessa delle leggi universali è stata criticata, da pensatori del calibro di Hume e Kant: non c'è garanzia che il
sole sorga di nuovo domani mattina. La maggior parte delle leggi scientifiche sono statistiche, non universali. Ed il
giudice, anche secondo la Cassazione, può utilizzarle.
Ma uno dei problemi della teoria della condicio risiede nel fatto che essa, qualora applicata in modo rigidoporterebbe a
delle situazioni di paradosso. Ad esempio che Tizio sarebbe responsabile della morte di Caio per la condotta di avergli
indicato una strada nella quale in seguito per un incidente per una buca sul manto stradale formatasi sul momento ha
trovato la morte. Ergo, per Gallo non va dimenticato il fatto che il reato è costituito anche da elementi soggettivi. Dovrà
quindi essere presente nella condotta dell'agente almeno un mimimum di requisito soggettivo.
Il problema rilevante si ha, invece, quando la condotta umana è sì sorretta dall'elemento soggettivo ed è anche conditio
sine qua non dell'agente, ma concorrono a determinare l'evento cause ulteriori che sconsigliano, in concreto, di
procedere all'incriminazione per un determinato tipo di reato. A.e., Tizio spara a Caio, che riporta una lieve ferita ed è
costretto al ricovero in ospedale. Successivamente, lo stesso Caio muore per un terremoto che coinvolge la struttura
ospedaliera. Tizio sarà responsabile di omicidio? Sì, qualora applicassimo pedissequamente la teoria della condicio. No,
invece, qualora applicassimo uno fra i correttivi che sono stati proposti:
● Causalità adeguata: tra evento e condotta il nesso di causalità risulta soltanto se la condotta è adeguata e
proporionata rispetto all'evento.
● Causalità umana (Antolisei): dagli altri viventi, l'uomo si distingue per essere dotato di razionalità, coscienza
e volontà. Con esse egli è in grado di prevedere le conseguenze del proprio agire, ed orientare le sfere della
natura a proprio piacimento. Quando questa sfera di signoria è esclusa per l'intervento di fattori eccezionali,
imprevedibili ed indomabili.
Quale fra le due teorie è accolta dal nostro codice? Nessuna. Esso accoglie in tutto e per tutto il criterio della condicio,
e quale correttivo introduce l'art. 41, secondo il quale il rapporto di causalità è escluso qualora si verifichi l'intervento
di cause sopravvenute che sarebbero state da sole sufficienti a determinare l'evento.
Per i reati di omissione, nulla cambia rispetto al discorso fatto poco su.
SEZIONE II – ELEMENTI POSITIVI DELLA FATTISPECIE CRIMINOSA
Fatto e fattispecie: gli elementi normativi del fatto
In alcune fattispecie figurano i c.d. elementi normativi. Essi si differenziano dagli elementi positivi del fatto perché il
criterio di imputazione soggettiva non coincide con il dolo o la colpa. In essi, invece, il criterio di imputazione è dato
dalla pura e semplice rappresentabilità, che è il limite oltre il quale non può parlarsi di responsabilità penale personale.
Qual'è la struttura di detti elementi normativi? Essi sono caratterizzati da un substrato di fatto al quale si applica una
qualifica discendente da una norma diversa da quella incriminatrice. Norma che può appartenere quanto
all'ordinamento penale, quanto all'ordinamento civilistico o di altri settori del diritto pubblico. In altri termini, elemento
normativo esiste ogniqualvolta nella determinazione di una figura criminosa si debba passare per il tramite di una
norma diversa dalla incriminatrice.
Facciamo degli esempi: affinché ci sia furto, la cosa deve essere altrui. E l'altruità della cosa si ricava dalle norme del
diritto privato concernenti la proprietà. E così accade ogniqualvolta il legislatore si riferisce ad un comportamento
ingiusto, ad una cosa mobile altrui, ad una condotta illegittima.
Cosa succede, invece, quando il legislatore si esprime con espressioni che appaiono idonee ad essere intese come
richiamo a norme di carattere non solo giuridico, ma anche etico e sociale? In linea generale ciò è ammissibile.
Non bisogna, tuttavia, confondere questi casi con i c.d. concetti aperti, quale è quello del 528 c.p. riguardo il “comune
sentimento” in rapporto all'offesa del pudore. In questi casi, infatti, bisognerà utilizzare realtà extra normative di natura
etica e sociale. 16
Elementi positivi costruiti negativamente
Finora ci siamo occupati degli elementi del fatto come elementi che debbono realizzarsi in forma positiva, affinché il
fatto stesso corrisponda alla fattispecie criminosa.
Talora può infatti accadere che un elemento del fatto sia costruito negativamente. In altri termini, si esige che un certo
dato non sia posto in essere. Si vedano gli esempi dell'ingresso abusivo nel fondo altrui, punito solo se effettuato senza
necessità (637 c.p.), oppure quello della violazione di corrispondenza, la cui rivelazione è fatto di reato solo se
compiuta senza giusta causa (616 II comma c.p.).
Emerge qui chiara una differenza fra:
● Elementi positivi costruiti negativamente: quelli appena elencati, dove quale elemento del reato non rileva la
giusta causa, ma la sua assenza.
● Elementi negativi, cioè le c.d. scriminanti, dove la giusta causa rileva quale causa di esclusione della pena.
Perché il legislatore ha delineato queste due figure? Perché la scelta fra l'una e l'altra implica una scelta di fondo sulla
tecnica di accertamento.
Nel caso degli elementi positivi costruiti negativamente il giudice dovrà enunciare in modo specifico le ragioni per le
quali ritiene realizzato il requisito: in altri termini, dovrà spiegare perché non ritiene presente una situazione che è
l'inverso dell'elemento tipico, così come accade per gli elementi positivi. Insomma, la tecnica di accertamento degli
elementi positivi costruiti negativamente è la stessa dei normali elementi positivi. Solo così potrà essere assolto
l'obbligo di motivazione: con la prova della effettiva rappresentazione degli elementi positivi a contenuto negativo.
Invece, nel caso degli elementi negativi – cioè delle scriminanti – il giudice non è tenuto a provare la mancanza di
ogni singola situazione scriminante. Fare il contrario significherebbe, infatti, probatio diabolica.
I reati aggravati dall'evento
Gli elementi oggettivi danno vita al fatto di reato. Vi sono, tuttavia, fattispecie nelle quali figurano eventi imputati alla
stregua di un criterio di rappresentanza o rappresentabilità ed evitabilità, criterio diverso da quello che presiede
agli elementi del fatto – dolo o colpa.
Prima dell'entrata in vigore della Costituzione, il riferimento in questi reati – definiti aggravati dall'evento - era ad
ipotesi di responsabilità oggettiva. Ma l'art. 27 Cost ha ora innovato la materia, introducendo la natura personale della
responsabilità: personalità il cui ultimo limite è costituito proprio dalla rappresentabilità.
Ma qual'è la qualificazione giuridica del reato aggravato dall'evento? Perché in certe fattispecie si deve ritenere
presente un reato aggravato dall'evento e non un reato circostanziato?
Perché, secondo Gallo, con il reato aggravato dall'evento il legislatore vuole arrivare alla trattazione di una figura
astrattamente autonoma. Al punto che il termine di prescrizione, in tali reati, decorrerà non dal momento della
realizzazione del fatto-base (come invece avviene per i reati circostanziati), ma da quello della realizzazione dell'evento
aggravatore.
Le condizioni oggettive di punibilità
Esse sono previste dall'art. 44 c.p.:
Art. 44. Condizione obiettiva di punibilità. — Quando, per la punibilità del reato, la legge richiede il
verificarsi di una condizione, il colpevole risponde del reato, anche se l’evento, da cui dipende il verificarsi
della condizione, non è da lui voluto.
È una condicio iuris, che trova la sua fonte nella volontà normativa: si tratta di un avvenimento futuro ed incerto dal
quale la legge fa dipendere la punibilità del reato, indipendentemente dalla volontà del soggetto agente.
Facciamo un esempio: la condizione di punibilità dell'incesto è il pubblico scandalo (564 c.p.); nella bancarotta
fraudolenta la punibilità è subordinata alla sentenza di dichiarazione di fallimento di chi quei comportamenti
fraudolenti ha posto in essere.
Qual'è il senso di queste condizioni? Una spiegazione può essere data ricorrendo al dato storico: l'ancient regime era
caratterizzato dalla discrezionalità dell'azione penale. L'illuminismo giuridico porterò al dogma della obbligatorietà. Le
considerazioni di opportunità prima ricomprese nella discrezionalità dell'azione, sono con le condizioni obbiettive
tramutate in formule generali ed astratte.
Si tratta, infatti, di fatti giuridici completamente estranei dall'offesa dell'interesse tutelato, oppure il cui verificarsi
rende irreversibile la lesione degli interessi offesi dalla precedente condotta.
Punire gli atti di bancarotta fraudolenta prima che sia arrivata la sentenza di fallimento, infatti, potrebbe provocare più
inconvenienti che vantaggi. L'imprenditore potrebbe infatti ancora riuscire ad essere solvente; ed ecco qui che si ravvisa
una considerazione d'opportunità, pure se nella formula generale ed astratta della legge. 17
Dopo varie disamine, Gallo arriva a scrivere che l'unico criterio per capire se siamo di fronte ad una condizione
obbiettiva di punibilità è il criterio storico naturalistico: vi è condizione obiettiva quando l'evento condizionante sia
estraneo all'offesa contenuta nel reato, oppure un suo momento di consolidamento.
In ciò esse si differenziano dagli eventi aggravatori (tipo la condanna nella calunnia): questi ultimi ineriscono ad un
fatto per il quale le condizioni di punibilità si sono già verificate, mentre la condizione oggettiva inerisce ad un fatto di
per sé non produttivo di conseguenze sanzionatorie.
Cosa c'è da dire riguardo i criteri di imputazione delle condizioni obbiettive (o oggettive, che dir si voglia)? Nel
regime ante-Costituzione il criterio era quello di responsabilità oggettiva; nel regime post-Costituzione, in virtù del
principio della personalità della responsabilità penale ex art. 37, esse devono essere sorrette da un coefficiente minimo
di rappresentabilità.
Ci si domanda quale sia la natura delle condizioni oggettive di punibilità: se elementi costitutivi del reato, oppure
elementi esterni ad esso. Il dibattito interessa molto la dottrina; Gallo però squarcia il velo di Maia, e sostiene che sia
un problema poco rilevante: quale che sia la loro natura, le conseguenze sia che si parli di elementi esterni che di
elementi costitutivi sono le stesse. Ed, in particolare:
● L'attivazione del procedimento non si verifica se non quando la condizione obbiettiva si sia realizzata;
● L'art 158 fa decorrere la prescrizione dal momento del verificarsi della condizione obbiettiva per i reati
sottoposti a tale condizione di punibilità.
Condizioni obbiettive di punibilità e condizioni di procedibilità
La maggior parte dei reati sono perseguiti d'ufficio; per altri la procedibilità è subordinata alla realizzazione di
condizioni da parte di soggetti qualificati. Il procedimento è dunque subordinato alla realizzabilità di tali condizioni.
Si tratta di atti giuridici quali:
● Querela, nei reati procedibili a querela di parte;
● Richiesta del Ministro competente, come negli artt. 8, 9, 10
● Istanza
Poniamo un attimo attenzione sulla differenza querela/denuncia: la prima è una condizione di procedibilità, la seconda
solo una manifestazione di scienza atta ad informare l'autorità competente, che può mettere in moto il procedimento
anche a prescindere da essa.
Se c'è difetto di una condizione di procedibilità, l'art. 345 cpp dispone che l'azione è riproponibile, qualora quel vizio
venga risolto.
Le condizioni di procedibilità si differenziano dal quelle di punibilità perché sono sempre atti giuridici, consistenti in
dichiarazioni di volontà. Non cosi è per le condizioni di punibilità, che consistono in meri fatti giuridici (come per il
pubblico scandalo). Unica eccezione è la dichiarazione di fallimento per i reati di bancarotta fraudolenta, dove però la
sentenza – un atto giuridico – che però non è sorretta dalla precipua coscienza e volontà diretta allo scopo di instaurare
un processo penale. La sentenza in questione si presenta, insomma, come un atto giuridico seplice, che non rileva quale
dichiarazione di volontà ma quale mero accadimento storico.
Un'altra eccezione stavolta riguardante le condizioni di procedibilità è la presenza del reo nel territorio dello Stato
per gli artt. 9 e 10 c.p. Esso è un fatto giuridico (in deroga alla regola generale che vuole che la condizione di
procedibilità sia un atto), che si spiega con valutazioni di opportunità dell'ordinamento.
SEZIONE III – IL REQUISITO DELLA TIPICITÀ
Attengano al fatto o alla fattispecie criminosa, gli elementi finora considerati debbono rispondere al requisito della
capacità. In cosa consiste il giudizio di tipicità? Vediamolo:
● Nei reati a forma vincolata: il giudizio di tipicità consiste in un mero giudizio di conformità del fatto alle
note interne della norma.
● Nei reati a forma libera: qui il giudizio di tipicità deve fondarsi sul collegamento eziologico con l'evento. V'è
reato a forma libera quando il legislatore usa formule del tipo “chiunque cagiona” (come nell'omicidio) o “con
atti idonei”, ecc.
● Nei delitti causalmente orientati la tipicità della condotta si fonda sulla direzione non equivoca del 18
comportamento realizzato. Non è necessaria la nota della idoneità; necessario è solo il collegamento evento-
condotta.
CAPITOLO III – LE SCRIMINANTI
Cause di giustificazione della struttura del fatto
L'art. 530 cpp, nel suo II comma, introduce per la prima volta nel lessico legislativo la locuzione “cause di
giustificazione”.
Art. 530. Sentenza di assoluzione. — [...]
3. Se vi è la prova che il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione o di una causa
personale di non punibilità ovvero vi è dubbio sull’esistenza delle stesse, il giudice pronuncia sentenza di
assoluzione a norma del comma 1. [...]
Nel codice penale si perviene alla categoria delle cause di giustificazione tramite l'art. 119:
Art. 119. Valutazione delle circostanze di esclusione della pena. — Le circostanze soggettive le quali
escludono la pena per taluno di coloro che sono concorsi nel reato hanno effetto soltanto riguardo alla
persona a cui si riferiscono.
Le circostanze oggettive che escludono la pena hanno effetto per tutti coloro che sono concorsi nel reato.
Occorre ora riflettere sulla natura delle scriminanti, partendo dalla considerazione che, quale essa sia, esse hanno
sempre l'effetto di escludere il reato: in altri termini, sono quelle situazioni di fatto che escludono la rilevanza penale
di un comportamento che, altrimenti, costituirebbe reato.
Varie sono state le teorie avanzate; sintetizziamole:
● Cause di giustificazione quali cause estintive della punibilità. Il fatto realizzato in presenza di cause di
giustificazione nascerebbe come fatto di reato, salvo che la presenza delle scriminanti fa venire meno la
punibilità.
Per Gallo la teoria non può essere accolta: la punibilità, in questi fatti di reato, non è mai sorta.
● Il fatto con scriminanti nascerebbe ab origine penalmente lecito. Per Gallo la teoria non può essere accolta:
tale ordine di idee presuppone la possibilità di individuare sul piano naturalistico la scriminante come fatto
giuridico autonomo dalla fattispecie. Il più delle volte, però, manca un accadimento che sia fatto giuridico
autonomo che possa essere qualificato quale scriminante (come nel caso dell'esercizio del diritto).
● C.d.g. quali fatti impeditivi della punibilità: vale il discorso fatto poco sopra; anche questo ordine di idee
presuppone che la scriminante sia una fattispecie esterna a quella di reato.
Visto perché queste diverse teorie non possono essere accolte, Gallo opta per la teoria che secondo lui spiega meglio la
natura delle scriminanti: quella che le identifica in ELEMENTI NEGATIVI DEL FATTO, quali modalità del fatto
realizzato.
C.d.g comuni: il consenso dell'avente diritto
Il c.p. enuncia negli articoli dal 50 al 54 le cause di giustificazione c.d. comuni, vale dire quelle che tendenzialmente
trovano applicazione in un numero indefinito dii reati e che hanno come fondamento
● l'esercizio di una facoltà legittima;
● l'adempimento di un dovere;
● una situazione di necessità
quando il pericolo può essere evitato soltanto tramite il ricorso alla condotta che, altrimenti, sarebbe punibile. Alle cause
comuni si contrappongono le c.d. cause di giustificazione speciali, le quali invece trovano applicazione solo in ipotesi
criminose specificatamente individuate.
Cominciamo dalla prima, enunciata nell'art. 50: quella del consenso dell'avente diritto:
Art. 50 – Consenso dell'avente diritto: Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto col consenso della
persona che può validamente disporne.
Per Gallo tale causa di giustificazione non è altro che una delle tante ipotesi di esercizio di un diritto, esercizio che
consiste nella autorizzazione della persona che sarebbe stata in grado essa stessa di porre in essere quella
condotta senza incorrere nella fattispecie penale. 19
Affinché ci sia autorizzazione, deve esserci disponibilità del diritto. In altri termini, deve trattarsi di un DIRITTO
DISPONIBILE. Sorge spontanea, a questo punto, un'altra domanda: quand'è che c'è disponibilità di un diritto?
Alcuni hanno avanzato l'equazione diritto disponibile = diritto patrimoniale. Equazione sbagliata; infatti i diritti
patrimoniali non sempre sono diritti disponibili (come nel caso dei beni sottoposti a vincolo archeologico, che non
possono essere distrutti), così come esistono diritti disponibili che non sono diritti patrimoniale (a.e. ex art. 5 c.c. gli atti
dispositivi del proprio corpo che non cagionano diminuzioni permanenti della integrità fisica).
Gallo conclude dunque che, regola generale per sapere se si tratta di diritto disponibile, e che disponibile è la facoltà
che il titolare della situazione giuridico soggettiva può liberamente porre in essere.
Esaminata la natura del diritto, passiamo all'analisi del consenso. Esso non può essere mai presunto, bensì sempre
espresso: non importa la modalità d'espressione (anche per segni e gesti semanticamente significativi). Occorre altresì
che l'autorizzazione provenga da persona legittimata all'esercizio di quel diritto. I requisiti di legittimazione si
ricavano, di volta in volta, dal tipo di diritto di cui si vuole disporre. Ad esempio, il diritto di proprietà esigerà la
capacità di agire del proprietario – salvo che non si tratti di oggetti, quali giocattoli di infimo valore, che si ritiene
rientrino nella disponibilità del minore.
In altri termini, il tipo di consenso dipende dal tipo di diritto: requisito indifettibile è, comunque, che si tratti di un
atto giuridico.
L'esercizio di un diritto
La sua fonte è nell'art. 51:
Art. 51 – Esercizio di un diritto o adempimento di un dovere: L'esercizio di un diritto o l'adempimento di un
dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità esclude la punibilità.
Se un fatto costituente un reato è commesso per ordine dell'Autorità, del reato risponde sempre il pubblico
ufficiale che ha dato l'ordine.
Risponde del reato altresì chi ha eseguito l'ordine, salvo che, per errore di fatto, abbia ritenuto di obbedire a un ordine
legittimo.
Non è punibile chi esegue l'ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità
dell'ordine.
Chiariamo anzitutto il primo punto fondamentale: fonte del diritto deve essere sempre una legge dello Stato. Non può
essere costituito da una fonte regionale: anche qui vale, infatti, il principio della riserva assoluta di legge. Quando,
infatti, una legge va ad integrare una fattispecie criminosa, la riserva deve comunque essere rispettata.
Ma come si evidenzia la norma di legge costitutiva di un diritto? Non necessariamente, per Gallo, si tratta di una
norma espressamente autorizzante, pure se vi sono esempi di norme espressamente autorizzanti quale l'art. 388 c.p, che
legittima il privato all'arresto di chi è colto in flagranza di determinati delitti:
Art. 383. Facoltà di arresto da parte dei privati. — 1. Nei casi previsti dall’articolo 380 ogni persona è
autorizzata a procedere all’arresto in flagranza, quando si tratta di delitti perseguibili di ufficio.
2. La persona che ha eseguito l’arresto deve senza ritardo consegnare l’arrestato e le cose costituenti il corpo
del reato alla polizia giudiziaria la quale redige il verbale della consegna e ne rilascia copia.
Sia che la facultas agendi provenga da una norma che espressamente facoltizza un certo comportamento, sia che
provenga da un'autorizzazione implicita (come per l'esercizio di giochi d'azzardo, che può essere esercitato nonostante il
divieto dell'art. 383, o per lo ius corrigendi, che troverebbe la base nell'art. 147 c.c.), essa deve provenire da una fonte
che abbia il rango di legge dello Stato: questo in virtù del rispetto del principio di riserva poco sopra enunciato. E
deve essere, per un principio di non-contraddizione, una norma appartenente al diritto extra-penale.
Appena poco sopra abbiamo parlato di quei casi nei quali manca un'espressa norma facoltizzante, ma in cui la facoltà
dell'esercizio del diritto si ricava dalla lettura dell'ordinamento. Ciò che importa, è che esistano una o più regole di
legge che espressamente autorizzino al compimento di una certa condotta; condotta che – al di fuori dei casi previsti –
costituirebbe reato.
Ma non dobbiamo vedere solo alle fonti di rango legislativo: negli ultimi anni hanno assunto particolare rilevanza le
forme di esercizio di diritti posti da regole costitutzionali. Basti pensare a quelle dell'art. 21 (libertà d'espressione) o
dell'art. 40 (diritto di sciopero).
Gallo, in un inciso, fa rilevare come spesso sia difficile tracciare una linea di confine netta fra esercizio del diritto che
costituisce una scriminante e fatto antigiuridico. Nel caso dello ius corrigendi (diritto che per Gallo si fonderebbe
nell'art 147 c.c.) il limite sarà più che altro dettato dagli usi e dai modelli culturali; nel caso degli offendicula (mezzi di
difesa della prorietà quali cocci, ferro spinato, trappole) se legittima è la loro collocazione, nel momento nel quale 20
entrano in funzione devono rispondere ai requisiti della proporzione come operanti nella legittima difesa.
Ancora, una legge italiana può attribuire rilevanza a diritti posti da ordinamenti diversi da quello statuale. Tuttavia,
anche in questo caso, ciò che assicura rilevanza a tale norma è il rinvio compiuto dal nostro ordinamento.
Resta da concludere l'analisi rispetto la ratio della scriminante dell'esercizio di un diritto. Alcuni la rinvengono nel
principio di indifferenza: l'ordinamento non prenderebbe posizione rispetto a due interessi contrapposti che considera
di eguale valore. Altri, invece, giustificano questo bilanciamento con valutazioni di tipo psicologico medio.
Per Gallo, con buona certezza ed approssimazione questa scriminante può spiegarsi con buona approssimazione
adottando il principio di non contraddizione: la legge non può da un lato autorizzare un comportamento e dall'altra
vietarlo.
L'adempimento di un dovere
L'art 51, poco sopra riportato, prevede quale scriminante anche l'esercizio di un dovere. Due sono gli atti dai quali
può discendere un dovere:
● Da una norma giuridica;
● Da un ordine impartito dalla pubblica autorità.
Per il dovere discendente da una norma giuridica il problema non si pone.
Profili di problematicità presenta invece il secondo atto dal quale può discendere il dovere: cioè l'ordine impartito
dalla pubblica autorità. Pubblica autorità che sia un organo dotato di poteri che consentono di emanare provvedimenti
vincolanti di natura generale.
Si discute se la scriminante di adempimento del dovere sia presente quando si adempie ad un dovere nascente da un
rapporto di diritto privato. Molti sostengono di no, ma Gallo arriva alla conclusione radicale che non esistono
obblighi di diritto privato (solo obbligazioni!).
Quali sono i requisiti dell'ordine? Questo requisito è uno; ed è quello della legittimità. Legittimità che, tuttavia, va
distinta in due profili:
● LEGITTIMITÀ FORMALE: consiste nella competenza di chi dà l'ordine ad emanare il tipo di comando
impartito e nella competenza di chi riceve l'ordine ad eseguirlo.
● LEGITTIMITÀ SOSTANZIALE: consiste nell'esistenza degli estremi di fatto e di diritto che facoltizzano
ovvero obbligano l'autorità ad emettere l'ordine. Ad esempio, nella custodia cautelare, il requisito di legittimità
sostanziale sarà assolto quando sono presenti gravi indizi di colpevolezza.
Tale distinzione è utile per capire in quali circostanze chi riceve l'ordine dalla pubblica autorità può o meno sindacarlo.
L'art. 51 sostiene infatti che chi ha eseguito l'ordine non risponde per esso, salvo che “per errore di fatto abbia ritenuto
di obbedire ad un ordine legittimo” o quando “la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell'ordine”.
Da questo pare evincersi che sia solo il superiore a rispondere quando l'ordine da lui emanato sia illegittimo nella
sostanza; il subordinato sarebbe tenuto solo alla verifica dei requisiti di legittimità sostanziale, vale a dire di
verificare che l'ordine sia stato emanato dalla persona qualificata nella forma qualificata.
Tuttavia, il codice penale di pace del 1941 ha introdotto un principio di straordinaria importanza, considerata l'epoca:
“risponde del fatto anche il militare che ha eseguito l'ordine, quando l'esecuzione di questo costituisce
manifestatamente reato”.
Con una successiva riforma del 1978, è stato introdotto un princpio ancor più importante: quello per il subordinato del
dovere di non eseguire l'ordine a contenuto manifestatamente criminoso o eversivo.
Per i civili vale, invece, un discorso diverso: il d.p.r. 3/1957 stabilisce che “l'impiegato non deve comunque eseguire
l'ordine del superiore quando l'atto sia vietato dalla legge penale”.
Rimane da indagare, anche in questo caso, la ratio della scriminante. Come per l'esercizio del diritto, Gallo ritiene che
essa derivi da un principio di non-contraddizione.
Un ultima domanda, potrebbe essere sollevata in rapporto all'ordine manifestatamente illegittimo che venga eseguito. Il
terzo ha facoltà di reagire per legittima difesa? Sì: per Gallo non c'è nulla che lo impedisce.
La legittima difesa
La materia è stata appena aggiornata nella trascorsa legislatura. All'art. 52, che prima si componeva di un solo comma,
ne sono stati aggiunti altri due: 21
Art. 52 – Difesa legittima: Non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità
di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta, sempre che la difesa sia
proporzionata all'offesa.
Nei casi previsti dall'art. 614 (violazione di domicilio), primo e secondo comma, sussiste il rapporto di
proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi
ivi indicati usa un'arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere:
a) la propria o altrui incolumità;
b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d'aggressione.
La disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all'interno di ogni altro
luogo ove venga esercitata un'attività commerciale, professionale o imprenditoriale.
La scriminante della legittima difesa è un'applicazione del principio di autotutela. Principio che esiste anche nel diritto
internazionale, e che si sostanzia nel diritto di rappresaglia.
Nel diritto interno la rappresaglia è assolutamente esclusa; l'autotutela è invece consentita quando i fatti non
consentono di ricorrere all'apparato coattivo-sanzionatorio dello Stato. La scriminante, dunque, si incentra sulla
esistenza di una situazione di pericolo.
Tale situazione di pericolo non può essere ricondotta ad un unico modello; vi sono casi in cui esso preesiste e non và
oltre la condotta tipica; altri in cui deriva dalla stessa condotta tipica. Così come casi nei quali (come nell'art. 431 c.p.) il
pericolo andrà accertato alla stregua di tutte le circostanze anche successive alla condotta.
Il pericolo che a noi interessa è l'elemento centrale della scriminante della legittima difesa. Si ha pericolo, per Gallo,
quando si sono verificate tutte le circostanze che hanno dato luogo alla rilevante possibilità di danno. Il pericolo,
inoltre, deve essere attuale. La chiave interpretativa del concetto di autotutela risiede nella impossibilità di ricorrere
ad organi dell'apparato coattivo-sanzionatorio – ad esempio nella impossibilità di realizzare un intervento delle
forze dell'ordine. Non sarà più attuale il pericolo che può essere fugato quando, invece, il ricorso a tali organi torna di
nuovo possibile. Non può considerarsi come attuale neanche quel pericolo che può comunque essere fugato ricorrendo
a mezzi diversi rispetto all'intervento delle forze dell'ordine.
Altro requisito per l'operare della scriminante, oltre l'attualità del pericolo, è l'ingiustizia dell'offesa. Il termine pare – a
prima analisi – richiamare qello di danno ingiusto ex art. 2043 c.c. Per Gallo, tuttavia, il dettato penalistico è più
puntuale rispetto a quello civilistico. È ingiusta l'offesa contra ius: cioè di qualunque violazione contra ius (cioè non in
adempimento dell'obbligo o in esercizio di un diritto) rispetto ad una situazione giuridico soggettiva favorevole. Può
trattarsi di un diritto reale come di credito o anche personale; più in generale di qualsiasi lesione di un interesse
obbiettivamente protetto (non lo si confonda con l'interesse legittimo, dove non esiste un diritto da tutelare, ma solo
un'aspettativa), la cui lesione può derivare tanto da un'azione che da un'omissione.
Il comportamento lesivo del diritto è leso non soltanto da un comportamento previsto quale illecito penale, ma da
qualunque fatto antigiuridico, sia esso doloso, colposo, di un non imputabile o derivante da un caso fortuito.
Ultimo requisito dell'art. 52 è quello della proporzione fra difesa ed offesa minacciata. Deve essere raffrontato
l'interesse minacciato e quello sacrificato, tramite un giudizio di proporzione: non pare accettabile, infatti, che il
ladruncolo di ortaggi venga colpito tramite il fucile di precisione del propietario, che si trova nel casolare ad 1 km di
distanza.
Ciononostante, il giudizio di proporzione dovrà tenere conto dei mezzi che il soggetto aveva a disposizione per poter
porre in essere una difesa efficace. Per Gallo, insomma, a tutela di un interesse patrimoniale non può realizzarsi
offesa alla vita. Necessario è, in ogni caso, che 'evento prodotto sia funzionale alla difesa dell'interesse aggredito.
Tuttavia la lesione dei c.d. diritti personalissimi (libertà sessuale, di locomozione, ecc) giustifica una reazione che può
spingersi fino alla causazione della morte dell'aggressore.
Il testo di Gallo non è aggiornato alla riforma realizzata nella scorsa legislatura, che ha portato alla modifica dell'art. 52.
A tale modifica, si sarebbe giunti – secondo l'On. Rossi, promotore della proposta di legge – per via della “sostanziale
inapplicabilità della esimente” a causa della “interpretazione della magistratura [...] che ha trasformato un istituto
diretto a tutelare le vittime in uno strumento che finisce col giovare anzitutto agli aggressori”.
Ora il cittadino può usare un'arma – fino al sacrificio della vita altrui – per tutelare un interesse patrimoniale. Il
nuovo testo dispone che - se la persona reagisce all'interno della propria abitazione o nel luogo di lavoro – il rapporto
di proporzione si presume esistente. Vale a dire che si verifica un'inversione dell'onere della prova, non solo quando è
messa in pericolo la propria o altrui incolumità, ma anche quando si tratta di difendere i beni, quando non vi è resistenza
e vi è pericolo di aggressione (il che succede praticamente in tutte le rapine).
Per alcuni commentatori, creando una presunzione automatica che la reazione dell'aggredito sia sempre e comunque
proporzionale all'offesa, oltre a sottrarre al giudice ogni giudizio sulla proporzionalità viene a crearsi in capo 22
all'individuo un diritto soggettivo all'autotuela che supera la concezione di proporzione che finora ha retto il nostro
ordinamento.
L'uso legittimo delle armi
L'art. 53 introduce una scriminante ulteriore: quella dell'uso legittimo delle armi:
Art. 53. Uso legittimo delle armi. — Ferme le disposizioni contenute nei due articoli precedenti, non è
punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di far
uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una
violenza o di vincere una resistenza all’Autorità e comunque di impedire la consumazione dei delitti di strage,
di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano
armata e sequestro di persona.
La stessa disposizione si applica a qualsiasi persona che, legalmente richiesta dal pubblico ufficiale, gli presti
assistenza.
La legge determina gli altri casi, nei quali è autorizzato l’uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica.
Questa scriminante, secondo Gallo, è il manifesto di una ideologia propria di uno stato forte ed autoritario.
Ciononostante, l'articolo in questione solleva diversi dilemmi.
Il primo risiede nel riferimento preciso a determinate fattispecie criminose: strage, naufragio, sommersione, disastro
aviatorio o ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata, sequestro di persona. Se si considerassero i fatti
menzionati come già aventi raggiunto il grado di tentativo, la disposizione risulterebbe superflua e ripetitiva, dal
momento che il legittimo ufficiale sarebbe già scriminato, in quanto agirebbe in stato di legittima difesa (che,
ricordiamo, si configura anche nel caso di difesa di un diritto altrui).
Se invece il riferimento, invece che a tentativi, richiamasse agli atti preparatori, la norma sarebbe incostituzionale.
L'ordinamento, infatti, non può che sanzionare i reati ed i tentativi di reato (cioè fatti che presentino una direzione non
equivoca per la realizzazione di un reato).
Nondimeno, anche la prima parte dell'articolo solleva dei dubbi. Per Gallo la giustificazione dell'uso delle armi viene
meno ogniqualvolta il pubblico ufficiale possa contrastare condotte di violenza o resistenza utilizzando mezzi diversi
dalle armi. Il ricorso alle armi potrà, dunque, essere giustificato solo quale extrema ratio.
Rimane da discutere cosa debba intendersi, ai sensi del I comma, per violenza e resistenza.
Per Gallo, la violenza non può che essere fisica, altrimenti non giustificandosi l'utilizzo della forza sotto un profilo di
proporzione. Per resistenza, oltre che la resistenza attiva, può intendersi anche la resistenza passiva, che si sostanzia in
comportamenti quali la fuga.
Ci si domanda, poi, quali siano i beneficiari della scriminante: l'art. 53 dispone per tutti i pubblici ufficiali; dottrina e
giurisprudenza sostengono invece che essa si riferisca soltanto agli agenti di polizia ed ai militari in servizio di pubblica
sicurezza. In sostanza è così anche per Gallo; formalmente sarebbe meglio enunciare che il soggetto attivo della
scriminante è ogni pubblico ufficiale titolare di un dovere per la realizzazione del quale si possa ricorrere a mezzi di
coazione fisica.
Abbiamo dunque visto che l'art. 53 risulta pleonastico e ripetitivo. Qual'è, dunque, la sua funzione? Per Gallo essa non
può risiedere che nel rendere possibile la collaborazione del terzo al pubblico ufficiale. Il terzo legalmente richiesto
può far uso di armi in appoggio al pubblico ufficiale.
Chiosando, Gallo rileva come esistano anche altre disposizioni sulla stessa materia (a.e. nel testo unico sulla pubblica
sicurezza). Tuttavia, la ratio di fondo alla quale la disciplina deve essere ispirata, è quella della proporzionalità fra
condotta ed evento.
Lo stato di necessità
È un'ulteriore causa di giustificazione, prevista dall'art. 54 c.p.:
Art. 54. Stato di necessità. — Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla
necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non
volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo.
Questa disposizione non si applica a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo.
La disposizione della prima parte di questo articolo si applica anche se lo stato di necessità è determinato
dall’altrui minaccia; ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l’ha costretta
a commetterlo.
Saltano subito agli occhi le affinità con la legittima difesa: anche questa regola è ispirata alla ratio per cui “la 23
DESCRIZIONE APPUNTO
Riassunto per l'esame di Diritto Penale, basato su appunti personali e studio autonomo del testo consigliato dal docente Diritto Penale, Gallo (seconda parte). Nello specifico gli argomenti trattati sono i seguenti: ilreato nel sistema degli illeciti, reato dal punto di vista formale, reato dal punto di vista sostanziale, delitti e contravvenzioni.
I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Sara F di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Diritto penale e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Roma Tre - Uniroma3 o del prof Trapani Mario.
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