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CAPITOLO NONO: L'ELUSIONE FRAUDOLENTA DEL MODELLO.

Ex art 6.1, sulla persona giuridica incombe l'onere di provare che i propri vertici hanno eluso

“fraudolentemente” il sistema finalizzato alla prevenzione dei reati; dunque, anche laddove l'ente imputato

riesca a dimostrare l'adozione di un efficace modello organizzativo interno e l'inesistenza di lacune o

inadempienze nel controllo svolto dall'organo di vigilanza, per raggiungere l'esenzione dalla responsabilità

esso dovrà allegare questa ulteriore circostanza. → probatio diabolica.

Se si utilizza la condizione dell'elusione fraudolenta come chiave di lettura dell'istituto di cui all'art 6 appare

chiara l'essenza strutturale del modello organizzativo; esso non è suscettibile di essere invalidato dal

semplice fatto che, dopo la sua implementazione, sia stato commesso un reato poiché, per realizzarlo, il

soggetto di vertice deve aver posto in essere artifici e mezzi decettivi volti ad eludere sia il modello sia i

controlli dell'organismo di vigilanza.

L'interpretazione più aderente al sistema vuole che “l'elusione fraudolenta non si esaurisca in un aggiramento

volontario delle regole aziendali”; essa, infatti, “presuppone la messa in opera di un artificio, di una forzatura

volta alla elusione del precetto”.

La consapevolezza che emerge da questo approccio identifica la funzione del modello, inteso a surrogare,

con le sue procedure, l'agire individuale e, al tempo stesso, suona a conferma dell'efficacia in concreto

dell'organizzazione della 'legalità aziendale', che per essere surclassata, nel suo dispiegarsi, deve essere

artificiosamente aggirata.

Ciò vale per i reati di natura dolosa. Diversamente, l'esimente appare incongrua se immaginata per i reati

colposi, come in materia di sicurezza sul lavoro. Pertanto il requisito è da ritenersi implicitamente abrogato

con riferimento ai reati colposi; ed è auspicabile un intervento del legislatore volto a rimuovere l'insanabile

contraddizione tra “fraudolenza” e “colpa”.

A prescindere a quest'ultimo rilievo, la ratio del presupposto potrebbe sembrare fondata; nel concreto, il

meccanismo è tuttavia abbastanza implausibile, tant'è che in giurisprudenza consta, ad oggi, una sola

sentenza di assoluzione dell'ente fondata sulla prova dell'elusione fraudolenta del modello da parte dei

soggetti apicali.

La necessità per l'ente di provare l'elusione fraudolenta svela che il criterio di imputazione è di natura

oggettiva, soprattutto laddove l'autore del reato non sia stato individuato.

La tradizione ha rivestito un ruolo decisivo, nel ritenere che l'atto del soggetto di vertice esprima un

atteggiamento proprio dell'ente: un risultato che tradisce un'impostazione antropomorfica del soggetto

collettivo.

La regola di giudizio secondo la quale il giudice del dibattimento pronuncia la sentenza di esclusione della

responsabilità dell'ente anche quando manca, è insufficiente o contraddittoria la prova dell'illecito

amministrativo (art 66) trova spazio operativo ove appaia dubbio che il reato-presupposto sia stato

commesso dai vertici nell'interesse o vantaggio della società: l'onere di dimostrare la colpevolezza dell'ente

grava sul pubblico ministero e, pertanto, quest'ultimo sopporta anche le situazioni di incertezza probatoria. Il

dubbio sul fatto costitutivo porta ad una sentenza di assoluzione.

La dimostrazione dell'adozione e dell'implementazione degli schemi comportamentali codificati dall'art 6

incombe – invece – sull'ente e, di conseguenza, l'incertezza su queste condizioni ricade sulla difesa. Il dubbio

sul fatto impeditivo conduce alla sentenza di condanna.

Da ciò emerge una diversità del modo di concepire il canone costituzionale della presunzione di non

colpevolezza che stride con l'assetto probatorio del d.lgs 231/2001. Il capovolgimento dell'onere probatorio

di cui all'art 6 integra una rilevante deroga alla presunzione di non colpevolezza: l'unica interpretazione

orientata nel solco dell'art 27.2 Cost sarebbe quella di imporre alla pubblica accusa il compito di dimostrare

l'inefficacia del modello. 36

CAPITOLO DECIMO: REATI DEI DIPENDENTI E MODELLI DI ORGANIZZAZIONE.

Art 7: “Nel caso previsto dall'art 5, comma 1, lettera b, l'ente è responsabile se la commissione del reato è

stata resa possibile dall'inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza.

In ogni caso, è esclusa l'inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza se l'ente, prima della

commissione del reato, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e

controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.”

Dedicato alla prevenzione del “poco probabile” reato dei subalterni, l'art 7 è tra le disposizioni meno

perspicue del decreto del 2001. Essa prevede che l'ente è responsabile se la commissione del reato-

presupposto da parte del soggetto subalterno è stata resa possibile dall'inosservanza degli obblighi di

direzione o vigilanza: la norma dunque precisa il criterio soggettivo di imputazione dettato dall'art 5, in

riferimento all'illecito delle persone sottoposte alla direzione o vigilanza di uno dei soggetti apicali.

I restanti commi dell'articolo disciplinano contenuti ed effetti del modello organizzativo deputato a prevenire

questi reati.

La commissione di reati da parte dei sottoposti è oggetto di un meccanismo di accertamento non più fondato

– a differenza del delitto commesso da persona in ruolo apicale – sull'inversione dell'onere della prova.

Laddove il reato sia stato realizzato da un dipendente le regole di accertamento dell'illecito ricalcano quelle

tipiche del rito codicistico: l'ente è ritenuto infatti responsabile se la commissione del reato è stata resa

possibile dal mancato rispetto degli obblighi di direzione o vigilanza, un fatto la cui dimostrazione è a carico

dell'accusa.

L'art 7 – commi 2, 3, 4 – rimanda a taluni contenuti della disciplina di cui all'art 6, ritagliati, nonostante

numerose lacune, sulle peculiarità della fattispecie in esame. L'adattamento più evidente arricchisce il

modello di organizzazione e di gestione del sostantivo “controllo” che, letto unitamente a “gestione”, declina

la vocazione prevenzionistica di questo tipo di modello in rapporto al rischio di mancato assolvimento del

dovere di direzione e vigilanza.

Se l'ente dimostra che “prima della commissione del reato, ha adottato ed efficacemente attuato un modello

di organizzazione, di gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatori”, nulla

gli sarà imputabile. In questo caso, il rischio della mancata prova è nuovamente a carico della difesa: le

situazioni di incertezza probatoria sull'idoneità del modello ricadranno negativamente sulla società.

Comunque sia, che si tratti di inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza o che si versi in assenza di

qualsivoglia modello o in presenza di un modello inadeguato o inefficace, la conclusione è identica: la 'colpa'

costituisce un elemento primario della responsabilità dell'ente.

La funzione esimente del modello organizzativo e i suoi requisiti:

La commissione del reato non è in ogni caso ascrivibile all'inosservanza degli obblighi di direzione e

vigilanza se, prima della commissione dell'illecito, l'ente ha adottato e efficacemente attuato un modello.

L'art 7 sembra sottintendere l'esistenza di un'altra species di modello, più semplificata di quella dell'art 6.

Il requisito dell'idoneità a prevenire reati della specie di quello verificatosi, ne tratteggia la dimensione

teleologica che è ulteriormente precisata dalla natura del modello stesso: non solo di organizzazione e

gestione ma anche di controllo.

Per quanto riguarda la morfologia del modello, esso dovrebbe essere articolato in relazione alla natura e alla

dimensione dell'organizzazione nonché al tipo di attività svolta e proteso a garantire lo svolgimento

dell'attività nel rispetto della legge e a scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio.

Il dettato normativo affonda poi completamente nella nebbia quando si tratta di prescrivere metodologie di

adozione e contenuti del modello.

Nonostante tralasci tutto ciò, la disposizione trova modo di disciplinare le condizioni di efficace attuazione

del modello: occorrono una verifica periodica e un suo aggiornamento quando sono scoperte significative

violazioni delle prescrizioni ovvero quando intervengono mutamenti nell'organizzazione o nell'attività;

occorre inoltre l'adozione di un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure

indicate nel modello.

Peccato che, appunto, alla regolamentazione delle condizioni dell'efficacia del modello non facciano da

contraltare prescrizioni in ordine ai requisiti fondamentali dello stesso.

37

CAPITOLO UNDICESIMO: L'APPARATO SANZIONATORIO.

La scelta del legislatore di sanzionare la persona giuridica implica alcune perplessità di ordine costituzionale,

soprattutto con riguardo al rispetto di due canoni previsti dall'art 27 Cost.

Viene innanzitutto in gioco il principio di personalità della responsabilità penale, inteso come divieto di

responsabilità per fatto altrui. Le ricadute sui terzi incolpevoli (azionista, socio, associato) delle sanzioni

irrogate all'ente meriterebbero – secondo qualche autore – un attento scrutinio di costituzionalità.

Inoltre, è stato rilevato come il finalismo rieducativo della pena non si presti a semplicistiche operazioni

transitive, dall'individuo alla societas, in quanto la risocializzazione mediante afflizione richiede pure

sempre, concettualmente e praticamente, una personalità sulla quale incidere.

A parte queste riserve, la maggior parte degli autori approda alla conclusione che l'ordinamento nel suo

complesso, e gli stessi principi costituzionali, “non si oppongono affatto ad una responsabilità della persona

giuridica che, abbandonato il modulo risarcitorio, approdi a paradigmi punitivi, collegati alla commissione di

un reato da parte di un soggetto qualificato”.

Imperniato su misure che colpiscono in via diretta (sanzione pecuniaria e confisca) o indiretta (sanzioni

interdittive) il profitto o comunque l'utile economico dell'ente, il sistema sanzionatorio risponde a esigenze di

prevenzione, valorizzando in chiave premiale il postfatto. Esso prevede le seguenti sanzioni amministrative:

la sanzione pec

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A.A. 2012-2013
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SSD Scienze giuridiche IUS/16 Diritto processuale penale

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher renaissence di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Diritto processuale penale e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Milano o del prof Corso Piermaria.