Diritto penale - Parte speciale - Appunti
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dissociandosi dagli altri, si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze
ulteriori, ovvero aiuta concretamente l’autorità di polizia e l’autorità giudiziaria nella raccolta di prove
decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti, la pena dell’ergastolo è sostituita da quella
della reclusione da dodici a venti anni e le altre pene sono diminuite da un terzo alla metà. Quando
ricorre la circostanza di cui al comma precedente non si applica l’aggravante di cui all’art. 1 del
presente decreto”.
2. La seconda forma di dissociazione dal terrorismo è disciplinata dall’art. 2 della legge n. 309 del 1982,
per il quale, salvo quanto disposto dall’art. 289 bis, la pena dell’ergastolo è sostituita da quella della
reclusione da quindici a ventuno anni e le altre sono diminuite di un terzo, ma non possono superare, in
ogni caso, i quindici anni per gli imputati di uno o più reati commessi per finalità di terrorismo o di
eversione dell’ordine costituzionale, i quali, tenendo, prima della sentenza definitiva di condanna, uno
dei comportamenti previsti dall’art. 1, commi 1 e 2, rendano, in qualsiasi fase o grado del processo,
piena confessione di tutti i reati commessi e si siano adoperati o si adoperino efficacemente durante il
processo per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato o per impedire la
commissione di reati connessi a norma del numero 2 dell’art. 61.
Quando ricorrano le circostanze di cui al precedente comma non si applica l’aggravante di cui all’art. i
D.L. 15 dicembre 1979, n. 625, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 6 febbraio 1980, n.
75”.
3. La terza circostanza attenuante è la c.d. fattiva collaborazione ed è prevista dall’art. 3 1. 29 maggio
1982, n. 304, per il quale, “salvo quanto disposto dall’art. 289 bis c.p., per i reati commessi per finalità
di terrorismo o eversione dell’ordinamento costituzionale la pena dell’ergastolo è sostituita da quella
della reclusione da dieci a dodici anni e le altre pene sono diminuite della metà, ma non possono
superare, in ogni caso, i dieci anni, nei confronti dell’imputato che, prima della sentenza definitiva di
condanna, tiene i comportamenti previsti dall’art. 1, primo e secondo comma, rende piena confessione
di tutti i reati commessi e aiuta l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive
per la individuazione o la cattura di uno o più autori di reati commessi per la medesima finalità ovvero
fornisce comunque elementi di prova rilevanti per l’esatta ricostruzione del fatto e la scoperta degli
autori di esso.
Quando i comportamenti previsti dal comma precedente sono di eccezionale rilevanza, le pene
sopraindicate sono ridotte fino ad un terzo.
Quando ricorrono le circostanze di cui ai precedenti commi non si applicano gli articoli 1 e 4 del D.L. 15
dicembre 1979 n. 625, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 6 febbraio 1980, n. 15”.
La circostanza aggravante della finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico è stata
introdotta dall’art. 1 della 1. 6 febbraio 1980, n. 15, secondo il quale “per i reati commessi per finalità di
terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, punibili con pena diversa dall’ergastolo, la pena è
aumentata della metà, salvo che la circostanza sia elemento costitutivo del reato.
Quando concorrono altre circostanze aggravanti, si applica per primo l’aumento di pena previsto per la
circostanza aggravante di cui al comma precedente.
Le circostanze attenuanti concorrenti con l’aggravante di cui al primo comma non possono essere ritenute
equivalenti o prevalenti rispetto a questa ed alle circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una
pena di specie diversa o ne determina la misura in modo indipendente da quella ordinaria del reato”.
CAUSE DI NON PUNIBILITA’
La prima causa di non punibilità prevista dalla legislazione dell’emergenza è costituita dal recesso attivo ex
art. 5 della legge 1980 n. 15, per il quale, “fuori dei casi previsti dall’ultimo comma dell’art. 56 del codice
penale, non è punibile il colpevole di un delitto commesso per finalità di terrorismo o di eversione
dell’ordine democratico che volontariamente impedisce l’evento e fornisce elementi di prova determinanti
per l’esatta ricostruzione del fatto e per l’individuazione degli eventuali concorrenti”.
L’art. 11. 29 maggio 1982, n. 304, prevede ben quattro cause di non punibilità per i reati associativi e per
quelli ad essi connessi, costruite sul modello del ravvedimento-collaborazione processuale proprio delle
figure di dissociazione.
In forza dell’art. 1, “non sono punibili coloro che, dopo aver commesso, per finalità di terrorismo o di
eversione dell’ordinamento costituzionale, uno o più fra i reati previsti dagli articoli 270, 270 bis, 304, 305
e 306 del codice penale e, salvo quanto previsto dal 30 comma del presente articolo e dal secondo comma
dell’art. 5, non avendo concorso alla commissione di alcun reato connesso all’accordo, alla associazione o
alla banda, prima della sentenza definitiva di condanna concernente i medesimi reati: a) disciolgono, o
comunque determinano lo scioglimento dell’associazione o della banda; b) recedono dall’accordo, si ritirano
dall’associazione o dalla banda, ovvero si consegnano senza opporre resistenza o abbandonando le armi e
forniscono in tutti i casi ogni informazione sulla struttura e sulla organizzazione dell’associazione o della
banda.
Non sono parimenti punibili coloro i quali impediscono comunque che sia compiuta l’esecuzione dei reati per
cui l’associazione o la banda è stata formata.
Non sono altresì punibili: a) sussistendo le condizioni di cui al primo comma, coloro che hanno commesso i
reati connessi concernenti armi, munizioni od esplosivi, fatta eccezione per le ipotesi di importazione,
esportazione, rapina e furto, i reati di cui ai capi secondo, terzo e quarto titolo settimo del Libro secondo del
6 codice penale, i reati di cui agli articoli 303 e 414 del c.p., nonché il reato di cui all’art. 648 del codice
penale avente per oggetto armi, munizioni, esplosivi, documenti; b) coloro che hanno commesso uno dei
reati previsti dagli articoli 307, 378 e 379 del codice penale nei confronti di persona imputata di uno dei
delitti indicati nel primo comma, se forniscono completa informazione sul favoreggiamento commesso. La
non punibilità è dichiarata con sentenza del giudice del dibattimento, previo accertamento della non
equivocità ed attualità della condotta di cui al primo ed al secondo comma.
Non si applicano gli articoli 308 e 309 del codice penale”.
L’art. 5 della legge 29 maggio 1982, n. 304, prevede una causa di non punibilità per il tentativo e i delitti di
attentato.
Dispone questa norma che “per i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento
costituzionale non è punibile colui che, avendo compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a
commettere il delitto, volontariamente impedisce l’evento e fornisce comunque elementi di prova rilevanti
per la esatta ricostruzione del fatto e per la individuazione degli eventuali concorrenti.
Se il colpevole di uno dei delitti previsti dagli articoli 241, 276, 280, 284, 285, 286, 289 e 295 del c.p.
coopera efficacemente ad impedire l’evento cui gli atti da lui commessi sono diretti soggiace soltanto alla
pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso.
Non si applica l’art. 5 del D.L. 15 dicembre 1979 n. 625, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge
6 febbraio 1980 n. 15”.
REATI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
CONTENUTO DELLA CLASSE
Il titolo del secondo libro del codice contempla i delitti contro la pubblica Amministrazione. Il concetto di
pubblica Amministrazione comprende tutta l’attività dello stato. Viene, quindi, tutelata l’attività legislativa e
giudiziaria. Sono delitti contro la pubblica Amministrazione tutti quelli che colpiscono l’attività funzionale
dello Stato. I delitti che ci accingiamo ad analizzare sono distinti dal codice in due classi:
1. Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica Amministrazione;
2. Delitti dei privati contro la pubblica Amministrazione.
Nei reati della prima classe l’offesa implica sempre una violazione dei doveri funzionali delle persone che
esercitano mansioni pubbliche; nei delitti della seconda classe, invece, il turbamento è recato da individui
che sono estranei all’attività funzionale colpita dall’azione criminosa. Il capo primo e il capo terzo, ove
compaiono le nozioni di pubbliche e incaricato di pubblico servizio, hanno subito notevoli modificazioni per
effetto della legge 26 aprile 1990 n. 86. La riforma ha impegnato il parlamento per molto tempo. Sono
state definite le nozioni di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio (art. 357 e 358); sono state
estese agli incaricati di pubblico servizio le incriminazioni per concussione (art. 317) e per abuso di ufficio
(art. 323) prevedendosi per quest’ultimo reato una nuova formula che si assume capace di ricomprendere
elementi di disvalore delle ipotesi del peculato per distrazione ed interesse privato in atti d’ufficio. I primi
commenti della dottrina hanno evidenziato più dissensi che consensi.
I SOGGETTI INVESTITI DI MANSIONI DI INTERESSE PUBBLICO
Il codice Zanardelli delineava unicamente la figura del pubblico ufficiale, stabilendo all’art. 207 che per gli
effetti della legge penale sono considerati pubblici ufficiali:
Coloro che sono rivestiti di pubbliche funzioni, anche temporanee, stipendiate o gratuite, a servizio dello
Stato, delle provincie o dei comuni, o di un istituto sottoposto per la legge alla tutela dello stato, di una
provincia o di un comune;
I notai;
Gli agenti della forza pubblica e gli uscieri addetti all’ordine giudiziario.
Ai pubblici ufficiali erano equiparati per espressa previsione di legge, i giurati, gli arbitri, i periti, gli
interpreti e i testimoni, durante il tempo in cui sono chiamati ad esercitare le loro funzioni.
Il codice Rocco ha distinto tre figure giuridiche; quella del pubblico ufficiale, quella dell’incaricato di un
pubblico servizio e quella dell’esercente un servizio pubblica necessità. L’art. 357 prima della citata riforma,
recava: “Agli effetti della legge penale sono pubblici ufficiali:
Gli impiegati dello stato o di un altro ente pubblico che esercitano, permanentemente o
temporaneamente, una pubblica funzione, legislativa, amministrativa o giudiziaria;
Ogni altra persona che esercita, permanentemente o temporaneamente, gratuitamente o con
retribuzione, volontariamente o per obbligo, una pubblica funzione, legislativa, amministrativa o
giudiziaria”.
L’art. 358 stabiliva: “Agli effetti della legge penale, sono persone incaricate di un pubblico servizio:
Gli impiegati dello Stato o di un altro ente pubblico, i quali prestano, permanentemente o
temporaneamente, un pubblico servizio;
Ogni altra persona che presta, permanentemente o temporaneamente, gratuitamente o con
retribuzione, volontariamente o per obbligo, un pubblico servizio”.
Infine, l’art. 359 tuttora dispone: “Agli effetti della legge penale, sono persone che esercitano un servizio di
pubblica necessità: 7
I privati che esercitano professioni forensi o sanitarie, o altre professioni il cui esercizio sia per legge
vietato senza una speciale abilitazione dello Stato, quando dell’opera di essi il pubblico sia per legge
obbligato a valersi;
I privati che, non esercitando una pubblica funzione, né prestando un pubblico servizio, adempiono un
servizio dichiarato di pubblica necessità mediante un atto della pubblica Amministrazione”.
Così stando le cose la legge 26 aprile 1990 n. 86 si diede espressamente carico di mettere ordine nella
materia con gli art. 17 e 18 con i quali si fornivano nuove definizioni legislative, mantenendosi le qualifiche
soggettive di pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio. All’art. 17, che sostituisce l’art. 357, si
stabilisce che: “Agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica
funzione legislativa, amministrativa o giudiziaria. Agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa
disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi, e caratterizzata dalla formazione e dalla
manifestazione della volontà della pubblica Amministrazione e dal suo svolgersi per mezzo di poteri
autoritativi o certificativi”. L’art. 18, costituente il nuovo art. 358 del codice, precisa: “Agli effetti della
legge penale, sono incaricati di pubblico servizio coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico
servizio. Per pubblico servizio deve intendersi un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica
funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima, e con esclusione dello
svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale”.
PUBBLICI UFFICIALI E INCARICATI DI PUBBLICO SERVIZIO
Le due categorie non esigono quel rapporto che sorge quando una persona mette volontariamente la
propria attività a servizio di altri a fine professionale, e cioè in modo continuativo, contro una determinata
retribuzione. In ogni caso è indifferente che l’esercizio della funzione o del servizio sia permanente o
temporaneo, e per i privati è pure indifferente che l’esercizio stesso sia già gratuito o retribuito, volontario
od obbligatorio. La distinzione tra le due categorie nel sistema del codice dipende dalla distinzione tra
pubblica funzione e pubblico servizio. Le originarie formule del codice Rocco non rispondevano
all’interrogativo sul modo in cui si distinguevano tale mansioni e nella Relazione Ministeriale sul progetto si
afferma che ciò era stato fatto mediatamente, perché si riteneva che i concetti di pubblica funzione e di
pubblico servizio non potessero essere diversi da quelli forniti dalla dottrina, e, quindi, la risoluzione dei
problemi relativi esulasse dal compito della legiferazione penale, dovendo ritenersi riservata alla scienza del
diritto penale. Senza dire che questa distinzione, di particolare importanza per il penalista risulta esserlo
assai meno per i cultori del diritto amministrativo.
A nostro modo di vedere, le difficoltà che si presentano per tracciare una linea netta di demarcazione tra la
pubblica funzione e il servizio pubblico e, quindi, tra la categoria del pubblico ufficiale e quella
dell’incaricato di pubblico servizio, non sono superabili. La ragione di ciò deve ravvisarsi nel fatto che si
tratta sempre di mansioni pubbliche, le quali assumo le forme più diverse con gradazioni innumerevoli. Le
difficoltà sono accresciute dal fatto che la distinzione delle mansioni, specie ai fini penali, è stata adottata in
vista di due finalità diverse: da un lato per stabilire a carico dei pubblici ufficiali una maggiore
responsabilità nel caso di violazione dei rispettivi doveri; dall’altro per assicurare ad essi una maggiore
protezione di fronte alle possibili offese degli estranei. Accanto alla larga classe delle persone che formano o
concorrono a formare la volontà dell’ente pubblico o in qualsiasi modo lo impersonano di fronte agli
estranei, la qualifica di pubblico ufficiale, come già da noi sostenuto in passato, va riconosciuta a due altre
categorie di individui:
Coloro che sono muniti di poteri autoritari, e particolarmente delle facoltà di procedere all’arresto o di
contestare contravvenzioni (capitani di nave);
Coloro che sono muniti di poteri di certificazione, vale a dire le persone che hanno la facoltà di
rilasciare documenti che nel nostro ordinamento giuridico hanno efficacia probatoria (notai).
Il nuovo testo dell’art. 357 ha ciò riconosciuto quando ha accennato a quella caratteristica della funzione
amministrativa che è il suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi. Tutte le altre persone
investite di mansioni di interesse pubblico che non appartengano alla categoria degli esercenti un servizio di
pubblica necessità, a nostro parere vanno considerate come incaricati di un pubblico servizio.
PERSONE ESERCENTI UN SERVIZIO DI PUBBLICA NECESSITA’
Come risulta dal testo dell’art. 359 che sopra abbiamo riferito, questa categoria comprende due gruppi di
persone. Il primo è costituito dai privati che esercitano professioni il cui esercizio non è consentito senza
una speciale abilitazione da parte dello Stato, sempre che dell’opera di essi il pubblico sia per legge
obbligato a valersi. Le principali professioni per le quali la legge prescrive una speciale abilitazione sono
quelle di avvocato e procuratore, notaio, medico, chirurgo, veterinario, chimico, farmacista, levatrice,
ingegnere, architetto, agronomo, perito industriale o agrario. Il secondo gruppo di esercenti un servizio di
pubblica necessità è costituito dai privati che, senza esercitare una pubblica funzione né prestare un
pubblico servizio, adempiono un servizio dichiarato di pubblica necessità mediante un atto della Pubblica
Amministrazione.
8 RAPPORTO TRA LA QUALIFICA E IL FATTO DELITTUOSO
La speciale qualifica di regola non è sufficiente; occorre anche un particolare rapporto tra il fatto criminoso
e le attività che giustificano la qualifica stessa. Talora si richiede la contestualità del fatto con l’esercizio
delle funzioni o dei servizi, e cioè che il fatto sia commesso durante questo servizio. In altri casi l’esercizio
delle mansioni figura come elemento determinate. Sono le ipotesi nelle quali il fatto deve verificarsi a causa
delle funzioni o dei servizi. In altri si postula un nesso finalistico tra il fatto e le mansioni. Così nel reato di
cui all’art. 318 si esige che il pubblico ufficiale si lasci corrompere per compiere un atto del suo ufficio.
Importanti sono gli effetti della cessazione della speciale qualifica. Il codice nell’art. 360 stabilisce a
proposito: “Quando la legge considera la qualità di pubblico ufficiale, o di incaricato di pubblico servizio, o
di esercente un servizio di pubblica necessità, come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di
un reato, la cessazione di tale qualità, nel momento in cui il reato è commesso, non esclude l’esistenza di
questo né la circostanze aggravante, se il fatto si riferisce all’ufficio o al servizio esercitato”.
DELITTI DEI PUBBLICI UFFICIALI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
PECULATO
Il peculato, inteso in senso lato, in sostanza non è altro che un’appropriazione indebita commessa da un
pubblico funzionario. Questo tipo di delitto, era spezzato nel nostro codice in tre distinte figure autonome: il
peculato, la malversazione a danno dei privati e il peculato mediante profitto dell’errore altrui. Dopo la
riforma con la legge 26 aprile 1990 n. 86, abrogato il delitto di malversazione, residuano le due figure del
peculato e del peculato mediante profitto dell’errore altrui. Ad esse il legislatore della riforma a ritenuto
opportuno di introdurre la previsione espressa del peculato d’uso.
PECULATO (art. 314). Consiste nel fatto del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che,
“avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra
cosa mobile altrui, se ne appropria”. Presupposto del delitto è che il pubblico ufficiale o l’incaricato di un
pubblico servizio abbia, per ragione di ufficio, il possesso o comunque la disponibilità della cosa o del
denaro. Il possesso, come inteso dalla norma, consiste nella possibilità di disporre, al di fuori della sfera
altrui di vigilanza, della cosa sia in virtù di una situazione di fatto, sia in conseguenza della funzione
giuridica esplicata dall’agente nell’ambito della Pubblica Amministrazione. Incertezze sorgono anche nel
percepire quando si abbia la ragion d’ufficio come titolo di possesso. In senso stretto, questa espressione
esige che tra la funzione pubblica ed il possesso della cosa o del denaro intercorra un rapporto di
dipendenza immediata. Intesa invece in senso ampio, la ragione d’ufficio diventa equivalente di occasione,
in modo da comprendere ogni possesso che comunque tragga origine dalla funzione pubblica esercitata dal
soggetto. La cosa, o il denaro devono essere altrui cioè possono appartenere alla Pubblica Amministrazione,
o a qualsiasi altro soggetto privato. La giurisprudenza è da tempo orientata nel senso di una maggiore
estensione del concetto di appartenenza. In particolare, fin dalla sentenza 9 novembre del 1948 la
Cassazione ha affermato che nell’ambito del diritto pubblico il concetto anzidetto comprende non solo i
poteri che derivano da rapporti di natura patrimoniale, ma anche da rapporti di altre indole che, comunque,
importino la facoltà di disporre della cosa per destinarla al conseguimento di particolari scopi. Il vincolo,
quindi, può essere puramente personale.
Il fatto materiale consiste nell’appropriarsi, il denaro o la cosa mobile altrui posseduti per ragione di ufficio
o servizio. Appropriarsi di una cosa significa esercitare su di essa atti di dominio incompatibili con il titolo
che ne giustifica il possesso. Il reato si consuma nel momento in cui si realizzano gli atti di appropriazione.
Trattandosi però di c.d. “vuoto di cassa”, la consumazione non si verifica prima della messa in mora o della
scadenza del termine prescritto per il versamento da parte del pubblico funzionario. In tali casi però, se non
si perfeziona il delitto in esame, potrà sussistere il peculato d’uso. L’elemento soggettivo consiste nella
coscienza e volontà di porre in essere un comportamento di appropriazione nel significato sopra descritto, al
fine di ricavarne un profitto per sé o per altri.
PECULATO D’USO (art. 314 comma 2). Ai sensi di tale articolo “Si applica la pena della reclusione da sei
mesi a tre anni quando il colpevole ha agito col solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa,
dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita”. Trattasi per certo di reato autonomo non
circostanza attenuante dell’ipotesi di cui al primo comma. La cosa usata deve essere di natura tale da non
perdere consistenza economica per effetto dell’uso e il precetto esprime un principio già evidenziato dalla
giurisprudenza. La durata maggiore o minore dell’uso può incidere soltanto sulla pena, non sull’esistenza
del reato. Ma i limiti dell’uso momentaneo restano affidati di volta in volta all’equo apprezzamento del
giudice. Pur se il tentativo sarà di difficilmente ipotizzabile, non vi sono ragioni per escluderne la possibilità.
Il dolo consiste nella volontà di far uso della cosa, qualificato dallo scopo che tale uso è soltanto
momentaneo.
PECULATO MEDIANTE PROFITTO DELL’ERRORE ALTRUI (art. 316). Concrea questo reato il fatto del
pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, il quale “nell’esercizio delle funzioni o del servizio,
giovandosi dell’errore altrui, riceve o ritiene indebitamente per sé o per un terzo, denaro o altra utilità”. È
dovere del pubblico funzionario non accettare cose che gli siano consegnate per errore e restituirle subito
dopo essersi accorto dell’errore stesso, se le ha ricevute in buona fede. La violazione di questo obbligo
costituisce l’essenza del reato. L’ipotesi in esame costituisce una forma attenuata del peculato. In ordine 9
all’elemento oggettivo si osserva che ricevere significa accettare una cosa, mentre ritenere importa la non
restituzione della cosa ricevuta. La indebita ritenzione si ha anche nella mancata consegna di ciò che, per
errore, non si sia richiesto nell’atto di una riscossione. Il dolo esige la consapevolezza dell’errore altrui e la
volontà di ricevere o di ritenere indebitamente dopo la scoperta dell’errore.
MALVERSAZIONE A DANNO DEI PRIVATI (art. 315 abrogato). L’art. 315 chiamava a rispondere di
questo delitto “il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che si appropria o, comunque,
distrae, a profitto proprio o di un terzo, denaro o qualsiasi cosa mobile non appartenente alla Pubblica
Amministrazione, di cui egli ha il possesso per ragione del suo ufficio o servizio”. Il delitto è stato
espressamente abrogato dall’art. 20 della legge 26 aprile 1990 n. 86.
MALVERSAZIONE A DANNO DELLO STATO
L’art. 316 bis, introdotto nel codice dall’art. 3 della legge 26 aprile 1990 n. 86, e modificato nel 1992,
contempla il fatto di “chiunque, estraneo alla Pubblica Amministrazione, avendo ottenuto dallo Stato o da
altro ente pubblico o dalle Comunità Europee contributi, sovvenzioni o finanziamenti destinati a favorire
iniziative dirette alla realizzazione di opere od allo svolgimento di attività di pubblico interesse, non li
destina alle predette finalità”. Con questo reato si è inteso tutelare l’interesse dello Stato e degli enti
pubblici minori a far sì che gli interventi economici di sostegno ad opere o attività di pubblico interesse non
siano messi nel nulla o indeboliti dall’inerzia dei beneficiari. Con la formula contributi, sovvenzioni o
finanziamenti si è voluta intendere ogni forma di intervento economico, così che devono ritenersi compresi
nella sfera di azione della norma anche i mutui agevolati cui accenna l’articolo 640 bis. Si è scritto che il
riferimento ad opere o attività di pubblico interesse è piuttosto vago e incerto. Ma a noi sembra che la
formula normativa abbia riguardo non tanto alla natura dell’opera o dell’attività in sé e per sé considerate,
quanto piuttosto allo scopo perseguito dall’ente erogante. La condotta si sostanzia nella mancata
destinazione dei benefici economici ottenuti. Trattandosi di comportamenti omissivi e non risultando fissato
un termine per la loro attuazione, sorgerà di frequente il problema del momento consumativo del reato. Se
il provvedimento che autorizza l’erogazione e l’atto che la rende operante, specificano sia l’opera sia il
termine massimo di adempimento, è a tale termine che bisognerà avere riguardo. In difetto e quando il
termine, se pur inespresso, non possa essere desunto interpretando i provvedimenti o le normative di
massima dell’ente pubblico erogante, il che dovrebbe avvenire assai di rado, dovrà il magistrato accertare
se il contributo non sia stato in concreto destinato ad opera diversa, a nulla rilevando che l’opera diversa
possa presentare profili di pubblico vantaggio. Quando, prima della scadenza del termine, risultino compiuti
atti idonei diretti in modo non equivoco ad escludere la destinazione del finanziamento per scopi di pubblica
utilità, sarà ravvisabile il tentativo. Se il finanziamento è stato ottenuto con artifizi o raggiri che hanno
indotto in errore l’ente pubblico e successivamente l’opera o l’attività non siano state compiute è ravvisabile
il concorse del delitto in esame con quello di cui all’art. 640 bis. L’art. 640 bis guarda al momento
dell’acquisto delle erogazioni e il delitto in esame al mancato adempimento del vincolo di destinazione.
Il dolo è generico e consiste nella coscienza e volontà dell’omessa destinazione dei benefici ottenuto
dall’ente pubblico alle opere o attività di pubblico interesse previste.
CONCUSSIONE
Per l’art. 317 del codice, così come sostituito dall’art. 4 della legge del 1990 n. 86, si ha concussione
allorché il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio abusando della sua qualità o dei suoi poteri,
costringe o induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o ad un terzo, denaro od altruità. Lo
scopo dell’incriminazione è duplice: da un lato tutelare l’interesse dell’Amministrazione alla imparzialità,
correttezza e buona reputazione dei pubblici funzionari; dall’altro, impedire che gli estranei subiscano delle
sopraffazioni e, in generale, danni per gli abusi di potere dei funzionari medesimi. Ci troviamo di fronte ad
un reato plurioffensivo. Soggetto attivo del reato era in passato soltanto il pubblico ufficiale e non
l’incaricato di pubblico servizio. La legge del ’90 ha provveduto a inserire questi tra i soggetti attivi del
reato. Soggetto passivo, oltre alla Pubblica Amministrazione, è la persona che subisce il danno particolare
derivante dall’azione criminosa. A costituire la fattispecie in oggettiva del delitto concorrono vari elementi
che è necessario analizzare separatamente. Anzitutto si esige che l’agente abusi della sua qualità o dei suoi
poteri. Si ha abuso dei poteri tutte le volte che questi sono esercitati fuori dei casi stabiliti dalla legge, dai
regolamenti e dalle istruzioni di servizio o senza le forme prescritte. Occorre tenere presente che si ha vi è
abuso di potere anche quando il funzionario fa uso di un potere che gli spetta e con le forme dovute, ma lo
adopera per conseguire un fine illecito. L’abuso delle qualità ricorre quando gli atti compiuti dal soggetto
non rientrano nella sfera della sua competenza funzionale o territoriale, ma egli fa valere la sua qualità di
pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio per conseguire il suo scopo illecito. L’abuso di cui si è
parlato deve avere per effetto il costringimento o l’induzione della vittima alla dazione o promessa a cui
tende il funzionario. A seconda che si verifichi l’uno o l’altra si parla in dottrina di concussione esplicita e di
concussione implicita. Costringere vuol dire esercitare con violenza o minaccia una pressione su una
persona. Il significato di induzione è assai ampio, comprendendo ogni comportamento che abbia per
risultato di determinare il paziente ad una data condotta. La concussione può essere realizzata anche
mediante omissione (inerzia) e persino col silenzio. Il costringimento o l’induzione deve avere per effetto
una dazione o una promessa indebita. Nel concetto di dazione, per ovvie ragioni, rientra anche la
10 ritenzione, come nel caso del pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità si faccia regalare da un
privato un oggetto che gli era stato consegnato semplicemente in visione o in prova. La promessa è
l’impegno di eseguire una prestazione futura. Oggetto della dazione o promessa può essere tanto il denaro
quanto altra utilità. La prestazione è indebita quando, in tutto o in parte, non è dovuta, per legge o per
consuetudine, né al pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, né alla Pubblica Amministrazione. La
concussione sussiste anche nel caso in cui il pubblico ufficiale abusi dei suoi poteri per costringere o indurre
taluno a corrispondergli una somma che gli è dovuta come privato, perché egli per soddisfare il suo credito
doveva avvalersi della sua posizione. Per l’incontro il delitto de quo deve escludersi nel caso che la
prestazione sia dovuta alla Pubblica Amministrazione. Il funzionario che la ottenga con abuso dei poteri,
risponderà di peculato se la converte in proprio profitto, mentre se nessun vantaggio personale trae dalla
sua azione, incorrerà in sanzioni disciplinari, non essendo possibile ravvisare nel fatto gli estremi del reato
di cui all’art. 323 (abuso d’ufficio), specie quando esso è dovuto ad eccesso di zelo. Il reato si consuma nel
momento in cui ha luogo la dazione o la promessa. In ordine all’elemento psicologico, il dolo deve investire
tutti gli elementi del reato e, quindi, esige anche la conoscenza del carattere indebito della dazione o
promessa.
LA CORRUZIONE IN GENERALE
La corruzione consiste in un accordo tra un pubblico funzionario e un privato, in forza del quale il primo
accetta dal secondo, per un atto relativo all’esercizio delle sue attribuzioni, un compenso che non gli è
dovuto. Lo Stato lo vieta, assoggettando a pena ambedue le parti del reato. La dottrina prevalente ravvisa
nel fatto due reati distinti: l’uno commesso dal funzionario e l’altro commesso dal privato. Il primo viene
denominato corruzione passiva e il secondo corruzione attiva. Tale concezione non tiene però conto della
compartecipazione che dicesi concorso necessario e che è caratterizzata dal fatto che una pluralità di agenti
è richiesta come elemento essenziale della fattispecie criminosa. Riteniamo, pertanto, che la distinzione
dottrinaria tra corruzione passiva e corruzione attiva non possa affermare l’esistenza di due distinti reati,
ma semplicemente di due aspetti di un fatto criminoso unitario.
Il codice configura due distinte figure di corruzione. La prima avente ad oggetto un atto d’ufficio, è
generalmente denominata corruzione impropria; la seconda, che ha per oggetto un atto contrario ai doveri
d’ufficio e che, perciò, è evidentemente più grave, viene detta corruzione propria. Nell’ambito di queste due
forme di corruzione, il codice fa una ulteriore distinzione, la cui necessità è piuttosto discutibile, delineando
le figure della corruzione antecedente e susseguente. La prima si ha quando il mercimonio si riferisce ad un
atto futuro del funzionario; l’altra allorché il mercimonio riguarda un atto già compiuto. L’elemento
differenziante tra la corruzione e la concussione è costituito dal fatto che nelle prima l’iniziativa è presa dal
privato, mentre nella seconda dal pubblico funzionario. Questo criterio distintivo è stato giustamente
criticato, perché la concussione può essere realizzata anche senza una vera e propria richiesta del
funzionario, come nel caso che costui, con un comportamento volutamente ostruzionistico, spinga il privato
a corrispondergli una somma. In base a questi rilievi, la dottrina e la giurisprudenza si sono orientate per
un diverso criterio, individuando l’essenza della corruzione nel libero accordo tra il pubblico funzionario e il
privato, i quali pongono in essere un vero e proprio pactum sceleris. Quindi la corruzione è caratterizzata da
una posizione di parità tra le parti, mentre la concussione è contraddistinta dalla superiorità del funzionario,
alla quale corrisponde di regola nel privato una situazione di metus. Con la legge 1990 n. 86, le fattispecie
di corruzione sono state in parte riscritte, ma la riforma è stata assai meno incisiva del previsto, tanto la
dottrina non vi ha ravvisato modificazioni di rilievo. In sintesi tali modifiche si concretano:
Nella previsione di una figura di istigazione commessa dal pubblico ufficiale o incaricato di pubblico
servizio con pene uguali a quelle comminate per l’istigazione commessa dal privato (art. 322);
Nella previsione della corruzione per atti giudiziari (art. 319 ter), con pena accresciuta;
Nell’equiparazione, dal punto di vista sanzionatorio, della corruzione propria antecedente a quella
susseguente (art. 319);
Nell’inserimento in un distinto articolo (art. 319 bis) delle circostanze aggravanti per la corruzione
propria;
Nel richiedere un minimo di pena detentiva di sei mesi di reclusione per la corruzione impropria (art.
318);
Nell’eliminare tutte le previsioni di pena pecuniaria.
LE VARIE FIGURE DI CORRUZIONE
CORRUZIONE IMPROPRIA. Risulta dagli art. 318, 320 e 321. Il primo articolo prevede due ipotesi:
Il fatto del pubblico ufficiale che, per compiere un atto del suo ufficio, riceve, per sé o per un terzo, in
1. denaro o altra utilità, una retribuzione che non gli è dovuta, o ne accetta la promessa (corruzione
impropria antecedente);
Il fatto del pubblico ufficiale che riceve la retribuzione per un atto d’ufficio da lui già compiuto
2. (corruzione impropria susseguente).
L’art. 320, d’altro canto, stabilisce al primo comma che le disposizioni dell’art. 318 si applicano anche se il
fatto è commesso da persona incaricata di un pubblico servizio, qualora rivesta la qualità di pubblico
impiegato. 11
L’art. 321, infine, dispone che le pene stabilite nel primo comma del predetto art. 318 si applicano anche
a chi dà o promette al pubblico ufficiale o all’incaricato di un pubblico servizio il denaro o altre utilità. Il
privato non è punibile nella corruzione susseguente, e cioè allorché dà o promette al funzionario denaro o
altra utilità per un atto d’ufficio che è già stato compiuto. L’atto d’ufficio, che deve essere oggetto
dell’accordo criminoso, è l’atto legittimo compiuto nell’esercizio della pubblica mansione è che perciò rientra
nella sfera di competenza del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio. L’accordo dei soggetti
deve riguardare, direttamente o indirettamente, uno o più atti determinati. Il compenso che il privato dà al
funzionario è indicato dalla legge come retribuzione. Questa consiste in ogni prestazione in denaro od altra
utilità che abbia il carattere di corrispettivo per l’atto compiuto dal funzionario. Si richiede che la
retribuzione non sia dovuta, il che si verifica non solo quando è espressamente vietata dall’ordinamento
giuridico, ma anche quando non è espressamente consentita dal medesimo. Si domanda se sia lecita la
retribuzione per servizi straordinari. La legittimazione di una tale retribuzione può ammettersi a due
condizioni:
Che il funzionario non sia obbligato a prestare la prestazione a titolo gratuito o a tariffa fissa;
Che la prestazione non cagioni l’omissione o il ritardo di altri atti d’ufficio.
Anche verificandosi tali condizioni, però, la retribuzione deve ritenersi illecita se l’accettazione di essa
nuoce in modo sensibile al prestigio del funzionario. Il delitto si consuma nel momento in cui il funzionario
accetta la retribuzione o la promessa di retribuzione. Il dolo del funzionario è costituito dalla coscienza e
volontà di ricevere, per sé o per altri, una retribuzione non dovuta, con la consapevolezza che essa viene
prestata per ottenere il compimento di un atto d’ufficio e con la consapevolezza che la retribuzione è data
per un atto d’ufficio già compiuto.
CORRUZIONE PROPRIA. Vi si riferiscono gli art. 319, 320 e 321. L’art. 319, analogamente all’articolo
precedente, contempla il fatto del pubblico ufficiale “che, per omettere o ritardare o per aver omesso o
ritardato un atto del suo ufficio, riceve per sé o per il terzo, denaro o altra utilità, o ne accetta la
promessa”. Ai sensi dell’articolo 320 le disposizioni ora riportate “si applicano anche all’incaricato di un
pubblico servizio”. L’art. 321, da ultimo, sancisce l’estensione delle pene stabilite negli art. 319 e 320 al
corruttore. Risulta da queste norme che del reato di corruzione propria possono rendersi responsabili tutti
indistintamente gli incaricati di un pubblico servizio, anche se non rivestano la qualità di pubblici impiegati,
e che il privato è punito non solo nel caso di corruzione antecedente, ma anche in quello di corruzione
susseguente. Affinché ricorra il delitto di corruzione propria è necessario che il compenso sia dato o
promesso per uno di questi due scopi:
Omettere o ritardare un atto d’ufficio;
Compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio.
L’art. 319 bis comprende due aggravanti speciali in relazione al fatto di cui all’art. 319 e cioè alla corruzione
propria. In antecedenza le aggravanti si applicavano soltanto al pubblico ufficiale e non all’incaricato di
pubblico servizio e si riferivano anche all’ipotesi di corruzione in atti giudiziari. Ora, dopo la legge n.86 del
’90, quest’ultima ipotesi è stata prevista in autonomo articolo (319 ter) ed è sorto il problema se le
aggravanti residue dell’art. 319 bis siano oggi estese all’incaricato di pubblico servizio. A favore della
soluzione positiva si osserva che il nuovo articolo contempla un aumento di pena per il fatto di cui all’art.
319 e questo, come emerge dall’art. 320 è riferibile altresì all’incaricato di pubblico servizio. La soluzione è
ragionevole anche se, almeno per quanto attiene al caso di corruzione per la stipulazione dei contratti,
l’ultima parte dell’art. 319 bis accenna soltanto al pubblico ufficiale.
CORRUZIONE IN ATTI GIUDIZIARI. L’art. 319 ter, inserito nel codice dall’art. 9 della legge n. 86 del ’90,
reca: “Se i fatti indicati negli articoli 318 e 319 sono commessi per favorire o danneggiare una parte in un
processo civile, penale o amministrativo, si applica la pena della reclusione da tre a otto anni. Se dal fatto
deriva l’ingiusta condanna di taluno alla reclusione non superiore a cinque anni, la pena è della reclusione
da quattro a dodici anni; se deriva l’ingiusta condanna alla reclusione superiore a cinque anni o
all’ergastolo, la pena è della reclusione da sei a venti anni.
ISTIGAZIONE ALLA CORRUZIONE. L’art. 322, come sostituito dall’art. 7 n. 181 del ’92, prevede le
seguenti ipotesi:
L’offerta o la promessa di denaro o altra utilità non dovuti, ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di
pubblico servizio che rivesta la qualità di pubblico impiegato, per indurlo a compiere un atto dell’ufficio o
servizio, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata (istigazione alla corruzione impropria);
L’offerta o la promessa fatte per indurre un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio ad
omettere o ritardare un atto dell’ufficio o servizio, ovvero a fare un atto contrario ai propri doveri,
qualora l’offerta o la promessa non sia accettata (istigazione alla corruzione propria);
La richiesta della promessa o dazione di denaro o altra utilità fatta da un privato per compiere un atto di
ufficio, e posta in essere dal pubblico ufficiale o da incaricato di pubblico servizio che rivesta la qualità di
impiegato;
La analoga richiesta, da parte di un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio per omettere o
ritardare un atto di ufficio, ovvero per compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio.
ABUSI D’UFFICIO
1. L'EVOLUZIONE DELLA NORMA
12 Il codice Rocco prevedeva originariamente, sotto la dizione di "abuso d'ufficio in casi non previsti dalla
legge", la punibilità del pubblico ufficiale che, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, commette, per
recare ad altri un vantaggio o per procurargli un profitto, qualsiasi fatto non previsto come reato da una
particolare disposizione di legge. La norma, rimasta in vigore fino al 1990, aveva dunque natura residuale,
escludeva dalla condotta punibile le attività compiute dall'incaricato di pubblico servizio e non riguardava le
ipotesi in cui il pubblico ufficiale avesse agito per un interesse personale: in tali casi infatti la condotta era
sanzionata dall'art. 324 c.p. (interesse privato in atti d'ufficio). Il reato era connotato dal dolo specifico
consistente nell'intenzione di arrecare ad altri un danno o un vantaggio, senza che si richiedesse che tale
vantaggio o tale danno fossero ingiusti. Ciò comportava ad esempio che un Sindaco potesse essere ritenuto
responsabile del reato per aver rilasciato una concessione edilizia in assenza dei prescritti pareri tecnici
anche se quella concessione avrebbe potuto comunque essere rilasciata essendo il progetto conforme agli
strumenti urbanistici, e si perseguì (fin quando la Cassazione non escluse la sussistenza del reato) un
funzionario che aveva concesso dei sussidi a persone effettivamente bisognose di assistenza ma che non
avevano presentato domanda come invece stabilito. La formulazione della norma era oggetto di aspre
critiche per il suo contenuto estremamente indeterminato che in definitiva consentiva una forte ingerenza
dell'autorità giudiziaria nelle scelte della P.A. Nel 1990 si arrivò, dopo un lungo e travagliato dibattito, alla
organica modifica dei delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A. riformulando così anche l'art. 323 c.p. la cui
rubrica divenne semplicemente "Abuso d'ufficio". La riforma del reato avrebbe dovuto mirare a dare
concretezza alla condotta punita e a delineare più efficacemente le ipotesi rientranti nella previsione
normativa, ma di fatto ciò non avvenne. Anzi, in definitiva, ci si ritrovò con una disposizione di portata per
certi versi più ampia della precedente, tanto che da più parti si sottolineò come la riforma dell'abuso
d'ufficio operata nel 1990 avesse fallito il suo scopo.
La riformulazione del reato comprendeva tra i soggetti attivi del reato anche gli incaricati di pubblico
servizio, e sostituiva all'espressione "abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni" quella, assolutamente
tautologica, di "abusa del suo ufficio", concetto che innanzitutto "comprende una gamma di comportamenti
molto più vasta di quella compresa nella precedente previsione normativa, giacché riferisce la condotta
dell'agente a qualsiasi abuso della pubblica funzione, e dunque a qualsiasi strumentalizzazione dell'ufficio,
senza necessità che l'abuso si concretizzi nel porre in essere atti legislativi, giurisdizionali e amministrativi"
(Sez. I, sent. n. 5340 del 26 maggio 1993 ). Inoltre il reato ricomprendeva "tutti quei comportamenti che
concretizzano un uso deviato o distorto dei poteri funzionali (o un cattivo esercizio dei compiti inerenti un
pubblico servizio) e che di conseguenza mettono a repentaglio il buon funzionamento o l'imparzialità
dell'azione amministrativa, nel senso che l'abuso deve sfociare in una strumentalizzazione oggettiva
dell'ufficio tale da frustrare o alterare le finalità istituzionali perseguite." (Sez. 5, sent. n. 7764 del 18
agosto 1993). L'abuso insomma veniva a configurarsi come un esercizio illegittimo del potere pubblico:
commetteva abuso d'ufficio il pubblico funzionario che non rispettasse le regole che disciplinano il suo
ufficio - regole che sono improntate ai principi di legalità, di buon andamento e imparzialità della P.A. - e
che, conseguentemente, esercitasse il potere connesso alla funzione per un fine improprio rispetto alla
funzione medesima, in modo da far conseguire all'atto uno scopo estraneo rispetto a quello previsto dalla
legge .Sulla base dell'elaborazione giurisprudenziale si affermava ancora che, allorquando l'abuso si
concretizzava in un atto amministrativo, gli eventuali vizi di violazione di legge o di incompetenza rilevati
erano da considerare soltanto sintomi della condotta di abuso, che era sempre rappresentata dall'eccesso di
potere, ovvero dall'esercizio del potere per finalità diverse da quelle funzionali all'esercizio del potere.
Infatti il bene giuridico protetto era da identificare nel buon andamento e nell'imparzialità dell'azione
amministrativa, e l'attentato a tale interesse non poteva che realizzarsi con le modalità di un abuso
funzionale (Cass. Sez. 6, sent. n. 13321 dell'11 ottobre 1990).
Tale amplissima portata della norma doveva ricevere, nell'intenzione del legislatore dell'epoca, una
significativa specificazione nell'elemento soggettivo del reato, costruito sempre come dolo specifico ma
consistente nell'arrecare un danno o un vantaggio ingiusti. Si ritenne cioè di limitare interpretazioni
estensive della norma introducendo il requisito dell'ingiustizia del danno o del vantaggio che avrebbe
dovuto segnare il confine tra atto illegittimo e reato. Tale discrimine si rivelò però eccessivamente
evanescente anche perché, come acutamente osservato (Catalano), "la prova dell'elemento psicologico del
reato, proprio perché si tratta di elemento interno al soggetto agente, è necessariamente affidata ad un
processo induttivo". Ed infatti benché in varie pronunce la Cassazione ebbe a precisare che il reato si
configurava solo in presenza di una doppia ingiustizia, nel senso che l'ingiustizia del vantaggio o del danno
doveva essere tale a prescindere dall'abuso perpetrato, nell'esperienza giurisprudenziale "il dolo veniva per
lo più desunto dalla illegittimità dell'atto amministrativo, il vantaggio o il danno venivano considerati
ingiusti semplicemente perché derivavano da un atto adottato per finalità diverse da quelle che avrebbero
dovuto ispirarlo" (Catalano). Così da un lato la giustizia penale veniva ad avere un sindacato amplissimo
sull'azione della P.A. che finiva per sovrapporsi al controllo amministrativo, dall'altro la denuncia alla
Procura diveniva un modo più rapido per impugnare un provvedimento rispetto al ricorso alla giustizia
amministrativa. A ciò si aggiunga che l'elevato numero di episodi denunciati e la conseguente iscrizione nel
registro degli indagati degli amministratori pubblici, spesso ampiamente pubblicizzata sugli organi di
stampa, aveva prodotto quello che è stato definito "il terrore della firma", paralizzando di fatto l'azione
amministrativa o inducendo gli amministratori a richiedere - con grande dispendio di energie e grande
13
dilazione dei tempi - pareri preventivi agli organi di controllo al solo fine di cautelarsi dalla temuta
informazione di garanzia. Infine, alla considerazione che l'indeterminatezza della norma metteva gli
amministratori in situazione di grande incertezza circa le condotte che potevano loro essere penalmente
iscritte, faceva riscontro l'evidenza dell'altissimo numero di assoluzioni dispensate nei processi, derivanti
soprattutto dalla difficoltà di dimostrare la sussistenza dell'elemento psicologico del reato.
2. LA NUOVA FORMULAZIONE
La finalità che ha ispirato la nuova formulazione dell'abuso d'ufficio è stata indubbiamente quella di
riportare la condotta punibile entro confini ben limitati, e di garantire ai pubblici amministratori che
agissero nel rispetto delle norme la certezza di non incorrere in sanzioni penali. L'attuale formulazione
sancisce la responsabilità penale per "il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello
svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero
omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi
prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri
un danno ingiusto". È stato osservato che nella ridefinizione della norma si è puntato "ad abbandonare
qualsiasi riferimento, espresso o tacito, all'eccesso di potere... limitando la condotta di abuso alla sola
violazione di norme o alla omessa astensione nei casi prescritti" (Della Monica). Ed in effetti non vi è dubbio
che gran parte del dibattito parlamentare è stato incentrato sulla scelta di escludere, dalle condotte che
possono dar luogo all'ipotesi di reato, l'adozione di un atto viziato esclusivamente da eccesso di potere, i cui
confini sono molto più labili rispetto agli altri vizi amministrativi. Dunque - secondo i primi commenti al
nuovo reato - se il funzionario non ha violato una espressa e specifica previsione normativa, ovvero
l'obbligo di astensione, non può configurarsi il reato. Anche in presenza di tale violazione poi il reato
sussisterà solo ed unicamente nel caso in cui al provvedimento illegittimo sia conseguito un risultato
ingiusto, ed infatti il reato è ora costruito come un reato di evento che si consuma soltanto in presenza
della realizzazione del risultato perseguito. Ma va subito osservato che se il fine perseguito dal legislatore
era appunto quello di escludere dalle condotte punibili gli atti viziati esclusivamente da eccesso di potere, la
formulazione della norma è, a dir poco, equivoca: l'eccesso di potere è comunque un vizio di legittimità e,
come tale, comporta necessariamente l'inosservanza di leggi. Ed infatti è indubitabile che tra le leggi che
devono regolare la condotta dei pubblici funzionari debba ricomprendersi il precetto costituzionale dell'art.
97 Cost., che rappresenta anzi la costante linea di comportamento degli amministratori pubblici. In tale
ottica tornerebbe ad avere autonoma rilevanza, allora, il vizio di eccesso di potere e potrebbe configurarsi
l'abuso tutte le volte in cui il funzionario facesse un uso deviato o distorto dei poteri funzionali e dunque
pregiudicasse l'imparzialità dell'azione amministrativa. A questa tesi si potrebbe obiettare che tale
argomentazione non terrebbe conto della ratio sottesa all'intervento legislativo, ma va pure precisato che in
sede di dibattito parlamentare vennero scartate altre scelte che avrebbero più esplicitamente estromesso il
vizio di eccesso di potere dalle modalità esecutive della condotta. E così venne ad esempio scartata la
proposta dell'on. Marotta di mantenere il testo approvato dalla Commissione Giustizia del Senato, che
menzionava accanto alla violazione di legge anche l'incompetenza, per significare che inclusio unius est
exclusio alterius, unica dizione che avrebbe chiarito l'intento di non voler più attribuire una rilevanza
autonoma all'eccesso di potere.
È stato peraltro osservato (Della Monica) che "il riferimento alla violazione di norme di leggi o di
regolamento lascia intendere chiaramente che il presupposto necessario dell'abuso è costituito
dall'inosservanza di previsioni specifiche durante il processo di formazione del provvedimento" e non dal
generico obbligo di perseguire il buon andamento e l'imparzialità dell'azione amministrativa, e che "il
funzionario pubblico che agisce nel pieno rispetto delle regole deve avere la certezza di non incorrere in
responsabilità penali". Occorrerà naturalmente attendere l'evoluzione giurisprudenziale sull'argomento per
definire se la formulazione letterale della norma consenta di aderire alle finalità avute di mira dal
legislatore; resta comunque da osservare che se si aderirà a tale interpretazione molte condotte
oggettivamente gravi verranno a configurare al più un illecito disciplinare. E così soprattutto in presenza di
atti assolutamente discrezionali, quali ad esempio l'assegnazione di un appalto a trattativa privata, una
volta riscontrata l'inesistenza di violazioni specifiche (in quanto ad esempio sussisteva il requisito di
urgenza che ne legittimava l'adozione) non si configurerebbe alcuna ipotesi di reato a carico del funzionario
che effettui l'aggiudicazione ad una ditta palesemente inidonea e magari gestita da persona a lui legata da
vincoli di amicizia. Se questa sarà l'interpretazione della norma sfuggiranno quindi alla sanzione penale
tutti quei comportamenti formalmente legittimi, ma adottati unicamente per interessi di natura privata e
sovente altamente dannosi per l'amministrazione pubblica
È stato osservato (Chiavario, Padovani) che si è così creato un vuoto di tutela della collettività di fronte a
comportamenti anche altamente scorretti e si è sottolineato (Catalano) che sarebbe stato auspicabile
almeno accompagnare la modifica dell'abuso d'ufficio, ad una effettiva riforma dei criteri e dei sistemi di
controllo dell'attività amministrativa.
3. LE MODALITÀ DELLA CONDOTTA
Già sotto il vigore della precedente disposizione la Cassazione (Sez. VI, sent. n. 2733 del 4 marzo 1994 )
aveva più volte affermato che "la condotta di abuso d'ufficio... risulta compatibile con un comportamento
meramente omissivo del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio.". Ed anche nella nuova
formulazione non vi è dubbio che la condotta prevista dal reato può essere attuata anche mediante
14 omissione, sempreché l'atto che avrebbe dovuto essere emanato o il comportamento che avrebbe dovuto
essere tenuto siano dovuti, cosicché l'omissione o il ritardo abbiano comportato la violazione di una
disposizione di legge.
Del resto la violazione dell'obbligo di astensione, esplicitamente previsto dal nuovo testo, rappresenta una
modalità della condotta mediante omissione. Tanto premesso, va evidenziato il rapporto tra l'abuso d'ufficio
realizzatosi attraverso l'inerzia del pubblico funzionario in relazione ad un atto dovuto, e il delitto previsto
dall'art. 328 c.p. Sembra potersi affermare che quando l'omissione o il rifiuto di comportamenti dovuti sono
strumentalizzati dal funzionario per un fine privato e da essi deriva un danno o un vantaggio ingiusto, si
configurerà il delitto di abuso in atti d'ufficio (sempreché si tratti di vantaggio patrimoniale). Se invece
l'omissione è fine a se stessa, o se è finalizzata a procurare a terzi un vantaggio non patrimoniale, sarà
configurabile il delitto di cui all'art. 328 c.p. Va ancora sottolineato che, come già enunciato sotto il vigore
della precedente disciplina, anche le attività materiali possono essere forme di manifestazione della
condotta di abuso. Ed infatti "la nozione di atti di ufficio è più ampia di quella di provvedimento
amministrativo, poiché comprende in sé, a prescindere dalla forma, qualunque specie di atto posto in
essere dal pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni, sia esso interno o esterno, decisionale o anche
meramente consultivo, preparatorio e non vincolante, fino alle semplici operazioni, alle condotte materiali,
alle attività tecniche..." (Cass., Sez. 6, sent. n. 10896 del 12 novembre 1992). Anche nell'attuale
formulazione normativa, poiché l'abuso non deve necessariamente estrinsecarsi in un tipico atto
amministrativo, né avere contenuto necessariamente decisorio, esso può consistere in qualsiasi illegittima
attività del pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni dalla quale derivi un ingiusto danno o
vantaggio patrimoniale. La nuova formulazione ha innovato sul punto solo in quanto ha legato l'attività
abusiva allo svolgimento delle funzioni o del servizio. Infine l'abuso è configurabile - ora come pure nella
precedente formulazione - anche in relazione ad attività soggette al diritto privato nel cui svolgimento il
pubblico ufficiale persegue comunque finalità pubbliche che, secondo la legge, possono essere realizzate più
agevolmente mediante l'impiego di strumenti propri del diritto privato (Cass., Sez. 6, sent. n. 5086 del 7
maggio1991).
a) La violazione di norme di legge o di regolamento
Si è già detto che la riforma è stata ispirata alla necessità di limitare il potere di ingerenza del giudice
penale alle sole ipotesi di illiceità collegate a specifiche violazioni di legge e di regolamenti. La violazione di
legge, che è dunque elemento della condotta del reato, è la violazione delle disposizioni che regolano
l'esercizio dei pubblici poteri. Si richiamano le osservazioni sopra formulate circa la considerazione che
anche l'eccesso di potere non rappresenta altro che una violazione di norme giuridiche. Comunque sia, va
sottolineato che le prime interpretazioni della norma accolgono le finalità perseguite dal Parlamento
ancorando la sussistenza del reato a precisi vizi di legittimità, e cioè:
? alla violazione di leggi o regolamenti;
? all'incompetenza che è un'ipotesi di violazione di legge;
? alla violazione dell'obbligo di astensione.
Rimane comunque la difficoltà, per l'interprete, di individuare tutte le disposizioni vincolanti per la Pubblica
Amministrazione, mentre non sarà sempre agevole il reperimento della normativa che regola quel
determinato provvedimento sospettato di illiceità. Resta poi da chiarire cosa debba intendersi per "norme di
legge e di regolamento" ed in particolare se in esse debbano ricomprendersi anche le normative che
regolano dall'interno l'azione degli apparati amministrativi, quali le circolari o le norme tecniche. Viene al
riguardo rilevato che le norme interne non sono leggi in senso sostanziale, e quindi la loro trasgressione
non comporta violazione di legge, cosicché non configura il reato in questione (Russo). Peraltro va
considerato che quando l'Amministrazione Pubblica disciplina la sua attività con circolari o altre norme
interne, individua le modalità più opportune per conseguire l'interesse pubblico (Landi e Potenza) e quelle
norme sono per i pubblici funzionari vincolanti. Pertanto disattenderle senza motivazione comporterebbe
comunque la violazione del dovere di perseguire in modo ottimale l'interesse pubblico, obbligo sancito dal
precetto costituzionale. Anche in relazione a tale problematica dovranno attendersi le prime interpretazioni
giurisprudenziali.
b) La mancata astensione
La violazione dell'obbligo di astenersi non è altro che una violazione di legge: ed infatti è stato osservato
(Russo) come l'espressione "omettendo di astenersi" debba essere intesa come "omettendo di osservare
l'obbligo di astenersi" non essendovi posto per alcuna valutazione discrezionale sul se astenersi o meno, in
conformità del resto ai criteri che hanno ispirato questa riforma la cui finalità è stata quella di dare certezza
al pubblico funzionario di non incorrere in responsabilità penali nel momento in cui presta osservanza alla
legge. L'obbligo di astensione che può fondare la responsabilità per abuso d'ufficio deve essere ricercato
dunque nella legge, e così possono richiamarsi, a titolo di esempio, l'art. 279 del R.D. 383/1934 per gli
amministratori comunali e provinciali che devono astenersi dal prendere parte alle deliberazioni riguardanti
liti o contabilità loro proprie verso i corpi cui appartengono; come pure liti o contabilità dei loro parenti o
affini sino al quarto grado, o del coniuge, o di conferire impieghi ai medesimi. Il divieto di cui sopra importa
anche l'obbligo di allontanarsi dalla sala delle adunanze durante la trattazione di detti affari. Non dovrebbe
avere alcuna considerazione il possibile conflitto di interessi che potrà fondare al più una responsabilità
disciplinare ma non certo penale. Nell'attuale impostazione legislativa la mancata astensione, costituirà 15
abuso solo allorquando il soggetto abbia consapevolmente contravvenuto a tale obbligo ed abbia così
intenzionalmente procurato, attraverso l'attività dalla quale avrebbe dovuto astenersi, un danno o un
vantaggio patrimoniale ingiusto. Appare anche evidente che la sussistenza del reato può configurarsi anche
in presenza dell'omessa astensione nell'ambito di un organismo collegiale giacché "anche la partecipazione
ad un atto collegiale è esercizio dell'attività del pubblico ufficiale (Cass. Sez. 6, sent. n. 1467 dell'1 febbraio
1990) e anche se l'astensione era stata formalmente esercitata ma in unione ad concreta ingerenza
nell'adozione del provvedimento, sempreché dallo stesso derivi un danno o un vantaggio patrimoniale
ingiusto. Occorre infine rammentare che nel corso dei lavori preparatori è stato sottolineato come nei
provvedimenti a carattere generale (si pensi all'adozione di un piano regolatore), poiché i soggetti
interessati sono moltissimi, sussisterebbe spessissimo un dovere di astensione essendo ipotizzabile per
quasi tutti i consiglieri un interesse proprio o di un prossimo congiunto alla formulazione in un modo o in un
altro del provvedimento. Peraltro non occorre dimenticare che la mancata astensione deve essere
connotata, per configurare il reato, dal dolo intenzionale (v. oltre), cosicché sussisterà abuso solo se
l'amministratore omette intenzionalmente di astenersi per arrecare a se o ad un congiunto un vantaggio
patrimoniale ingiusto. Del resto la giurisprudenza amministrativa ha da tempo sottolineato che: "Il dovere
di astensione grava sul pubblico amministratore il quale debba prendere parte a deliberazioni concernenti
propri parenti, riguarda i provvedimenti suscettibili di incidere in via immediata sulle sfere soggettive dei
destinatari, non anche gli atti a contenuto generale o normativo che siano presupposti da quelli" (Consiglio
di Stato, Sez. VI, sent. n. 385 del 23 maggio 1986).
c) L'incompetenza
È largamente riconosciuto che l'incompetenza non rappresenta altro che una violazione di legge, ed in
particolare delle norme che disciplinano la ripartizione dei compiti e delle funzioni tra i vari organi
dell'Amministrazione. In sostanza allorquando un funzionario pubblico adotta un provvedimento che,
secondo i criteri di ripartizione della competenza, avrebbe dovuto essere adottato da un funzionario
appartenente ad un ufficio diverso (ad es. in tema di contratti in quanto il valore eccede i limiti della sua
delega), se lo sconfinamento è stato intenzionale ed è avvenuto al fine di arrecare un vantaggio o un danno
ingiusto, si configura l'ipotesi di reato. La giurisprudenza ha costantemente affermato che solo
l'incompetenza relativa può essere valutata penalmente, essendo il provvedimento emesso annullabile e
dunque produttivo di effetti. Al contrario l'incompetenza assoluta (provvedimento adottato in una materia
totalmente estranea alle attribuzioni del funzionario) comporta la nullità dell'atto che è dunque inidoneo a
procurare un vantaggio o un danno (Cass., sent del 10 marzo 1989, Papale) cosicché il reato non può
configurarsi per inidoneità della condotta. Tale argomentazione è tanto più valida in relazione alla nuova
formulazione del reato, ormai costruito come reato di evento, cosicché perché il reato sia consumato deve
effettivamente verificarsi il danno o il vantaggio patrimoniale ingiusto, mentre l'inidoneità della condotta
impedisce anche la configurazione del tentativo.
4. L'ELEMENTO SOGGETTIVO
Si è già detto che la riforma ha costruito il reato di abuso d'ufficio in reato di evento. Il raggiungimento di
un danno o di un vantaggio ingiusto non è più una finalità che l'agente deve perseguire perché sussista il
reato (dolo specifico) ma rappresenta l'evento della condotta, ovvero la conseguenza che deve derivare
dall'atto o dal comportamento adottato perché il reato possa definirsi consumato. Da ciò deriva che il dolo
del delitto in questione non è più specifico (nel quale, secondo la definizione di Antolisei "si esige che il
soggetto abbia agito per un fine particolare la cui realizzazione non è necessaria per l'esistenza del reato e
cioè per un fine che sta al di là e quindi fuori dal fatto che costituisce il reato") bensì generico in quanto è
sufficiente che sia voluto il fatto descritto dalla norma incriminatrice. Occorrerà dunque "riscontrare la
coscienza e volontà di arrecare un ingiusto vantaggio patrimoniale o un ingiusto danno attraverso lo
svolgimento illegittimo delle proprie funzioni o del servizio" (Ciccia). Va però sottolineato come la nuova
formulazione dell'abuso d'ufficio precisa che l'evento - ovvero il danno o il vantaggio ingiusto - deve essere
procurato intenzionalmente all'agente. L'introduzione di tale locuzione risponde ad una precisa esigenza,
cioè quella di escludere dalla fattispecie il cosiddetto dolo eventuale, ovvero sia di escludere i casi in cui
"l'agente non ha intenzionalmente voluto l'evento ma lo ha accettato come conseguenza eventuale della
propria condotta" (Mantovani). Conseguentemente l'adozione di un provvedimento in violazione di esplicite
disposizioni di legge potrà configurare il delitto di cui all'art. 323 c.p. solo se il funzionario abbia, in tal
modo voluto procurare un danno o un vantaggio ingiusto. Se invece il funzionario si è solo prospettato che
dall'adozione di tale provvedimento possa derivare, come conseguenza eventuale della condotta, un
risultato di danno o di vantaggio ingiusto, ma non ha comunque agito per realizzare tale scopo, il reato non
sussiste. È stato osservato (Macrillò) come l'introduzione del dolo intenzionale potrà esplicare effetti
concreti in tema di responsabilità penale conseguente all'adozione di deliberazioni da parte di organi
collegiali. In passato sono state infatti elevate incriminazioni, ad esempio, a tutti i componenti di un
Consiglio Comunale sul presupposto che tutti avevano comunque votato ed adottato, con coscienza e
volontà, la delibera concretizzante un uso strumentale del potere. Si è dunque osservato che
"l'intenzionalità oggi richiesta dalla norma incriminatrice esprime la necessità che la punizione per il fatto di
cui all'art. 323 c.p. derivi da un acclarato e provato grado di partecipazione dell'agente al reato,
commisurabile sia al quantum di volontà del fatto, sia al quantum di coscienza dello stesso"(Macrillò).
5. L'INGIUSTIZIA DEL VANTAGGIO PATRIMONIALE E DEL DANNO
16 Qualsiasi atto adottato dal funzionario contrario a norme giuridiche (violazione di legge o mancata
astensione) produce un risultato illegittimo. Tuttavia all'illegittimità dell'atto consegue anche l'illiceità
penale a carico del soggetto agente solo quando il risultato causato è anche ingiusto. Si afferma così la
distinzione tra illegittimità e illiceità penale: "accertata la violazione di legge sarà proprio l'esatta
considerazione del risultato raggiunto a sanzionare le modalità di intervento sanzionatorio, in sede penale,
amministrativa o disciplinare" (Della Monica). Dunque "se il risultato della condotta, sia pure adottata in
contrasto con disposizioni di legge, è oggettivamente lecito, la violazione di legge compiuta dal pubblico
ufficiale non rileverà penalmente, pur potendo l'atto rivestire i caratteri dell'illegittimità ed essere annullato
nelle sedi competenti" (Scarpetta). Nella precedente formulazione della norma, ove il danno e il vantaggio
ingiusto rappresentavano le connotazioni del dolo specifico, il vantaggio poteva essere patrimoniale o non
patrimoniale, configurandosi due autonome ipotesi di reato (cosiddetta condotta affaristica e cosiddetta
condotta favoritrice) sanzionate con pene ben diverse. Nell'attuale formulazione non configura più reato la
condotta illegittima che cagioni un ingiusto vantaggio non patrimoniale. Pertanto se dalla condotta o
dall'atto illegittimi deriva un evento di danno, la sanzione penale scatta sia che si tratti di un danno
economico sia che se si tratti di un danno non patrimoniale; se invece dall'attività illegittima deriva, per il
funzionario o per altri, un vantaggio ingiusto, il reato si configurerà solo se tale vantaggio ha un contenuto
patrimoniale. La scelta di escludere dalla sanzione penale "l'abuso non patrimoniale" discende, come
specificato nel corso dell'acceso dibattito parlamentare sul punto, dalla volontà di separare nettamente, e
disciplinare in modo difforme, gli abusi commessi per opprimere i cittadini (che cagionano cioè un danno
ingiusto) e che configurano comunque reato, da quelli commessi al fine di favorirli (che cagionano cioè un
vantaggio ingiusto), ritenuti meritevoli di una tutela attenuata. Tale conclusione non appare condivisibile se
si pensa ad un magistrato che disponga arbitrariamente l'archiviazione di un procedimento a carico di un
suo conoscente procurandogli così un vantaggio ingiusto: la condotta del magistrato non configura il delitto
di cui all'art. 323 c.p. non essendo stato procurato al terzo un vantaggio patrimoniale; non configura il
delitto di cui all'art.319-bis c.p. non essendosi il magistrato fatto dare alcun corrispettivo ma avendo agito
per amicizia. L'unica forma di tutela riconosciuta dall'ordinamento, pur in presenza di un fatto così grave, è
quella della responsabilità disciplinare. Dovendo ora definire il vantaggio patrimoniale - che può ricadere sia
sul pubblico funzionario che su terzi - basta riportarsi alle precedenti indicazioni della Cassazione a
proposito della condotta affaristica, e ribadire dunque che si ha vantaggio patrimoniale tutte le volte in cui
lo stesso è valutabile in termini economici: deriverà perciò indubbiamente un ingiusto vantaggio
patrimoniale da un concorso pubblico "truccato", da un'assunzione arbitraria, dal riconoscimento
dell'indennità di accompagnamento a chi non presenta effettive invalidità, dall'assegnazione di un
appartamento a canone calmierato a chi non ha i requisiti soggettivi richiesti e così via. Non cagionerà
invece alcun vantaggio patrimoniale, e non commetterà perciò reato, il professore che favorisca un
candidato all'esame di maturità o l'agente penitenziario che recapiti al detenuto lettere o pacchi al di fuori
dei casi previsti dall'ordinamento penitenziario. Il danno ingiusto - che riguarda unicamente i terzi -
consiste invece nel verificarsi di una situazione giuridica meno favorevole per il cittadino di quella che
sarebbe scaturita da una condotta legittima del funzionario. Infine è stato osservato (Cutrupi) che
l'aggravante prevista dall'ultimo comma - per il caso in cui il danno o il vantaggio procurato siano di
rilevante gravità - debba comunque riferirsi all'aspetto patrimoniale e dunque, per quanto riguarda l'evento
di danno, vada contestata solo in presenza di un danno patrimoniale di rilevante gravità. Ciò in quanto, in
relazione al danno non patrimoniale, non si ravviserebbero parametri oggettivi di giudizio.
6. CONSUMAZIONE DEL REATO E TENTATIVO
Si è già più volte ricordato che l'abuso d'ufficio è, nella nuova formulazione, un reato di evento e non più un
reato di mera condotta. Evidentemente ne deriva che la consumazione del reato si verifica solo quando
viene realizzato l'evento, e dunque quando il funzionario o altre persone ottengono l'ingiusto vantaggio
patrimoniale o allorquando a qualcuno venga arrecato danno ingiusto. Peraltro è stato osservato (Della
Monica) come la consumazione del reato non sia legata all'effettivo concretizzarsi del beneficio in termini
economici ma semplicemente al prodursi di effetti favorevoli nella sfera dell'interessato. Pertanto nel caso in
cui per giungere all'effettivo conseguimento del vantaggio sia necessaria un'attività da parte del
beneficiario, e costui non la ponga in essere, il reato sarà ugualmente consumato. E così se ad un appalto
truccato, concluso con l'aggiudicazione ad una determinata ditta, non segua poi l'esecuzione dei lavori, il
reato sarà ugualmente consumato nel momento in cui si producono effetti favorevoli nella sfera giuridica
dell'interessato (aggiudicazione dell'appalto) indipendentemente dalla effettiva concretizzazione in termini
economici di tali effetti favorevoli, e dunque anche se poi la ditta rinunci ad eseguire i lavori e non
percepisca perciò alcun compenso. In tale evenienza infatti il pubblico ufficiale ha comunque "procurato" un
vantaggio all'interessato, anche se poi costui non lo ha effettivamente "conseguito" (Della Monica).
Problema già posto sotto il vigore del precedente testo è quello della configurabilità del concorso nel reato
per il terzo destinatario del vantaggio. Ove infatti il funzionario attui la sua illecita condotta non per trarne
un utile personale, ma per favorire altri (ad es. un parente, un compagno di partito...), resta da stabilire se
anche tale terzo debba essere incriminato nel reato proprio. La giurisprudenza, in conformità con i principi
generali che regolano l'art. 110 c.p., ha ribadito che la semplice consapevolezza di ricevere un vantaggio
ingiusto dall'attività illegittima non è sufficiente a configurare il concorso, che richiede - da parte
dell'extraneus - almeno una condotta di istigazione o di agevolazione del pubblico ufficiale nella
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commissione del reato. Riguardo al concorso di persone nel reato deve anche osservarsi che, poiché
l'abuso può essere integrato sia dall'adozione provvedimenti sia attraverso attività materiali che comunque
costituiscono manifestazioni dell'attività dell'ufficio, il reato può essere commesso da più funzionari in
concorso tra loro: l'uno che esercita ad esempio pressioni sui componenti dell'organo collegiale, l'altro che è
così messo in condizioni di adottare il provvedimento formale (in questo senso Cass., Sez. 6, sent. n. 2797
del 16 marzo 1995). Dalla configurazione dell'abuso d'ufficio come reato di evento consegue la
configurabilità del tentativo (prima negata in relazione ad un reato di mera condotta) allorquando la
condotta abusiva non riesca a raggiungere lo scopo per circostanze indipendenti dalla volontà dell'agente. È
stato osservato (Della Monica) come "il tentativo di abuso potrebbe rappresentare lo strumento giuridico
per arretrare la soglia di punibilità ben oltre i limiti fissati dalla norma previgente"..."essendo la
responsabilità subordinata ad una valutazione prognostica sulla commissione del delitto". In realtà
allorquando la condotta illecita è stata portata a compimento e solo l'evento non si realizza per cause
indipendenti dalla volontà dell'agente, i confini del tentativo sono abbastanza nitidi : l'ipotesi è quella del
provvedimento illegittimo tempestivamente annullato dal superiore gerarchico (tentativo compiuto).
Quando invece la condotta illegittima sia stata realizzata solo in parte e sia stata poi interrotta per cause
indipendenti dalla volontà del pubblico ufficiale (tentativo incompiuto) "il tentativo è configurabile solo se la
condotta si configuri come un iter criminis frazionabile, così da potersi concepire l'interruzione dell'azione
esecutiva, e solo se gli atti fino a quel momento compiuti integrino già una violazione di legge (non siano
cioè meri atti preparatori) e siano univocamente diretti verso un fine illecito"(Della Monica).
7. CONSEGUENZE DELLA NUOVA FORMULAZIONE SUI PROCESSI IN CORSO
Non vi è dubbio che tra la precedente e l'attuale formulazione vi è un nesso di continuità che non comporta
una generalizzata abrogatio criminis bensì una successione di norme incriminatrici. Per quanto riguarda i
processi in corso occorrerà dunque valutare, caso per caso, se nella condotta ascritta all'imputato siano
presenti gli elementi del reato nella nuova formulazione e se siano stati enunciati chiaramente
nell'imputazione. Da ciò consegue che se l'imputazione riguarda l'adozione di un atto illegittimo ma per
arrecare un vantaggio non patrimoniale il reato non sarà più configurabile, come pure saremo fuori dalla
previsione normativa (secondo le finalità della legge) se l'atto o il comportamento adottato non
costituiscano inosservanza di una disposizione di legge, ma siano illegittimi in quanto adottati per una
finalità diversa da quella prevista. Nel caso poi in cui l'atto illegittimo per violazione di legge non abbia in
concreto procurato un vantaggio o un danno illecito, occorrerà verificare se sussistono almeno gli estremi
per configurare il tentativo. Le sanzioni stabilite per il delitto sono state complessivamente ridimensionate:
mentre infatti nella precedente formulazione era prevista la pena detentiva fino a due anni per l'abuso non
patrimoniale (ora non più punibile se si tratta di una condotta "favoritrice"), e da due a cinque anni per
l'abuso patrimoniale, ora la pena va indistintamente da 6 mesi a tre anni. Occorrerà quindi individuare, nel
caso concreto, la norma più favorevole da applicare ai sensi dell'art. 2, terzo comma, c.p. Dalle nuove
sanzioni consegue: l'impossibilità di applicare, anche in presenza dell'aggravante, la custodia cautelare
(prima consentita per l'abuso patrimoniale); l'impossibilità di procedere all'arresto in flagranza di reato
(prima consentito per l'abuso patrimoniale); ma soprattutto termini di prescrizione molto più rapidi (sette
anni e mezzo a fronte dei quindici anni prima previsti per l'abuso patrimoniale) conseguenza quest'ultima
che rischia di rappresentare - considerato che sovente la notitia criminis perviene già a distanza di un
notevole lasso di tempo dal fatto, e considerata la complessità dell'indagine nonché i tempi di svolgimento
di tale tipo di dibattimento - un limite insufficiente per la definizione del processo.
RIVELAZIONE E UTILIZZAZIONE DI SEGRETI D’UFFICIO (art. 326). Commette il delitto di rivelazione il
pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio, che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al
servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie del proprio ufficio, le quali debbono
rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza. Il terzo comma, inserito dall’art. 15 della
legge n. 86 del ’90, afferma la responsabilità del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che,
per procurare a sé o ad altri un indebito profitto patrimoniale si avvale illegittimamente di notizie di ufficio,
le quali debbono rimanere segrete. Una pena minore è prevista nel caso che il fatto sia commesso al fine di
procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto non patrimoniale o di cagionare ad altri un danno ingiusto.
UTILIZZAZIONE D’INVENZIONI O SCOPERTE CONOSCIUTE PER RAGIONI DI UFFICIO (art. 325). È punito il
pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, il quale impiega a proprio o altrui profitto, invenzioni o
scoperte scientifiche, o nuove applicazioni industriali, che egli conosca per ragioni d’ufficio o servizio, e che
debbano rimanere segrete.
VIOLAZIONE DI DOVERI INERENTI ALLA CUSTODIA DI COSE SEQUESTRATE (art. 334 e 335). È previsto
quel particolare abuso che consiste nel sottrarre, sopprimere o distruggere cose sottoposte a sequestro.
L’art. 334, quale modificato dall’art. 86 della legge n. 689 del ’91, formula tre ipotesi, secondo che il fatto
sia commesso:
Dal custode, al solo fine di favorire il proprietario della cosa sequestrata;
Dal proprietario che abbia lo custodia della cosa stessa;
Dal proprietario della cosa sottoposta a sequestro che non ne sia custode.
Solo nei primi due casi il soggetto attivo riveste la qualità di pubblico ufficiale; il terzo caso è contemplato
insieme con gli altri per ragioni di affinità. Il sequestro a cui si riferiscono gli art. in esame è quello
ammesso dalla legge penale e disposto nel corso di un procedimento penale ed anche quello ammesso dalle
18 leggi amministrative. Nella sfera di efficacia della norma non rientra invece più, come avveniva in
passato, il sequestro che si fonda sulle leggi civili.
ECCITAMENTO AL DISPREGIO E VILIPENDIO DELLE ISTITUZIONI, DELLE LEGGI E DEGLI ATTI
DELL’AUTORITA’ (art. 327). Possono rendersi responsabili di questo delitto tre categorie di soggetti: i
pubblici ufficiali, i pubblici impiegati incaricati di un pubblico servizio e i ministri di un culto ammesso nello
Stato. Il fatto incriminato consiste:
Nell’incitare al dispregio delle istituzioni o all’inosservanza delle leggi, delle disposizioni dell’Autorità o
dei doveri inerenti ad un pubblico ufficio o servizio;
Nel fare apologia di fatti contrari alle leggi, alle disposizioni dell’Autorità o ai doveri predetti.
Il fatto deve essere commesso dai soggetti indicati nell’esercizio delle loro mansioni.
OMISSIONI DOLOSE DI DOVERI FUNZIONALI
Allo scopo di assicurare il regolare funzionamento delle pubbliche amministrazioni il codice punisce i
pubblici ufficiali e gli incaricati di un pubblico servizio, i quali non per semplice trascuratezza o indolenza,
ma intenzionalmente vengono meno ai loro doveri. Si prevedono due figure criminose, la seconda delle
quali costituisce nulla più che una species della prima.
OMISSIONE O RIFIUTO DI ATTI D’UFFICIO (art. 328). Il testo attuale dell’articolo incrimina “Il pubblico
ufficiale, o l’incaricato di pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto de suo ufficio che, per ragioni
di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza
ritardo”. Una pena minore è comminata nel capoverso dell’articolo per “il pubblico ufficiale o l’incaricato di
pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l’atto del suo
ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo”. Si precisa poi espressamente che tale richiesta
deve essere redatta in forma scritta e il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta
stessa. La nuova norma fissa un termine, ma la preoccupazione del legislatore per l’eccessiva ingerenza del
giudice concede una facile fuga all’amministratore infedele. E l’impressione complessiva è che si sia voluto
devitalizzare una norma, traendo occasione da pochi non felici interventi della magistratura per togliere
operatività ad una figura di reato non grata agli operatori pubblici. Atti d’ufficio sono gli atti dovuti e
appartenenti alla competenza funzionale del soggetto. Il rifiuto consiste nel diniego di compiere un atto
doveroso. Il rifiuto deve verificarsi indebitamente, e cioè senza un motivo legittimo. Il delitto del primo
comma si consuma nel momento e nel luogo in cui si verifica il rifiuto. La fattispecie del secondo comma è
consumata allo scadere del termine di trenta giorni. Il dolo richiesto è generico.
RIFIUTO O RITARDO DI OBBEDIENZA COMMESSO DA UN MILITARE O DA UN AGENTE DELLA FORZA
PUBBLICA (art. 329). Si prevede il caso del militare o dell’agente della forza pubblica, il quale rifiuta o
ritarda indebitamente di eseguire una richiesta fattagli dall’Autorità competente nelle forme stabilite dalla
legge. Una differenza con la fattispecie precedente riguarda il soggetto attivo del reato che deve essere un
militare, e cioè una persona appartenente con qualunque grado alle forze armate dello Stato, o un agente
della forza pubblica.
SCIOPERO O OSTRUZIONISMO IN PUBBLICI UFFICI E IN SERVIZI PUBBLICI O DI PUBBLICA
NECESSITA’
Gli articoli 330, 331, 332 e 333 prevedono lo sciopero o l’ostruzionismo, nonché alcuni fatti ad essi collegati
che si verificano negli uffici pubblici e nei servizi pubblici. L’entrata in vigore della costituzione, la quale, nel
dichiarare all’art. 40 che il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano, non fa
eccezioni di sorta, ha creato nei dipendenti degli enti pubblici il convincimento che tale diritto spetti sempre
anche ad essi. La legge regolatrice della materia, la legge 12 giugno 1990, n. 146, dopo aver elencato i
servizi pubblici ritenuti essenziali, pone i limiti al diritto di sciopero con lo scopo di garantire un livello
minimo di funzionalità di questi ultimi. L’inosservanza di tali limiti da luogo a sanzioni disciplinari e
normative per i lavoratori, nonché di carattere patrimoniale per le organizzazioni sindacali e di categoria.
L’inosservanza dell’ordinanza prefettizia che garantisce le prestazioni e i livelli di funzionamento
indispensabili determina sanzioni pecuniarie e amministrative. Sono espressamente abrogati gli art. 330 e
333 del codice penale.
ABBANDONO COLLETTIVO DI PUBBLICI UFFICI, IMPIEGHI, SERVIZI O LAVORI (art. 330, abrogato dalla
legge n. 146 del ’90).
INTERRUZIONE DI UN SERVIZIO PUBBLICO O DI UNA PUBBLICA NECESSITA’ (art. 331). Chi, esercitando
imprese di servizi pubblici o di pubblica necessità, interrompe il servizio, ovvero sospende il lavoro nei suoi
stabilimenti, uffici o aziende, in modo da turbare la regolarità del servizio, è punito con la reclusione da sei
mesi ad un anno e con la multa non inferiore a lire un milione. I capi, promotori od organizzatori sono
puniti con la reclusione da tre a sette anni e con la multa non inferiore a lire sei milioni. Si applica la
disposizione dell’ultimo capoverso dell’articolo precedente.
OMISSIONE DI DOVERI DI UFFICIO IN OCCASIONE DI ABBANDONO DI UN PUBBLICO UFFICIO O DI
INTERRUZIONE DI UN PUBBLICO SERVIZI (art. 332). Il pubblico ufficiale o il dirigente di un servizio
pubblico o di una pubblica necessità, che, in occasione di alcuno dei delitti preveduti dai due articoli
precedenti, ai quali non abbia preso parte, rifiuta od omette di adoperarsi per la ripresa del servizio cui è
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addetto o preposto, ovvero di compiere ciò che è necessario per la regolare continuazione del servizio, è
punito con la multa fino a lire un milione.
ABBANDONO INDIVIDUALE DI UN PUBBLICO UFFICIO, SERVIZIO O LAVORO (art. 333 abrogato dall’art. 11
della legge n. 146 del ’90).
REATI CONTRO LA PERSONA
Il titolo dodicesimo del libro secondo del codice penale comprende i delitti che offendono direttamente i beni
essenziali dell’individuo, e cioè i beni della vita, dell’incolumità fisica, della libertà e dell’onore. Il codice in
vigore non annovera tra i delitti contro la persona l’aborto (art. 545-551, ora abrogati), il quale era
collocato prima della l. 22 maggio 1978, n. 194 fra i delitti contro la integrità e la sanità della stirpe. Non vi
comprende neppure il reato di maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli (art. 552), che figura tra i delitti
contro la famiglia. Quanto ai delitti contro la libertà è bene ricordare che il codice Zanardelli li contemplava
in un titolo a parte, distinguendoli in delitti contro le libertà politiche, contro la libertà dei culti, contro la
libertà individuale, contro l’inviolabilità dei segreti e contro la libertà del lavoro. Il codice attuale ha
collocato il primo e l’ultimo gruppo di reati in altri titoli e gli altri tra i delitti contro la persona. In questa
sede i residui delitti sono stati divisi in cinque sezioni:
1) contro la personalità individuale;
2) contro la libertà personale;
3) contro la libertà morale;
4) contro la inviolabilità del domicilio;
5) contro la inviolabilità dei segreti.
Non si è trattato solamente di un cambio di collocazione ma di una completa rielaborazione di tutta la
materia. È previsto il nuovo delitto di violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies) e non mancano varianti
al regime della querela e delle pene accessorie ed altri effetti penali. È opportuno ricordare che ex art. 36 l.
5 febbraio 1992, n. 104, come modificato dall’art. 17 l. 15 febbraio 1996, n. 66, per i delitti non colposi del
titolo in esame, qualora la persona offesa sia una persona handicappata la pena è aumentata da un terzo
alla metà.
L’OMICIDIO IN GENERALE
L’omicidio in generale è l’uccisione di un uomo cagionata da un altro uomo con un comportamento doloso o
colposo e senza il concorso di cause di giustificazione. Scopo dell’incriminazione è la tutela della vita
umana. Questa viene protetta dallo Stato non solo nell’interesse dell’individuo, ma anche nell’interesse
della collettività. La punizione dell’omicidio del consenziente dimostra che l’ordinamento giuridico
attribuisce alla vita del singolo anche un valore sociale, e ciò in considerazione dei doveri che all’individuo
incombono verso la famiglia e verso lo Stato.
Oggetto materiale dell’azione criminosa è un uomo diverso dall’agente, perché la maggior parte delle
legislazioni vigenti, compresa quella italiana, non punisce il suicidio, neppure nei casi in cui la sanzione
potrebbe praticamente applicarsi all’individuo, e cioè nell’ipotesi di semplice tentativo. La qualità di uomo,
ai fini del diritto penale, non inizia con la nascita vera e propria, vale a dire con la completa fuoriuscita del
prodotto del concepimento dall’alvo materno, ma in un momento immediatamente anteriore, e
precisamente nel momento in cui ha inizio il distacco del feto dall’utero della donna. Ciò si desume dal fatto
che il nostro codice equipara all’uccisione del neonato l’uccisione del feto durante il parto. Senza dubbio si
esige che la persona su cui cade l’azione sia viva. Il requisito della vita è sufficiente, non essendo richiesta
la vitalità dell’individuo. L’opinione contraria, sostenuta in passato da qualche autore, non ha alcun punto di
appoggio nel nostro diritto positivo. Il sesso, l’età, le condizioni di corpo o di mente, la nazionalità della
vittima sono indifferenti ai fini dell’esistenza del reato. Si discute se anche gli esseri mostruosi nati da
donna possano essere soggetti passivi del delitto in esame. La questione, dal punto di vita astratto, è
interessante e delicata, perché a favore della soppressione dei monstra militano ragioni di umana pietà e di
convenienza sociale. Di fronte al nostro diritto positivo non c’è dubbio che detta soppressione debba
considerarsi vietata, a meno che l’essere sia così abnorme da non potersi qualificare uomo. La vita umana
finisce e con la morte. Finché non si verifica questo evento la vita è tutelata. Risponde di delitto di omicidio
colui che uccide un condannato alla pena capitale pochi istanti prima che abbia luogo l’esecuzione, oppure
una persona affetta da malattia inguaribile che è prossima a morire.
Il fatto materiale dell’omicidio implica tre elementi:
1) una condotta umana;
2) un evento;
3) il nesso di causalità tra l’una e l’altro.
La condotta può estrinsecarsi nelle forme più diverse, perché la legge non indica le modalità che essa deve
assumere, limitandosi a richiedere che abbia cagionato la morte di una persona. L’omicidio è esempio tipico
della categoria dei reati a forma libera. Nessuno dubita che il comportamento possa consistere tanto in una
azione che una omissione. I mezzi con cui viene cagionata la morte possono essere non soltanto fisici
(arma, veleno, forza muscolare, gas asfissiante e così via), ma anche psichici, come il procurare uno
spavento o un dolore atroce ad un cardiopatico, oppure il torturare un individuo moralmente. L’evento del
delitto di omicidio consiste nella morte di una persona. Tra il comportamento dell’agente e la morte di un
20 uomo deve esistere un rapporto di causalità. L’evento morte segna il momento consumativo del delitto di
omicidio. Trattandosi di un risultato nettamente distinto, anzi, staccato dalla condotta umana, nessun
dubbio è consentito sulla configurabilità del tentativo, il quale può verificarsi non solo nella forma del
tentativo incompiuto, ma anche quella del tentativo compiuto.
Dal punto di vista soggettivo si distinguono tre figure di omicidio: l’omicidio doloso; l’omicidio colposo;
l’omicidio preterintenzionale.
Anche in relazione alle cause di giustificazione il delitto in parola non dà luogo a speciali rilievi. Dai principi
e dalle regole che sono stati esposti nella parte generale si desume che tutte le cause di giustificazione,
tanto se previste espressamente dalla legge, quanto se desunta in via analogica - escluso il consenso
dell’avente diritto – possono trovare applicazione nel delitto di omicidio, rendendo legittima l’uccisione di un
uomo: adempimento di un dovere, esercizio di un diritto, legittima difesa, stato di necessità, trattamento
medico-chirurgico, attività sportiva.
OMICIDIO DOLOSO COMUNE
È previsto all’art. 575, il quale reca: “Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non
inferiore ad anni ventuno”. Il codice Zanardelli nella definizione dell’omicidio doloso conteneva l’inciso “a
fine di uccidere” (art. 364), ma nel progetto definitivo del codice attuale questa formula, che figurava
ancora nel progetto preliminare, venne soppressa perché ritenuta superflua, date le norme generali
sull’elemento soggettivo del reato contenente nel libro primo (art. 42 e 43 comma 2). A nostro parere, la
soppressione dell’inciso, merita approvazione non solo per il motivo indicato dal Ministro proponente, ma
anche perché il fine di uccidere, per quanto di regola ricorra nell’omicidio doloso, non può ritenersi
necessario, non riscontrandosi in quella fora di dolo che va sotto il nome di dolo indiretto o eventuale. In
questa ipotesi non si ha propriamente l’intenzione di cagionare l’evento, bensì la previsione della possibilità
del verificarsi dell’evento stesso, accompagnata dall’accettazione del rischio relativo. Da quanto appena
detto deve dedursi che l’equazione: dolo = intenzione di uccidere, accolta dalla prevalente dottrina e
giurisprudenza è inesatta. Per l’esistenza del dolo nell’omicidio basta che si verifichino le condizione indicate
nella definizione generale che il codice fornisce all’art. 43, definizione che, secondo l’interpretazione più
accreditata, comprende anche il dolo eventuale. Il nostro codice per graduare il delitto segue il sistema
delle circostanze aggravanti. Negli art. 576 e 577 queste circostanze sono distinte secondo che importino la
pena di morte, l’ergastolo o la reclusione da ventiquattro a trenta anni, ma l’abolizione della pena capitale,
sancita dal d.l. 10 agosto 1944, n. 224, ha avuto per conseguenza la semplificazione della materia,
rendendo anche priva di effetto la distinzione che figurava nel n. 2 dell’art. 576 e nel n. 1 dell’art. 577.
Prendendo in considerazione la natura intrinseca delle aggravanti in questione, esse possono essere
raggruppate, a seconda che si riferiscano all’elemento soggettivo del reato, alle modalità dell’azione
criminosa o ai mezzi usati, alla connessione con altri reati, alla qualità del soggetto attivo e ai rapporti tra
colpevole e offeso.
AGGRAVANTI CONCERNENTI L’ELEMENTO SOGGETTIVO DEL REATO:
1) l’aver commesso il fatto con premeditazione (art. 577 n.3). Per l’esistenza della premeditazione occorre:
un certo lasso di tempo tra la risoluzione criminosa e la sua attuazione; un’accurata preparazione del
delitto, preparazione che spesso viene indicata col termine di macchinazione. Comunque la
premeditazione si concepisca, generalmente si ammette che l’aggravante sussiste anche quando
l’attuazione del proposito criminoso è condizionata, come nel caso abbastanza frequente della donna
sedotta che decide di uccidere il seduttore se costui si rifiuterà di sposarla. Controverso è se la
premeditazione sia compatibile col vizio parziale di mente: cioè, se essa possa ravvisarsi nel fatto di
colui che è ritenuto seminfermo ai sensi dell’art. 89 del codice. L’opinione che prevale nella dottrina e
per lungo tempo ha dominato nella giurisprudenza fondandosi su ragioni diverse, lo esclude. Nessuna
incertezza dovrebbe invece sussistere sulla conciliabilità della premeditazione con l’attenuante generica
della provocazione, perché lo stato d’ira richiesto per questa attenuante può senza dubbio permanere
nel periodo di tempo che va dalla risoluzione all’esecuzione del delitto.
2) L’aver agito per motivi abietti o futili.
AGGRAVANTI CONCERNENTI LE MODALITA’ DELL’AZIONE CRIMINOSA O I MEZZI USATI
1) l’aver adoperato sevizie o l’aver agito con crudeltà verso le persone (art. 577 n. 4).
2) L’aver commesso il fatto col mezzo di sostanze venefiche, ovvero con un altro mezzo insidioso (art. 577
n. 2). Si considerano venefiche le sostanze capaci di determinare la morte mediante azione tossica
sull’organismo. Si discute se le sostanze corrosive vi siano comprese, ma a noi sembra che non
sussistano valide motivazioni per escluderle. Tra gli altri mezzi insidiosi considerati dalla legge rientrano
i trabocchetti, l’agguato o anche alcune forme di delinquenza, come il sabotaggio del motore di
un’automobile o di un’aeroplano.
AGGRAVANTI DIPENDENTI DALLA CONNESSIONE CON ALTRI REATI
1) l’aver commesso il fatto per eseguire od occultare un altro reato, ovvero per conseguire o assicurare a
sé o ad altri il profitto o il prodotto o il prezzo ovvero l’impunità di altro reato (art. 576 n. 1, in relazione
all’art. 61 n. 2).
2) L’aver cagionato dolosamente la morte nell’atto di commettere taluno dei delitti preveduti dagli art. 519,
520 e 521. I delitti cui si riferisce questa aggravante, prima della legge 15 febbraio 1996 n. 66 erano la
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violenza carnale, la congiunzione carnale commessa con abuso della qualità di pubblico ufficiale e gli
atti di libidine violenti. Oggi dovrebbero corrispondervisi gli art. 609-bis, quater e octies, ma il frettoloso
legislatore non ha modificato in maniera espressa la norma in esame.
AGGRAVANTI DIPENDENTI DALLA QUALITA’ DI SOGGETTO ATTIVO
1) Omicidio commesso dal latitante, per sottrarsi all’arresto, alla cattura o alla carcerazione, ovvero per
procurarsi i mezzi di sussistenza durante la latitanza (art. 576 n. 3). Il codice fornisce una definizione di
latitante all’ultimo comma dell’art. 576 considerando tale chi si trova in una delle condizioni indicate nel
numero 6 dell’art. 61, e cioè colui che ha commesso il reato durante il tempo, in cui si è sottratto
volontariamente all’esecuzione di un mandato o di un ordine di arresto o di cattura o di carcerazione,
spedito per un precedente reato. L’aggravante di cui si tratta non è applicabile all’evaso perché
l’equiparazione tra latitante ed evaso sancita dall’art. 296 n. 5 del c.p.p. è da intendersi limitata ai fini
processuali.
2) Omicidio commesso dall’associato per delinquere per sottrarsi all’arresto, alla cattura o alla carcerazione
(art. 576 n. 4). Per la sussistenza dell’aggravante è necessario che la condizione di associato per
delinquere sia accertata giudizialmente con sentenza di condanna divenuta irrevocabile. Non occorre che
il passaggio in giudicato di tale sentenza si sia verificato prima dell’omicidio, essendo sufficiente che
avvenga prima o contemporaneamente alla pronuncia definitiva per questo delitto.
AGGRAVANTI DIPENDENTI DAI RAPPORTI TRA IL COLPEVOLE E L’OFFESO
1) l’aver commesso il fatto contro l’ascendente o il discendente (art. 576 n. 2 e art. 577 n. 1). Trattasi
della figura di omicidio aggravato che va comunemente sotto il nome di parricidio. La disposizione si
riferisce ai discendenti e agli ascendenti di qualsiasi grado.
L’aver commesso il fatto contro il coniuge, il fratello o la sorella, il padre o la madre adottivi, o il figlio
2) adottivo, o contro un affine in linea retta (art. 577 comma 2). L’uccisione dei parenti e affini contemplati
dal codice nella disposizione ora richiamata generalmente si designa col nome di quasi-parricidio o
parricidio improprio.
L’omicidio doloso è tra i reati per i quali, ai sensi dell’art. 16 l. 22 maggio 1975, n. 152, i termini di
prescrizione sono sospesi durante la latitanza dell’imputato, per tutto il decorso dei rinvii chiesti da
quest’ultimo o dal suo difensore e durante il tempo necessario per la notifica di ordini o mandati se il
destinatario non ha provveduto a comunicare ogni mutazione relativa all’abitazione ovvero al domicilio
dichiarato o eletto.
Notizie storiche. Già prima della “Legge delle dodici Tavole”, a Roma, esistevano giudici speciali per
reprimere il delitto di omicidio. Dopo Silla la legge fondamentale in materia fu la lex Cornelia de sicariis et
veneficiis, la quale, però, comprendeva anche altri delitti. Con la lex Pompeia del 669 la parola parricidium
assunse il significato di uccisione di prossimi congiunti. L’omicidio in origine era punito con la morte. In
seguito, alle persone di condizione sociale superiore si applicò la deportazione e l’estremo supplizio rimase
sancito per quelle di qualità inferiore. Nel Medioevo prevalse a lungo anche in Italia la tendenza a punire
l’omicidio con la pena privata, mentre assai diffuse erano le vendette del sangue. Nell’ambito dell’omicidio
doloso sorsero a poco a poco varie configurazioni. Tra queste, accanto al parricidium e al veneficium,
primeggiava l’assassinium, il quale da principio indicava soltanto l’omicidio per mandato, mentre in seguito
comprendeva anche l’uccisione premeditata.
FIGURE PARTICOLARI DI OMICIDIO DOLOSO
Il nostro codice non contempla figure particolari di attenuanti speciali per il delitto in esame. prevede
accanto ad ipotesi aggravanti, forme attenuate di omicidio doloso, che considera come figure autonome di
reato. Per effetto della l. 5 agosto 1981, n. 442, sono scomparse dall’ordinamento le figure del feticidio o
infanticidio per causa d’onore e l’omicidio per causa d’onore, essendo stata abrogata la seconda e
interamente sostituita la prima con una nuova figura di reato che è qualificata come “infanticidio in
condizioni di abbandono materiale”. Per ciò che concerne l’abrogata disciplina del feticidio, dell’infanticidio e
dell’omicidio per causa d’onore, occorre rilevare che queste erano figure tipiche di reato. L’elemento che
determinava la degradazione dell’omicidio doloso era la causa d’onore. L’azione doveva cioè essere
commessa al fine di eliminare il disonore che si riteneva derivare dalla notorietà di una gravidanza
illegittima o di una illegittima relazione carnale. Ratio della tutela era il perturbamento psichico dell’agente.
Si richiedeva un rapporto di relativa immediatezza tra lo stato emotivo e la condotta delittuosa e la
giurisprudenza sul punto aveva mostrato una notevole tendenza ad interpretazioni suggerite dal favor rei.
INFANTICIDIO O FETICIDIO IN CONDIZIONI DI ABBANDONO MATERIALE O MORALE
Il nuovo testo dell’art. 578, abbandonato il criterio di mitigazione delle pene per l’omicidio comune
rappresentato dalla causa d’onore, ha ritenuto di dovergli sostituire quello delle “condizioni di abbandono
materiale o morale connesse al parto quando abbiano determinato il fatto. Questo è descritto come il
comportamento della madre che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto, o del
feto durante il parto. Soggetto attivo del reato è la madre soltanto. Dandosi poi carico dei compartecipi si
chiarisce ora che, mentre a coloro che concorrono nel reato è di consueto applicabile la pena stessa
dell’omicidio volontario, qualora gli stessi abbiano agito col solo fine di aiutare la madre tale pena può
essere notevolmente diminuita. Si specifica inoltre che non si applicano le aggravanti stabilite all’art. 61 del
22 codice penale. La formula in condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto richiede che
per il fatto del futuro parto siano venuti a mancare alla donna quegli aiuti e quella solidarietà ambientale
che sono consueti nella nostra società in tale evenienza: quindi sia i mezzi, sia i soccorsi psichici.
Il fatto materiale può consistere tanto nell’uccisione del feto durante il parto quanto nell’uccisione di un
neonato immediatamente dopo il parto. Il feticidio presuppone che sia compiuto il processo fisiologico della
gravidanza, perché in caso diverso la distruzione del prodotto del concepimento rientrerebbe nella figura
dell’aborto. Secondo un’opinione corrente, il distacco del feto dall’alvo materno si desume dal verificarsi
delle doglie, cioè dal travaglio del parto. Siccome il parto non è né fenomeno istantaneo né fenomeno
rapidissimo, senza dubbio esiste una qualche incertezza nella determinazione del momento iniziale, ma
essa è inevitabile. In caso di parto artificiale il principio dell’operazione equivale al travaglio. L’infanticidio
ricorre quando l’uccisione avviene dopo il compimento del parto, e cioè dopo che il prodotto della
gestazione è completamente uscito dal ventre materno. Come è naturale, si esige che l’essere sia nato vivo.
La scienza medica ritiene che la prova della vita è fornita dall’avvenuta respirazione, e cioè dalla docimasia
polmonare. Affinché possa parlarsi di infanticidio, è necessario che l’uccisione avvenga immediatamente
dopo il parto. Essenziale è che il fatto si verifichi durante lo stato emozionale che segue il parto.
Del reato proprio in esame risponde la madre. Tutte le altre persone che pongano in essere il fatto,
incorreranno nelle pene dell’omicidio comune anche se compartecipi. È ammessa però l’ipotesi di un
trattamento penale più favorevole per quei concorrenti che abbiano agito al solo scopo di favorire la madre.
In ogni altro caso la sanzione resterà quella consueta dell’omicidio volontario.
Al reato basta il dolo generico. Questo consiste nella coscienza e volontà di cagionare la morte del neonato
o del feto, con la rappresentazione delle condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto.
Qualora la morte del feto durante il parto o dell’infante subito dopo il parto sia dovuta non a dolo, ma a
semplice colpa, l’autore risponderà di omicidio colposo.
Per il disposto dell’ultimo comma dell’art. 578 al colpevole di questo reato non si applicano le aggravanti
comuni stabilite all’art. 61.
OMICIDIO DEL CONSENZIENTE
Il nostro ordinamento considera indisponibile il bene della vita. In base al principio generale sancito all’art.
50 del codice, perciò, il consenso del soggetto passivo non scrimina l’omicidio. Tuttavia il codice nell’art.
579 considera forma attenuata di omicidio il fatto di chi “cagiona la morte di un uomo, con il consenso di
lui”. Per l’esplicito disposto del comma 3 dell’art. in parola, questo delictum sui generis non ricorre e, in
conseguenza, debbono applicarsi le norme relative all’omicidio comune, quando il fatto sia commesso:
1) contro una persona minore degli anni diciotto;
2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra
infermità o per l’abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti;
3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione,
ovvero carpito con l’inganno.
Il consenso della vittima non implica necessariamente quella richiesta che qualche codice esige per la
speciale figura delittuosa. A costituirla basta il permesso, e cioè un atto di volontà del soggetto passivo che
autorizzi l’azione. Il semplice desiderio e l’indifferenza non sono sufficienti. Il consenso deve essere
manifestato. L’efficacia di un consenso tacito, desumibile senza equivoci dal comportamento del soggetto,
non può essere esclusa, per quanto in proposito si imponga molta cautela, dato l’alto valore del bene della
vita. Nessun dubbio che il consenso può essere sottoposto a condizioni (ad es. l’uso di un determinato
mezzo) ed è revocabile. Va da sé che colui che uccida con un mezzo diverso o dopo che il consenso è stato
revocato risponde di omicidio comune.
L’elemento soggettivo importa, oltre a tutti i requisiti richiesti per l’omicidio doloso, la consapevolezza di
agire col consenso della vittima. Se il consenso non sussiste, ma l’agente è ragionevolmente indotto dalle
circostanze a credere che vi sia, l’art. 579 sarà applicabile, perché la supposizione erronea della presenza di
un elemento che degrada un reato in un altro minore della stessa indole, non è né logico né equo fare un
trattamento diverso da quello comunemente stabilito nell’ultimo comma dell’art. 59 del codice per le c.d.
circostanze che escludono la pena. All’omicidio del consenziente non si applicano le aggravanti comuni
previste dall’art. 61.
In ordine alla figura di cui stiamo trattando, la questione più importante che si presenta è quella
dell’eutanasia. Si tratta di un problema che da qualche decennio è divenuto di grande attualità. La parola
eutanasia, la cui origine viene attribuita a Francesco Bacone, che con essa voleva indicare la morte dolce e
calma, viene alcune volte usata in senso più ampio. Quella che a noi interessa è l’eutanasia in senso stretto
e cioè l’uccisione per pietà: l’omicidio misericordioso, vale a dire, la morte provocata per troncare le
sofferenze di un essere colpito da un morbo inguaribile. In Italia la Chiesa Cattolica è decisamente
contraria, e contraria è anche la maggioranza dei medici. Nel nostro diritto positivo solo pochi casi di
eutanasia rientrano nella disposizione che regola l’omicidio del consenziente, perché, come abbiamo visto,
per l’applicabilità di tale norma si richiede un vero e proprio consenso prestato da persona che abbia
superato gli anni diciotto e non sia in condizioni di deficienza psichica, condizione che normalmente si
riscontrano nei malati incurabili e afflitti da atroci sofferenze. La maggior parte dei casi di eutanasia,
pertanto cade sotto le sanzioni dell’omicidio doloso comune. Poiché la serie di aggravanti previste ( ad es.
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la premeditazione, i vincoli di parentela) porterebbe all’inflizione di pene molto severe, a nostro avviso,
sarebbe opportuno introdurre nella nostra legislazione una norma speciale, fissando una pena non elevata,
con un minimo basso per il caso che sia cagionata per pietà la morte di una persona amata, certamente
inguaribile e al solo scopo di porre termine alle sue sofferenze.
ISTIGAZIONE O AIUTO AL SUICIDIO
Il suicidio che per lungo tempo è stato punito, nel nostro ordinamento vigente è di per sé esente da pena.
Questa tolleranza è dovuta a ragioni di politica criminale, e praticamente alla impossibilità di una
repressione efficace. Siccome tale impossibilità non sussiste nei confronti dei terzi che cooperino al fatto, il
codice vigente all’art. 580 punisce “chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di
suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione”. La punibilità di chi concorre all’altrui suicidio,
tuttavia, nel nostro diritto è condizionata. Essa è subordinata a due condizioni che sono prevedute
alternativamente:
1) che il suicidio avvenga, e cioè che si verifichi la morte della persona;
2) che la morte non si verifichi, purché dal tentativo di suicidio derivi una lesione grave o gravissima (art.
583).
Non avverandosi per qualsiasi ragione né l’una né l’altra di dette condizioni, anche la partecipazione
all’altrui suicidio rimane impunita. Dall’ultimo comma dell’art. 580 si desume che questo delitto speciale è
escluso e si applicano le disposizioni relative all’omicidio, allorché la persona che si suicida è minore degli
anni quattordici o comunque priva della capacità di intendere o di volere.
Il fatto materiale consiste in un atto di partecipazione al suicidio altrui, partecipazione che può essere fisica
o psichica. È psichica quando l’agente fa sorgere nel soggetto il proposito che prima non esisteva, oppure
rende più solido il proposito esistente. La partecipazione è fisica allorché l’agente concorre nell’esecuzione
del suicidio rendendolo possibile fornendo, ad esempio, i mezzi necessari, o in qualsiasi altro modo
agevolando l’esecuzione medesima. Contrariamente all’opinione di Manzini, si ritiene che debba esistere un
nesso eziologico tra l’azione del colpevole e il risultato, perché in difetto di un contributo causale non è in
genere consentito di parlare di concorso nel fatto altrui. L’agevolazione al suicidio può avere luogo anche
mediante un’omissione. Occorre pertanto, ai sensi della regola generale stabilita all’art. 40, che il soggetto
abbia violato un obbligo giuridico a contenuto positivo. Nel caso abbastanza frequente del suicidio doppio
con la sopravvivenza di uno dei due, bisogna distinguere: se il sopravvivente è stato autore unico
dell’uccisione dell’altro, egli risponde di omicidio del consenziente; se ha determinato o comunque
agevolato il suicidio dell’altro, sarà responsabile del delitto ora in discussione, mentre andrà esente da pena
se sarà ritenuto semplice succube di colui che è deceduto.
Trattandosi di un caso di compartecipazione ad un fatto altrui, occorre nel soggetto la volontà di cooperare
al fatto medesimo.
Per il disposto del capoverso dell’art. 580 il delitto è aggravato se la persona istigata, eccitata o aiutata:
è maggiore degli anni quattordici, ma minore degli anni diciotto;
si trova in condizioni di deficienza psichica per una infermità di qualsiasi genere o per l’abuso di
sostanze alcoliche o stupefacenti.
Se il suicida non ha superato gli anni quattordici o comunque è privo della capacità di intendere e di volere
si deve parlare di omicidio comune. Le aggravanti comuni indicate all’art. 61 sono applicabili, perché nelle
disposizione in esame non figura l’esclusione che è sancita per l’omicidio del consenziente.
OMICIDIO PRETERINTENZIONALE
Per l’art. 584 risponde di tale reato “chiunque, con atti diretti a commettere uno dei delitti preveduti dagli
art. 581 e 582, cagiona la morte di un uomo”. I delitti di cui si parla sono le percosse e le lesioni personali.
Pertanto l’ipotesi configurata dal legislatore consiste nel fatto dell’individuo che, ponendo in essere atti
diretti a percuotere una persona o a procurarle una lesione personale, ne determina, senza volerlo, la
morte.
Siccome la legge parla di atti diretti a commettere uno dei delitti di cui agli art. 581 e 582, non si richiede
che questi reati abbiano raggiunto il momento consumativo, bastando che siano tentati. Così risponderà di
omicidio preterintenzionale colui che in una località dirupata tenti di ferire una persona, la quale, per
sfuggire alla minaccia, trovi la morte, cadendo in un precipizio. Il delitto si consuma nel luogo e nel
momento in cui si verifica il decesso della vittima. Il tentativo di omicidio preterintenzionale è inconcepibile
per l’ovvia ragione che in esso manca la volontà dell’evento che lo perfeziona.
L’elemento soggettivo consiste nel dolo del reato base. È fin troppo evidente che, se nel fatto si riscontrasse
il dolo dell’omicidio, sia pure nella forma del dolo indiretto, non si potrebbe parlare del delitto in esame.
Per il disposto dall’art. 585 il delitto è aggravato se concorre alcuna delle circostanze previste per l’omicidio
comune negli art. 576 e 577, oppure se il fatto è commesso con armi o con sostanze corrosive.
OMICIDIO COLPOSO
È previsto nell’art. 589, il quale lo descrive con la semplice formula: “ Chiunque cagiona per colpa la morte
di una persona è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni”. Per colpa si intende il verificarsi
dell’evento, anche se preveduto, ma non voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza, imprudenza
24 o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. L’aggravante contemplata
nel n. 3 dell’art. 61 (previsione dell’evento) può ricorrere nel delitto in esame, al quale si applicano, in
quanto compatibili col reato colposo, anche le altre circostanze previste nel detto articolo, nonché le
attenuanti comuni di cui all’art. 62. Va posto in rilievo che la compatibilità con la provocazione viene in
generale ammessa.
Deve essere ricordata la disposizione contenuta all’art. 586 del codice, il quale, sotto la rubrica morte o
lesioni come conseguenza di altro delitto, reca: “Quando da un fatto preveduto come delitto doloso deriva,
quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la lesione di una persona, si applicano le
disposizioni dell’art. 83, ma le pene stabilite negli art. 589 e 590 sono aumentate”. Questa norma importa
una aggiunta al disposto dell’art. 83 che riguarda l’aberratio delicti, in quanto sancisce un aumento di pena
per il caso che il delitto diverso da quello voluto dall’agente sia la morte o la lesione personale.
LESIONI PERSONALI E PERCOSSE
Tra le norme regolanti le offese all’incolumità individuale, non è più compresa, come in passato, la lesione
personale a causa d’onore, essendo stato abrogato con la l. 5 agosto 1981, n. 442 l’art. 587 comma 3.
LESIONE PERSONALE (COMUNE). Per il primo comma dell’art. 582 questa figura delittuosa, che va
1) ordinariamente sotto il nome di “lesione personale lieve”, consiste nel fatto di colui che “cagiona ad
alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente”. Se la malattia
ha una durata non superiore a venti giorni e non si verificano le conseguenze indicate nell’art. 585, il
delitto è perseguibile a querela della persona offesa. La forma più tenue di lesione che si desume dalla
norma ora richiamata viene comunemente detta lievissima. Poiché, come vedremo, quando la malattia
derivante dalla lesione si protrae oltre i 40 giorni, il fatto trapassa nella lesione grave o gravissima di cui
all’art. 583, è la lesione personale comune la lesione che provoca una malattia avente durata maggiore
di giorni 20, ma non superiore ai giorni 40.
Secondo il testo della legge, l’elemento oggettivo della figura criminosa in esame consiste nel cagionare
una lesione da cui deriva una malattia. A nostro modo di vedere, poiché la legge non fornisce una
definizione di malattia, bisogna attenersi a quella fornita dalla scienza medica. Pertanto si ritiene che la
malattia consista in quel processo patologico, acuto o cronico, localizzato o diffuso, che determina una
apprezzabile menomazione funzionale dell’organismo. Se il processo morboso investe l’organismo fisico,
si quella che il codice definisce come malattia nel corpo; se investe l’organismo psichico, determinando
un turbamento nelle funzioni dell’intelletto o della volontà, si ha malattia nella mente. Non vi rientrano,
pertanto, le ecchimosi perché esse non determinano una menomazione funzionale dell’organismo degna
di rilievo.
Per l’esistenza del dolo, secondo le regole generali, occorre la volontà e previsione dell’evento e cioè
della malattia nel significato prima espresso. Se il fatto è stato commesso con il dolo che è proprio del
delitto di omicidio, come nel caso frequentissimo della ferita inferta animo necandi, il soggetto
risponderà di omicidio tentato. Il reato di lesione personale resterà in tal caso assorbito nel reato
maggiore, essendo necessariamente contenuto in esso.
Il verificarsi della malattia che è il vero evento naturalistico della lesione personale, segna il momento
consumativo del reato. Nessun dubbio sulla configurabilità del tentativo.
Come tutti i reati è necessario che il fatto descritto nella norma incriminatrice presenti il carattere
dell’antigiuridicità, il quale resta escluso dalla presenza di cause di giustificazione.
Per disposto dell’art. 585 il delitto di lesioni personali è aggravato se concorre una delle circostanze
previste per l’omicidio negli art. 576 e 577, oppure se il fatto è commesso con armi o con sostanze
corrosive.
2) LESIONE PERSONALE GRAVE E GRAVISSIMA. L’art. 583 recita: “La lesione personale è grave:
se dal fatto deriva una malattia che metta in pericolo la vita della persona offesa, ovvero una
malattia o un’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai quaranta
giorni;
se dal fatto si produce l’indebolimento permanente di un senso o di un organo.
La lesione personale è gravissima se dal fatto deriva:
una malattia certamente o probabilmente insanabile;
la perdita di un senso;
la perdita di un arto, o una mutilazione che renda l’arto inservibile, ovvero la perdita dell’uso di un
organo o della capacità di procreare, ovvero una permanente e grave difficoltà della favella;
la deformazione o lo sfregio permanente del viso.
Dottrina e giurisprudenza, sulle orme della Relazione ministeriale al progetto, ritengono che l’art. 583 non
delinea autonome figurae delicti, ma semplici circostanze, perché le ipotesi prese in considerazione non
implicano una modificazione dell’essenza di reato di lesioni personali, ma costituiscono soltanto delle
particolarità, e più precisamente dei risultati che si aggiungono ad esso, determinandone una maggiore
gravità. Gli eventi indicati nell’articolo in esame, in quanto circostanze aggravanti, per il principio generale
sancito nell’art. 59, prima della riforma di cui all’art. 1 l. 7 febbraio 1990, n. 19 dovevano essere valutati a
carico dell’agente obbiettivamente, e cioè anche se da lui non fossero stati previsti e persino se fossero
risultati imprevedibili. Su questo punto la relazione è quanto mai esplicita. In essa si legge: “Trattandosi di
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circostanze oggettive, consegue che saranno in ogni caso addebitate al colpevole o alle persone che
abbiano concorso nel delitto, ancorché non conosciute né volute: esse, cioè, debbono essere valutate
indipendentemente da qualsiasi indagine psicologica”. “Gli effetti del danno, più o meno gravi, costituiscono
il rischio che corre il colpevole e che a lui è addebitato a titolo di responsabilità oggettiva”. Osserviamo
subito che, se si fosse accolto questo ordine di idee, non c’era davvero da compiacersi del modo in cui il
nostro legislatore aveva regolato uno dei più frequenti delitti, quale è la lesione personale. A nostro avviso
questo è un caso tipico in cui è possibile dare alla legge un’interpretazione diversa da quella che era
nell’intendimento di quelle che l’hanno redatta. Se si riconosce, come è necessario riconoscere, che fra le
ipotesi previste nell’art. 583 ve ne è qualcuna in cui si riscontra quella che è la nota essenziale del delitto
configurato nell’articolo precedente, e cioè la malattia, non è possibile considerare le ipotesi stesse come
circostanze della c.d. lesione tipica. Per la regola generale, infatti, tra il reato circostanziato e il reato
semplice deve esistere un rapporto di species ad genus, rapporto che presuppone che nella fattispecie
speciale si riscontrino tutti indistintamente gli elementi propri della fattispecie generale, con l’aggiunta di
uno o più elementi particolari. La tesi qui propugnata trova conferma nel fatto che il codice esplicitamente
ha conferito speciali denominazioni alle ipotesi previste nell’art. 583, designando col termine di lesione
grave quelle del primo comma e col termine di lesione gravissima quelle del secondo. Si tenga presente che
il codice non attribuisce mai un particolare nomen iuris a ipotesi criminose che non siano reati autonomi,
ma semplici forme circostanziate di altri reati. Contro il nostro assunto sarebbe vano opporre che la rubrica
dell’art. 583 parla di circostanze aggravanti, perché le rubriche non hanno valore vincolante per l’interprete.
La prima conseguenza di questo ordine di idee concerne l’elemento soggettivo del reato. Se si ammette che
il nostro codice configura nell’art. 583 due autonomi tipi di reato, bisogna ritenere che per l’esistenza
del dolo in ognuno di essi sia necessaria la volontà del relativo evento e, perciò, come nella lesione
personale comune, il reo deve prevedere che dal suo operato derivi una malattia nel corpo o nella mente
del soggetto passivo, così nella lesione personale grave deve prevedere il verificarsi di uno degli eventi
indicati al comma 1 dell’art. 583. Questa conclusione contrasta nettamente con l’opinione comune, ma essa
non si può evitare se si vogliono rettamente applicare i principi regolatori del nostro diritto, e
particolarmente la norma fondamentale contenuta nell’art. 43 del codice, per la quale l’esistenza del dolo è
in ogni reato indispensabile la volontà dell’evento. Accolta la nostra concezione, si domanda come dovrà
essere regolato il caso in cui il soggetto, nell’intento di cagionare una data lesione, ne determini, senza
volerlo, una di maggiore gravità. Si tratta di quella che comunemente viene denominata lesione
preterintenzionale, la quale, oggetto di particolare disciplina nel codice abrogato, non è stata prevista nel
codice in vigore, coerentemente al punto di vista adottato dai compilatori. Trova applicazione la norma di
cui all’art. 586, la quale contempla l’ipotesi che da un fatto preveduto come delitto doloso derivi, quale
conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la lesione personale di una persona. Nel caso in cui un
soggetto voglia graffiare un altro, ma ne determina la perdita di un occhio, questi risponderà di lesione
personale comune dolosa in concorso con la lesione colposa gravissima con l’aumento di pena stabilito dal
citato art. 586.
Notevoli sono anche le conseguenze che derivano dalla nostra concezione in ordine al momento
consumativo e al tentativo. Per noi che ammettiamo l’esistenza di tre tipi autonomi di reato, la
consumazione ha luogo in momenti diversi, e precisamente quando si avverano gli eventi che
caratterizzano ciascun tipo. Quanto al tentativo, la nostra concezione porta ad ammettere che esso
possa verificarsi anche nei confronti della lesione grave e della lesione gravissima. Di fronte al nostro
diritto positivo, dottrina e giurisprudenza opinano che non è consentito parlare di tentativo di lesione
grave o gravissima, e ritengono che in ogni caso il reo debba rispondere di tentativo di lesione comune.
Tale conclusione, se pur in armonia con la premessa da cui viene dedotta, non può soddisfare, non
soltanto perché trascura marcate differenze che esistono nella realtà, ma anche perché assicura al
tentativo di lesioni gravi o gravissime un trattamento di estrema benignità. Ci domandiamo se queste
conclusioni, formulate prima della citata riforma dell’art. 59, abbiano minore rilievo ora che le
circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell’agente soltanto se da lui conosciute
ovvero ignorate per colpa o ritenute per errore determinato da colpa inesistenti. A noi sembra che al
quesito debba darsi risposta negativa.
In ordine alle varie ipotesi di lesione grave, dal punto di vista esegetico si osserva:
malattia che mette in pericolo la vita della persona, è malattia che in un dato momento mette in
reale pericolo la vita del paziente;
per incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni si intende l’impossibilità di svolgere l’attività
consueta. Nell’ipotesi è compresa qualsiasi attività dell’uomo, purché non in contrasto con
l’ordinamento giuridico;
per quanto riguarda l’indebolimento permanente di un senso o di un organo, si premette che senso è
il mezzo che è destinato a porre l’individuo in contatto con il mondo esteriore, facendogli percepire
gli stimoli che ne provengono: vista, udito, olfatto, gusto ecc. Organo, ai fini del diritto, è l’insieme
delle parti del corpo che servono ad una determinata funzione. A costituire la lesione grave basta
l’indebolimento del senso o dell’organo, mentre se si verifica la perdita dell’uno o dell’altro si ha la
lesione gravissima. In proposito deve tenersi presente che, quando le parti del corpo che provvedono
26 alla stessa funzione sono più di una, la distruzione di una di esse in genere comporta l’indebolimento
e non la perdita del senso o dell’uso dell’organo.
Rispetto all’ipotesi di lesione gravissima va notato:
malattia certamente o probabilmente inguaribile è quello stato di alterazione funzionale che, a
giudizio della scienza, non può cessare, o solo in rari casi si risolve in guarigione;
la perdita di un senso si verifica allorché il senso è completamente distrutto;
la perdita di un arto è la distruzione di una delle parti del corpo destinata o alla funzione della
prensione o a quella della deambulazione. Alla perdita è assimilata la mutilazione che renda l’arto
inservibile;
la perdita dell’uso di un organo implica che l’insieme delle parti del corpo, che lo costituiscono, siano
così danneggiate da non poter più adempiere alla funzione a cui sono destinate;
la perdita della capacità di procreare comprende non solo l’impotentia coeundi e l’impotentia
generandi, ma anche l’incapacità del parto nella donna;
non si può parlare di permanente e grave difficoltà nella favella se non si verifica un profondo
disturbo funzionale che ponga il leso in spiccata inferiorità nelle sue relazioni con gli altri;
premesso che per viso si intende la parte del corpo che è visibile stando di fronte alla persona,
compreso il collo, si ha sfregio permanente quando le regolarità e l’armonia dei lineamenti del viso è
alterata in modo notevole.
Come la lesione comune, la lesione grave e quella gravissima sono aggravate se concorre alcuna delle
circostanze previste dagli art. 576 e 577 del codice, oppure se il fatto è compiuto con armi o con
sostanze corrosive.
1) LESIONE PERSONALE COLPOSA. È prevista dall’art. 590 con formula analoga a quella adottata per
l’omicidio colposo: “Chiunque cagiona ad altri per colpa una lesione personale è punito con la
reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a lire seicentomila”. L’applicazione di questa norma non dà
luogo a questioni particolari. Occorre rilevare che è richiesta la querela della persona offesa, eccezion
fatta per le lesioni gravi o gravissime relative ai fatti commessi con violazione delle norme in materia di
prevenzione di infortuni sul lavoro o attinenti all’igiene del lavoro e che abbiano determinato una
malattia professionale. In caso di dolo, invece, la perseguibilità a querela di parte è limitata alla lesione
personale lievissima.
2) PERCOSSE. Ai sensi dell’art. 581, risponde di tale reato colui che “percuote taluno, se dal fatto non
deriva una malattia nel corpo o nella mente”. Poiché percuotere significa urtare violentemente, nella
previsione della norma rientrano quelle che una volta si dicevano “vie di fatto”, e cioè lo schiaffo, il
calcio, il pugno e altre simili manifestazioni di violenza non produttive di malattia. La percossa di regola
determina una sensazione dolorosa, ma questa non è richiesta ai fini del reato in esame. per la
punibilità della percossa si richiede il dolo, non essendo prevista legislativamente la forma colposa. Per
il disposto dell’art. 581, e in applicazione del principio generale sancito all’art. 84 del codice, il delitto di
percosse rimane assorbito in tutti i reati nei quali la violenza è considerata elemento costitutivo o
circostanza aggravante di altro reato. Il delitto è perseguibile a querela della persona offesa.
Ipotesi abrogate di lesioni personali. Il codice negli art. 552 e 554 prevedeva due speciali ipotesi di
lesione personale. La prima contemplava il fatto di chi avesse compiuto su altra persona, col consenso
di questa, atti diretti a renderla impotente alla procreazione. La seconda perseguiva, in determinati casi,
il contagio di sifilide o di blenorragia. Dopo l’abrogazione dell’intero titolo decimo del libro secondo,
avvenuta con la l. n. 194 del 1978, la procurata impotenza alla procreazione è oggi colpita a titolo di
lesione personale gravissima.
L’ABORTO IN GENERALE
Per il diritto penale è aborto l’interruzione intenzionale del processo fisiologico della gravidanza con la
conseguente morte del prodotto del concepimento. L’opportunità di incriminare l’aborto è stata negata in
parecchi ordinamenti moderni soprattutto per quanto attiene alla interruzione della gravidanza voluta dalla
gestante nei primi tre mesi. In Italia, dopo un iter laboriosissimo, la legge 22 maggio 1978, n. 194 ha
adottato un criterio analogo, ma con formulazione e prescrizioni che fanno del testo legislativo una delle
fonti più travagliate e discusse. È opportuno esporre alcune nozioni che sono comuni a tutte o alla maggior
parte delle norme incriminatrici.
Presupposto dell’aborto vero e proprio è la gravidanza della donna. Questo fenomeno ha inizio con
l’annidamento dell’ovulo, fecondato mediante con l’incontro dello sperma maschile, nella mucosa uterina. Il
termine della gravidanza si verifica con l’espulsione del feto. Se manca la gestazione, non può esservi
aborto vero e proprio.
Il processo fisiologico della gravidanza deve essere interrotto per opera dell’agente e non per cause
naturali. Poiché la legge non indica il mezzo con cui deve essere provocato l’aborto è fuori dubbio che il
fatto può commettersi con qualsiasi mezzo idoneo allo scopo. Vengono in considerazione i mezzi specifici, i
quali possono essere chimici e fisici o meccanici. Ma l’aborto può procurarsi anche con mezzi generici come
le ferite, le percosse inferte alla donna incinta e persino con mezzi morali. A priori non si può escludere la
possibilità di aborto commesso mediante omissione. Si pensi al caso della levatrice che, incaricata di
27
assistere una donna incinta, di proposito non pratichi le cure che sono necessarie affinché la gestazione si
svolga in modo regolare.
L’interruzione della gravidanza deve avere per effetto l’uccisione del prodotto del concepimento. Se il feto
non muore, non si ha l’aborto, ma il mero acceleramento del parto. La possibilità di una vita autonoma
sorge con il settimo mese di gestazione. La morte del feto determina il momento consumativo dell’aborto.
Se in seguito alle pratiche abortive, la morte del feto non si verifica, si avrà tentativo.
Le norme incriminatrici abrogate. Prima della riforma la dottrina aveva mosso critiche alla collocazione
del delitto di aborto nel capo, introdotto ex novo, “delitti contro la integrità e la sanità della stirpe”. Il codice
penale distingueva tre specie di aborto:
L’aborto di donna non consenziente (art. 545);
L’aborto di donna consenziente (art. 546);
L’aborto procuratosi dalla donna (art. 547).
Accanto a queste figure erano contemplate due incriminazioni ausiliari: l’istigazione all’aborto e gli atti
abortivi su donna ritenuta incinta (art. 548 e 550). Erano previste: una aggravante se il colpevole avesse
esercitato la professione sanitaria (art. 555) ed una diminuente se il delitto fosse stato commesso per
salvare l’onore proprio o di un prossimo congiunto (art. 551).
Notizie storiche. Nel diritto romano in origine il procurato aborto non era punito. Soltanto all’epoca di
Settimio Severo l’aborto fu sottoposto a pena ed assimilato al veneficium, e ciò per reagire contro la
tendenza alla vita lussuriosa e dissoluta. I giureconsulti del Medioevo ammettevano la punibilità
dell’aborto solo quando il feto fosse animato, e cioè quaranta giorni dopo il concepimento per i maschi e
ottanta o novanta giorni per le femmine. La pena era pari a quella dell’omicidio e talora anche più grave.
Nella legislazione dei secoli diciottesimo e diciannovesimo la repressione di questo delitto si mitigò, in
modo notevole, tenendosi conto dei motivi determinanti, ed in specie della causa d’onore.
LE ATTUALI NORME INCRIMINATRICI
La disciplina prevista dalla l. 22 maggio 1978, n. 194 ha riguardo agli articoli da 17 a 21. Per quanto
concerne l’aborto criminoso sono individuati tre gruppi di ipotesi: il primo ha per oggetto l’aborto di donna
non consenziente ed è contemplato dall’art. 18; il secondo l’aborto di donna consenziente ed è inserito
nell’art. 19; il terzo l’aborto e l’accelerazione del parto colposi ed è previsto nell’art. 17. Sta a sé l’art. 21
che introduce ex novo un’ipotesi di tutela penale del segreto sulle procedure ed interventi nella materia in
oggetto, mentre l’art. 20 ha riguardo soltanto ad una circostanza aggravante.
ABORTO DI DONNA NON CONSENZIENTE. Questa ipotesi ricorre, ex art. 18, quando taluno “cagiona
l’interruzione della gravidanza senza il consenso della donna”. Come già avveniva per l’abrogato art. 546
comma 3, si considera non prestato il consenso estorto con la violenza o minaccia ovvero carpito con
l’inganno. Costituiscono circostanze aggravanti la minore età della gestante e, nell’ambito della struttura
dei c.d. delitti aggravati dall’evento, l’essere derivate dal fatto in esame, quali eventi non voluti, la morte o
lesione gravissime o gravi. Costituisce del pari circostanza aggravante l’essere stato l’aborto provocato da
chi avesse prima sollevato obiezione di coscienza ai sensi dell’art. 9. La circostanza ha riguardo solo agli
addetti al personale sanitario ed esercente attività ausiliarie in quanto abbiano concorso a provocare
l’interruzione della gravidanza. Poiché l’obiezione, per effetto dell’ultimo comma dell’art. 9 si intende
immediatamente revocata se chi l’ha espressa prende parte a procedure o interventi abortivi, sembra
evidente che, ritenuta la circostanza per un primo fatto criminoso, essa non potrebbe più operante per fatti
successivi.
ABORTO PRETERINTENZIONALE. Ai sensi dell’art. 18 della legge in esame è chiamato a rispondere, al
modo stesso di chi cagioni l’interruzione della gravidanza senza il consenso della donna, chiunque tale
interruzione determini con azioni dirette a provocare lesioni alla donna. Se oltre all’aborto derivino alla
donna la morte o lesioni gravi o gravissime, sempre nell’ambito della richiamata categoria dei delitti
aggravati dall’evento, sono previsti inasprimenti di pena. È evidente che le lesioni personali sopra indicate
non debbono costituire una conseguenza normale dell’aborto.
ACCELLERAZIONE DEL PARTO QUALE CONSEGUENZA DI LESIONI VOLONTARIE. Il terzo comma
dell’art 18 della legge 22 maggio 1978, n. 194 contempla il fatto di chi, con azioni dirette a cagionare
lesioni alla donna, provochi l’accelerazione del parto. Questa figura è stata inserita nel sistema dalla legge
per supplire all’abrogazione dell’art. 583 comma 1 che considera appunto l’acceleramento del parto tra le
lesioni personali gravi. La figura in esame contempla l’acceleramento preterintenzionale conseguente a
lesioni volontarie sulla donna. E poiché l’art. 17 ha riguardo al parto prematuro colposo, resta scoperta la
previsione specifica del parto prematuro doloso.
ABORTO VOLONTARIO COMMESSO CON VIOLAZIONE DEGLI ARTICOLI 5 E 8 DELLALEGGE 22
MAGGIO 1978, N. 194. Ai sensi dell’art. 19 comma 1 è chiamato a rispondere chiunque cagiona
l’interruzione volontaria della gravidanza senza l’osservanza delle modalità indicate agli art. 5 e 8. In questi
articoli sono contemplate alcune modalità:
Obbligo degli appartenenti ai consultori ed alle strutture sociosanitarie di garantire i necessari
accertamenti medici, di esaminare la donna e il padre del concepito col consenso della prima;
Obbligo del medico di fiducia della partoriente di compiere gli accertamenti sanitari necessari;
Obbligo di rilasciare, ove l’intervento si riveli urgente, una conforme attestazione;
28 Obbligo dei medici del servizio ostetrico di verificare l’inesistenza di controindicazioni sanitarie prima di
praticare l’aborto;
Divieto di praticare l’aborto in case di cura non autorizzate dalla regione.
L’elenco delle modalità da osservare è così significativo da documentare di per sé la censura di
indeterminatezza sopra espressa da chiarire perché la dottrina abbia cercato di elaborare criteri restrittivi
di interpretazione. L’indagine sulla volontà della donna deve tenere conto dei principi generali che
presiedono all’accertamento della validità e rilevanza delle manifestazioni del volere.
Costituiscono circostanze aggravanti l’essere derivate dai fatti sopra indicati la morte o una lesione
gravissima o grave non volute dalla gestante, nonché, per chi procura l’interruzione della gravidanza,
l’avere egli sollevato obiezione di coscienza.
ABORTO VOLONTARIO COMMESSO CON VIOLAZIONE DEGLI ARTICOLI 6 E 7 DELLA LEGGE. Tale
reato è previsto al terzo comma dell’art. 19. L’art. 6 chiarisce che dopo i primi novanta giorni l’aborto
volontario può essere praticato:
Quando la gravidanza e il parto comportino un grave pericolo per la donna;
Quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del
nascituro, che determino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
L’art. 7, sempre in relazione all’interruzione volontaria della gravidanza dopo i primi novanta giorni,
prevede le seguenti modalità di intervento:
Accertamento dei processi patologici da parte di un medico del servizio ostetrico dell’ente ospedaliero
in cui deve praticarsi l’intervento e relativa certificazione;
Obbligo di fornire la documentazione e di comunicare la certificazione al direttore sanitario
dell’ospedale nel caso di intervento da praticarsi immediatamente;
Obbligo di salvaguardare la vita del fato quando sussista la possibilità di una esistenza autonoma di
quest’ultimo;
Obbligo nel caso suddetto, di praticare l’aborto solo quando la gravidanza e il parto comportino un
grave pericolo per la vita della donna.
Può sussistere l’aggravante dell’art. 20 (reato commesso da chi abbia sollevato obiezione di coscienza).
Sono del pari contemplate le aggravanti dell’essere derivata la morte o una lesione gravissima o grave.
ABORTO VOLONTARIO SU DONNA MINORE O INTERDETTA AL DI FUORI DEI CASI DEGLI
ARTICOLI 12 E 13 O VIOLANDO LE MODALITA’ DA ESSI PREVISTE. L’art. 12 prescrive quali casi e
modalità:
La richiesta personale della donna;
L’assenso di chi esercita la potestà o la tutela;
Se questo è impedito o sconsigliato per seri motivi, o rifiutato o segni il contrasto di opinioni tra più
legittimati a darlo, gli appartenenti al consultorio o alla struttura medico-sanitaria o il medico di fiducia
devono attuare gli adempimenti previsti dall’art. 5 e trasmettere, entro sette giorni, motivata richiesta
al giudice tutelare;
Quest’ultimo deve sentire la donna e può, entro cinque giorni, autorizzarla a decidere l’interruzione
della gravidanza;
Dopo i primi novanta giorni, indipendentemente dall’assenso di chi esercita la potestà o la tutela, si
applicano le procedure dell’art. 7.
L’art. 13 (relativo alle interdette) stabilisce i seguenti casi e modalità:
Obbligo di sentire il parere del tutore se la richiesta è presentata dall’interdetta o dal marito;
Obbligo di accertare la conferma della gestante nei casi richiesti dal tutore o dal marito;
Obbligo per il medico del consultorio o struttura sociosanitaria o di fiducia di trasmettere al giudice
tutelare, entro sette giorni dalla richiesta, una relazione contenente ragguagli sulla domanda, su chi
l’ha presentata, sull’atteggiamento della donna, sulla specie e gravità dell’infermità mentale,
accompagnati dal parere del tutore se espresso.
Soggetto attivo del reato è che cagiona l’aborto senza avere accertato l’esistenza dei suddetti presupposti
e modalità. Per la donna, ancorché concorrente, è prevista una causa personale di esenzione dalla pena. È
applicabile la citata aggravante dell’art. 20 per chi procura la interruzione della gravidanza avendo
sollevato obiezione di coscienza e persistendo in essa. Se dal fatto conseguano la morte o lesioni gravi o
gravissime della donna sono previsti aumenti di pena.
ABORTO COLPOSO. Il primo comma dell’art. 17 afferma la responsabilità di “chiunque cagiona ad una
donna per colpa l’interruzione della gravidanza”. Anche qui il termine interruzione della gravidanza è
equivalente ad aborto, come emerge, tra l’altro, in modo inequivoco, dall’esame dell’ipotesi del secondo
comma dell’articolo. Valgono naturalmente i principi che disciplinano i delitti colposi. Costituisce
circostanza aggravante l’essere stato il fatto commesso con violazione delle norme poste a tutela del
lavoro.
PARTO PREMATURO COLPOSO. Ai sensi dell’art. 17 comma 2 è chiamato a rispondere “chiunque
cagiona ad una donna per colpa un parto prematuro”. Il riferimento al parto prematuro è espressione
equivalente, pertanto, a quella sopracitata di acceleramento del parto. Anche in questa fattispecie valgono
i principi generali formulati in materia di reato colposo e costituisce circostanza aggravante la violazione di
norme a tutela del lavoro. 29
TUTELA DEL SEGRETO SU PROCEDURE E INTERVENTI ABORTIVI. L’art. 21 della legge in oggetto reca:
“Chiunque, fuori dei casi previsti all’art. 326 del c.p., essendone a conoscenza per ragioni di professione o
d’ufficio, rivela l’identità di chi ha fatto ricorso alle procedure o agli interventi previsti dalla presente legge,
è punito a norma dell’art. 622 c.p.. Poiché la formulazione iniziale c.d. di riserva fa salve le ipotesi di
rivelazione di segreti d’ufficio, con conseguente applicabilità dell’art. 326 c.p. nei confronti dei pubblici
ufficiali o incaricati di pubblico servizio che, violando i loro doveri o abusando delle loro qualità, abbiano
divulgato notizie capaci di rivelare l’identità delle donne assoggettate a procedure o interventi abortivi, la
figura criminosa in esame risulta assai affine a quella dell’art. 622 c.p.. Tuttavia se ne differenzia per il
maggior rigore. Infatti:
Manca la nota di antigiuridicità speciale che nell’art. 622 toglie rilievo penale alla rivelazione per giusta
causa;
Basta alla consumazione del reato la divulgazione di informazioni idonee a rivelare l’identità della
donna o comunque di chi abbia fatto ricorso alle procedure o interventi di legge;
Non è espressamente prevista la possibilità di un nocumento;
L’interprete è di fronte a un delitto procedibile d’ufficio.
Si è voluta negare quest’ultima caratteristica con rilievi desunti dai lavori preparatori, ma la formula che
rinvia all’art. 622 ha per oggetto la punibilità, non la procedibilità e consente soltanto di ritenere
applicabili la pene comminate dall’articolo suddetto.
RISSA
L’art. 588 punisce “chiunque partecipa ad una rissa”. Il solo fatto di prendere parte ad una rissa basta per
dar vita al reato, mentre il codice precedente esigeva per la punibilità la condizione che nella zuffa alcuno
fosse rimasto ucciso o avesse riportato una lesione personale. Nel diritto attuale la rissa non è punita a
causa della incertezza sulla responsabilità dei singoli partecipanti derivante dalle condizioni in cui di regola
si verifica, ma perché il fatto espone a pericolo la vita e l’incolumità delle persone e nel tempo stesso
importa la minaccia di un turbamento per l’ordine pubblico. Questa è la ratio dell’incriminazione.
Per l’esistenza della rissa occorre che vi sia una mischia violenta con vie di fatto. Si discute sul numero
minimo di persone indispensabile per l’esistenza di questo delitto, il quale senza alcun dubbio appartiene
alla larga categoria dei reati plurisoggettivi. Alcuni autori ritengono che siano sufficienti due persone e in
questo senso si è pronunciata varie volte la Cassazione. A nostro avviso è preferibile l’opinione di chi
considera necessaria la presenza di almeno tre soggetti. La legittima difesa, anche in questo reato, esclude
l’antigiuridicità e, perciò, non c’è rissa se un gruppo di individui aggredisce ingiustamente un altro gruppo il
quale si difenda, sia pure dando luogo ad una mischia violenta. Naturalmente la rissa sussiste se
l’aggressione è reciproca.
Per l’esistenza del dolo occorre la coscienza e la volontà di partecipare alla contesa violenta.
Il codice considera come circostanza aggravante quell’evento che nel codice precedente era condizione di
punibilità del reato. Dispone infatti l’art. 588: “Se nella rissa taluno rimane ucciso, o riporta lesione
personale, la pena, per il solo fatto della partecipazione alla rissa, è della reclusione da tre mesi a cinque
anni. La stessa pena si applica se l’uccisione, o la lesione personale, avviene immediatamente dopo la rissa
e in conseguenza di essa”. Questa disposizione configura un caso di responsabilità oggettiva, giacché
l’evento è posto a carico dei corrissanti a prescindere da ogni indagine di carattere psicologico, e cioè
indipendentemente dal concorso del dolo o della colpa. È indifferente per l’applicabilità dell’aggravante che
l’uccisione o la lesione personale, dolosa o colposa, incida su un corrissante o un estraneo. L’aggravante si
applica anche al rissante che abbia subito una lesione personale e a colui che sia intervenuto dopo che si è
verificata l’uccisione o la lesione personale; non ha chi è receduto prima. La lesione produce l’aggravamento
della anche se è perseguibile a querela di parte.
La rissa assorbe il reato di percosse, e ciò in base al disposto del comma 2 dell’art. 581. Tutti gli altri reati
che siano commessi durante la rissa concorrono con questa, secondo le regole generali.
OMISSIONI DI ASSISTENZA E DI SOCCORSO
Tali delitti consistono in violazioni di obblighi di custodia o di assistenza, imposti dalla legge al fine di
tutelare l’incolumità di individui, che per le loro condizioni d’età o per altre circostanze, si trovano esposti a
pericolo.
ABBANDONO DI PERSONE MINORI O INCAPACI. Viene contemplato alternativamente il fatto di chi
“abbandona una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di corpo
o di mente, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale abbia custodia o debba
avere cura”, e il fatto di colui che “abbandona all’estero un cittadino italiano minore degli anni diciotto a lui
affidato nel territorio dello Stato per ragioni di lavoro”.
Presupposto della condotta, per ciò che concerne l’abbandono di un minore degli anni quattordici, è la
preesistenza di una situazione, anche di mero fatto, a ragione della quale il minore si possa ritenere nella
sfera di sorveglianza del soggetto agente. In relazione all’incapace o al minore abbandonato all’estero, il
semplice fatto dell’abbandono non dà vita alla fattispecie in esame, se con esso non si viola uno specifico
dovere di custodia o di cura che trovi il suo fondamento fuori dall’art. 591 o nell’affidamento per ragioni di
lavoro. La custodia si riferisce al singolo e preciso dovere di sorveglianza, mentre la cura è espressione
30 riassuntiva che comprende tutte le prestazioni e cautele protettive di cui abbia bisogno una persona
incapace di provvedere a se stessa. Soggetto passivo può essere soltanto una delle persone espressamente
indicate nella norma in esame. L’abbandono consiste nel lasciare la persona in balia di se stessa o di terzi
che non siano in grado di provvedere adeguatamente alla custodia e cura, in modo che ne derivi un pericolo
per la vita e l’incolumità della persona medesima. Se il pericolo non si verifica, il delitto deve escludersi per
difetto di offesa dell’interesse tutelato. La condotta può essere così positiva o negativa. Il delitto si consuma
con l’abbandono e, poiché, questo può protrarsi per un certo tempo, si tratta di un reato eventualmente
permanente. Il dolo esige la coscienza del pericolo inerente all’abbandono. Il delitto è aggravato se:
Dal fatto derivi la morte o una lesione personale;
Il fatto sia commesso dal genitore, dal figlio, dal tutore, o dal coniuge, ovvero dall’adottato o
dall’adottante.
Naturalmente qualora la lesione o la morte siano volute il colpevole di abbandono risponderà pure del
delitto di lesioni personali o di omicidio.
OMISSIONE DI SOCCORSO. All’art. 593 sono contemplate due ipotesi. La prima si ha quando taluno,
“trovando abbandonato o smarrito un fanciullo minore degli anni dieci, o un’altra persona incapace di
provvedere a se stessa, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia o per altra causa, omette di darne
immediato avviso all’Autorità”. La seconda ipotesi consiste nel fatto di “chi, trovando un corpo umano che
sia o sembri inanimato ovvero una persona ferita o altrimenti in pericolo, omette di prestare l’assistenza
occorrente o di darne immediato avviso all’Autorità”. Perché possa applicarsi la norma in esame, è
necessario che non sussista un dovere particolare di assistenza, penalmente sanzionato. Quando ciò si
verifichi, infatti, si applica la norma speciale (ad es. l’art. 328: omissione di atti d’ufficio).
Presupposto della condotta criminosa è il trovare abbandonato o smarrito un incapace, oppure un corpo
umano che sembri inanimato o una persona ferita o altrimenti in pericolo. Trovare qui significa imbattersi.
Soggetto attivo può essere anche chi con la propria azione ha posto in pericolo la persona, compreso colui
che dolosamente o colposamente le abbia cagionato una lesione personale, nel quale caso egli risponderà
di due reati. La condotta di cui alla prima ipotesi dell’art. 593 consiste nell’omettere di dare avviso
all’Autorità del ritrovamento. Nell’ipotesi di cui al secondo comma la condotta incriminata è posta in
essere con l’omettere di prestare l’assistenza occorrente o di dare immediato avviso all’Autorità. L’obbligo
cessa senza dubbio nel caso in cui il soggetto per la sua età, per le sue condizioni particolari o per altre
cause si trovi nell’assoluta impossibilità di adempierlo. Non cessa per il solo fatto che l’adempimento
esporrebbe il soggetto ad un pericolo personale, perché la norma contenuta nell’art. 593, mirando a
rafforzare il sentimento della solidarietà umana, eleva il coraggio a dovere giuridico. Il soggetto potrà
sottrarsi alla responsabilità solo quando ricorrano gli estremi dello stato di necessità (art. 54), e cioè
quando sia costretto all’omissione dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno
grave alla persona, non altrimenti evitabile. Il delitto si consuma nel momento dell’omissione ed ha
carattere istantaneo.
Il dolo consiste nella volontarietà dell’omissione, accompagnata dalla conoscenza di tutti gli elementi
compresi nella fattispecie legale. Il delitto è aggravato se dalla condotta del colpevole deriva una lesione
personale o la morte.
CONTRAVVENZIONI CONCERNENTI LA PREVENZIONE DI DELITTI CONTRO LA VITA E
L’INCOLUMITA’ INDIVIDUALE
La tutela dei beni della vita e dell’incolumità individuale è integrata nel nostro codice con alcune
disposizioni che configurano dei reati contravvenzionali. Si tratta delle Trasgressioni alla disciplina delle
armi che sono contemplate nel libro terzo negli articoli dal 695 al 702. La funzione sussidiaria di tali norme
rispetto a quelle che prevedono i delitti esaminati è troppo evidente per richiedere spiegazioni. La nozione
delle armi è data dall’art. 585 del codice, il quale nel comma 2 reca: “Agli effetti della legge penale, per
armi si intendono:
1. quelle da sparo e tutte le altre la cui destinazione naturale è l’offesa alla persona;
2. tutti gli strumenti atti ad offendere, dei quali è dalla legge vietato il porto in modo assoluto, ovvero
senza giustificato motivo”.
Le armi di cui al primo comma sono dette proprie; quelle di cui al secondo comma si dicono improprie. La
legge di Pubblica Sicurezza all’art. 42 vieta in modo assoluto di portare fuori della abitazione proprie e delle
appartenenze di essa, le mazze ferrate o bastoni ferrati, gli sfollagente e le noccoliere, mentre vieta di
portare senza giustificato motivo i bastoni muniti di puntali acuminati, nonché tubi, catene, fionde, bulloni,
sfere metalliche e altri strumenti atti ad offendere.
Il nostro legislatore ha ritenuto opportuno fornire una nozione più ristretta di armi, nozione che coincide con
quella offerta dell’art. 30 della legge di Pubblica Sicurezza. L’art. 704 del codice, infatti, stabilisce che agli
effetti delle disposizioni relative alle dette contravvenzioni per armi si intendono:
quelle indicate nel n. 1 del capoverso dell’art. 585;
le bombe, qualsiasi macchina o involucro contenente materie esplodenti, ovvero gas asfissianti o
accecanti”.
È opportuno sottolineare che la sfera di efficacia è sottoposta a notevoli limiti per effetto delle citate leggi
speciali. Una volta per tutte ricordiamo che sfugge ad essa la disciplina delle armi da guerra o tipo-guerra,
31
loro parti. Munizioni, esplosivi, aggressivi chimici e congegni micidiali, nonché quelle delle armi comuni
da sparo atte all’impiego, o parti di esse, di cui all’art. 2 l. 18 aprile 1975, n. 110, eccezion fatta per il
porto d’armi abusivo conseguente a mancanza di validità della licenza per omesso pagamento della tassa di
concessione governativa.
FABBRICAZIONE O COMMERCIO NON AUTORIZZATO DI ARMI (695 e 696). Il primo articolo
contempla il fatto di chi, senza la licenza dell’Autorità, fabbrica o introduce nello Stato, o esporta, o pone
comunque in vendita armi, ovvero ne fa raccolta per ragioni di commercio o d’industria”. Nel capoverso
dell’art. 695 è sancita una pena minore per il caso che si tratti di collezioni di armi artistiche, rare o
antiche. L’art. 696, d’altra parte, punisce chiunque esercita la vendita ambulante di armi, vendita che è
vietata dall’art. 37 della legge di Pubblica Sicurezza. Per effetto delle leggi speciali l’applicazione di tali
norme è oggi limitata alle armi bianche (cioè pugnali, spade).
DETENZIONE ABUSIVA DI ARMI (697). Sono previste due ipotesi, che costituiscono tipi distinti di reato.
La prima consiste nel fatto di chi detiene armi o munizioni senza averne fatto denuncia all’Autorità, quando
la denuncia è richiesta. La seconda ipotesi si concreta nel comportamento di colui che, avendo notizia che
in un luogo da lui abitato si trova armi o munizioni, omette di farne denuncia all’Autorità. L’efficacia della
contravvenzione, per l’intervento delle numerose leggi speciali, è oggi limitata alle armi da punta e taglio
ed alle munizioni per armi comuni da sparo. Scopo della norma è di rendere agevole all’Autorità di polizia
di conoscere tempestivamente le persone che detengono le armi e le munizioni ai fini di poter esercitare gli
opportuni controlli. L’obbligo di denuncia sta a carico dei detentori che tali siano a qualsiasi titolo,
legittimo o illegittimo. Ogni modificazione nelle specie e nella quantità di armi o di munizioni e anche ogni
cambiamento di luogo impone la denuncia. L’aver iniziato pratiche per conseguire la licenza e persino
l’averla ottenuta non esime da tale obbligo. Il reato è senza dubbio di carattere permanente.
OMESSA CONSEGNA DI ARMI (698). Viene punito chiunque trasgredisce all’ordine, legalmente dato
dall’Autorità, di consegnare nei termini prescritti le armi o le munizioni da lui detenute. In questa
contravvenzione incorre anche chi abbia già denunciato le armi detenute ed è superfluo dire che la
consegna tardiva non esclude la sussistenza del reato. La proroga del termine di consegna da parte del
Prefetto dopo il rinvenimento dell’arma, secondo l’opinione preferibile, elimina nel fatto il carattere
dell’illiceità.
PORTO ABUSIVO DI ARMI (699). Incorre in questa contravvenzione chiunque, senza la licenza
dell’Autorità, quando la licenza è richiesta, porta un’arma fuori della propria abitazione o delle
appartenenze di essa. Una forma più grave del reato è contemplata nel comma 2 dell’art. 699 e ricorre
quando taluno, fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa, porta un’arma per cui non è
ammessa la licenza. Portare significa tenere indosso o comunque a portata di mano l’arma, in modo che il
soggetto possa farne uso. In ambedue le forme la contravvenzione a aggravata , se il fatto è compiuto in
cui sia concorso o adunanza di persone, o di notte in un luogo abitato.
OMESSA CUSTODIA DI ARMI (702, REATO ABROGATO). La contravvenzione contemplava il fatto di
colui che, anche se provveduto della licenza di porto d’armi:
consegna o lascia portare un’arma a persona di età minore dei quattordici anni o a qualsiasi persona
incapace o inesperta nel maneggio di essa;
trascura di adoperare nella custodia di armi, le cautele necessarie a impedire che alcuna delle persone
indicate nel numero precedente giunga ad impossessarsene agevolmente;
porta un fucile carico in un luogo ove sia adunanza o concorso di persone.
DISPOSIZIONI COMUNI. Per tutte le contravvenzioni esaminate, esclusa l’ultima, è circostanza
aggravante il fatto che l’autore sia una delle persone alle quali la legge vieta di concedere licenza, nonché il
fatto che la licenza sia stata negata o revocata. Così dispone l’art. 700, facendo richiamo all’art. 680. Il
condannato per alcuna delle contravvenzioni predette può essere sottoposto alla misura di sicurezza della
libertà vigilata (art. 701).
REATI CONTRO LA LIBERTA’ PERSONALE
LA VIOLENZA E LA MINACCIA IN GENERALE
Prima di analizzare le varie figure criminose, occorre esaminare i concetti di violenza e minaccia che stanno
alla base della maggior parte di esse. Violenza è l’impiego dell’energia fisica per vincere un ostacolo, reale o
supposto. La violenza può esercitarsi sulle persone oppure sulle cose. Della violenza reale il codice fornisce
una nozione nel capoverso dell’art. 392, statuendo: “Agli effetti della legge penale, si ha violenza sulle cose,
allorché la cosa viene danneggiata o trasformata o ne è mutata la destinazione”. Minaccia, d’altra parte ,
consiste nel prospettare ad una persona un male futuro, il cui avverarsi dipende dalla volontà dell’agente.
Bisogna che su tale male l’agente possa influire, e cioè che esso possa essere da lui determinato o non
impedito. Se fa difetto questa condizione si ha semplice avvertimento. Il male minacciato può riguardare
non solo la vita e l’incolumità fisica, ma anche la libertà, il pudore, l’onore della persona. Non sono esclusi i
beni patrimoniali (minaccia della distruzione di un bene). Deve però concernere un bene giuridicamente
rilevante e, perciò, non può essere oggetto di minaccia, ad es., il togliere l’amicizia o l’invocare un castigo
divino. La minaccia implica certamente la prospettazione di un male futuro, mentre la violenza implica un
male attuale. Tanto la violenza quanto la minaccia sono spesso usate per recare direttamente al paziente
32 un danno, vale a dire per ledere o porre in pericolo un suo interesse legittimo. Ma esse possono essere
anche adoperate col fine specifico di coartarne la volontà.
LA VIOLENZA O MINACCIA COME MEZZI COERCITIVI DELLA VOLONTA’ ALTRUI
Conviene distinguere la violenza propria dalla violenza impropria. La violenza propria comprende ogni
energia fisica adoperata dal soggetto sul suo paziente per annullarne o limitarne la capacità di
autodeterminazione. La violenza impropria comprende ogni altro mezzo che produca il medesimo risultato,
esclusa la minaccia. Pertanto costituiscono violenza impropria tutte le attività insidiose con cui il soggetto
viene posto, totalmente o parzialmente, nell’impossibilità di volere o di agire. L’impiego di tali mezzi è
considerato dal diritto come violenza. Inoltre, la violenza impropria può consistere anche in una semplice
omissione, come nel caso che sia fatto mancare il cibo ad un individuo incapace di procurarselo da sé per
indurlo ad un dato comportamento. Per quanto concerne la minaccia non basta il preannunzio di un male
futuro che dipende dall’agente cagionare o non impedire: occorre che tale male venga posto come
alternativa. In ciò consiste la coercizione.
Generalmente nella dottrina e nella giurisprudenza si distingue la vis physica dalla vis compulsiva,
ravvisandosi la seconda esclusivamente nella minaccia. Mentre la prima annullerebbe completamente il
potere di autodeterminazione, la seconda lo lascerebbe in parte sussistere.
Così per la violenza, come per la minaccia, considerate quali mezzi coercitivi della volontà, valgono in
generale le seguenti regole, salvo le precisazioni che saranno prospettate nell’esame delle singole figure
delittuose:
1. l’idoneità del mezzo ai fini della coartazione della volontà va giudicata secondo la particolarità del caso
concreto, e cioè tenendo del tempo, del luogo, delle modalità dell’azione e, soprattutto, delle
condizioni personali della vittima;
2. alla violenza o minaccia esercitata sulla vittima equivale quella che sia diretta ad una terza persona
legata alla prima da un vincolo particolare di affetto e di solidarietà.
Forme speciali di coercizione della volontà sono quelle previste nell’art. 46 e nell’ultimo comma
dell’art. 54. In queste ipotesi la violenza e la minaccia vengono in considerazione come cause di
esclusione della punibilità della persona che, subentra l’una o l’altra, commetta un fatto che
costituisce reato.
VIOLENZA PRIVATA
Sotto tale denominazione possono essere ricomprese tre figure delittuose e pi precisamente:
VIOLENZA PRIVATA TIPICA. È prevista nell’art. 610 e consiste nel fatto di colui che, “con violenza o
minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa”. Scopo della norma in parola è la
necessità di tutelare quella possibilità di determinarsi spontaneamente, secondo motivi propri, che
rappresenta uno degli aspetti essenziali della libertà personale e che generalmente è detta libertà morale.
L’elemento oggettivo è costituito da una violenza o da una minaccia che abbiano l’effetto di costringere
taluno a fare, tollerare od omettere qualche cosa. La violenza o la minaccia debbono essere rivolte ad
ottenere dal soggetto passivo una data azione od omissione.
Per il codice in vigore l’avvenuto costringimento costituisce requisito essenziale del reato. Esso, quindi, ne
segna la consumazione. Se il costringimento non si verifica, potrà aversi il tentativo, sempre che ne
ricorrano gli estremi.
Il fatto deve essere illegittimo. L’illegittimità è esclusa soltanto quando ricorra una specifica causa di
giustificazione, in forza della quale l’agente abbia la facoltà giuridica imporre una determinata condotta al
paziente.
L’elemento psicologico consiste nella coscienza e volontà di usare violenza o minaccia, prevedendo che altri
farà, tollererà od ometterà qualche cosa. Trattasi di dolo generico.
Il delitto è aggravato se ricorrono le condizioni prevedute dall’art. 339 del codice, e, cioè se la violenza o la
minaccia è commessa con armi, o da persona travisata, o da più persone riunite o con scritto anonimo, o in
modo simbolico, o valendosi della forza intimidatrice derivante da segrete associazioni, esistenti o supposte.
VIOLENZA O MINACCIA PER COSTRINGERE A COMMETTERE UN REATO. Con l’art. 611 viene
incriminata la violenza o la minaccia viene usata per costringere o determinare altri a commettere un fatto
costituente il reato. L’azione tipica di questa figura di reato consiste nel semplice ricorso alla violenza o alla
minaccia per conseguire il fine ora indicato. L’elemento psicologico si riassume nell’intenzione di usare
violenza o minaccia per costringere o determinare taluno a commettere un reato. In questo caso è indubbio
che il dolo richiesto è specifico. Se il soggetto passivo commette il reato, ne risponderà sempre chi lo ha
costretto o determinato. Quanto alla responsabilità della persona coartata, essa sarà, a seconda delle
circostanze, regolata dall’art. 46, dall’art. 54 o dalle norme sul concorso di più persone nel reato. Il delitto,
come il precedente, è aggravato, se concorrono le condizioni indicate nell’art. 339 del codice.
STATO DI INCAPACITA’ PROCURATO MEDIANTE VIOLENZA (art. 613). Risponde di tale reato
“chiunque, mediante suggestione ipnotica o in veglia, o mediante somministrazione di sostanze alcoliche o
stupefacenti, o con qualsiasi altro mezzo, pone una persona, senza il consenso di lei, in stato di incapacità
di intendere o di volere”. Per l’esistenza del reato non è necessario che si verifichi un danno alla persona;
basta che si realizzi uno stato di incapacità, nel quale la legge ravvisa una situazione di pericolo per lo
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