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Lo schema della rapina semplice (c.d. propria) è delineato dall'art. 628 c. 1: chiunque, per
procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, mediante violenza alla persona o minaccia, si
impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, è punito con la reclusione da 3 a
10 anni e con la multa da € 516 a € 2065.
Abbiamo qui una condotta attuata mediante violenza o minaccia, attraverso la quale un soggetto si
impossessa di una cosa mobile altrui con un dolo che questa volta si presenta nella forma
dell'ingiusto profitto (quindi il momento di consumazione si ha al completamento di questi due
comportamenti). Caso classico è quello in cui Tizio entra armi in pugno in banca e, minacciando
dipendenti e clienti, prende il denaro e si allontana: violenza e minaccia naturalmente sono
strumentali alla realizzazione dell'impossessamento.
Diverse sono le ipotesi in cui detto reato può fermarsi al tentativo: si pensi al soggetto che non
riesca nemmeno a concretizzare la violenza o la minaccia (se ad esempio i carabinieri, a seguito di
una soffiata, intercettano i rapinatori prima che questi entrino in contatto con le persone da rapinare;
certo comunque che in un caso del genere un bravo avvocato potrebbe far leva sulla non univocità
dei comportamenti, sostenendo ad esempio che se i presunti rapinatori sono stati fermati in un
momento troppo anticipato non sussiste neanche il tentativo); ma la rapina rimane a livello di
tentativo anche se, compiuta la violenza o minaccia, fallisce l'impossessamento. Viceversa, se
mediante violenza o minaccia si giunge all'impossessamento, il reato è consumato.
Ma proprio in tal caso si prospettano gli stessi problemi a cui si è accennato in materia di furto:
quando si realizza l'impossessamento? Quando il soggetto ha messo le mani sul denaro o quando
consolida tale situazione, raggiungendo quindi una certa autonomia? Come detto a tal proposito la
giurisprudenza non è univoca, e ciò si riflette anche in materia di rapina.
Dunque la rapina propria presenta tale sequenza temporale: violenza o minaccia cui segue
l'impossessamento. Tendenzialmente, quando la rapina è poco complessa, è chiaro che non
trascorrerà molto tempo tra i due segmenti (peraltro possono anche darsi casi di contemporaneità
dei due comportamenti), la qual cosa può invece accadere in caso di rapina più articolata.
Rapina impropria.
L'art. 628 c. 2 prosegue poi individuando la c.d. rapina impropria (forse meno nota), che si
caratterizza per una particolarità sul piano degli elementi costituitivi: alla stessa pena soggiace chi
adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione, per assicurare a sé o ad altri il
possesso della cosa sottratta, o per procurare a sé o ad altri l'impunità.
Tale disposizione fa riferimento ad una prima fase in cui c'è sottrazione della cosa (che non è
ancora necessariamente impossessamento), ed una fase immediatamente successiva in cui viene
compiuta violenza o minaccia per consolidare la situazione o per conseguire l'impunità.
Il legislatore, pur di fronte ad un fenomeno che dal punto di vista criminologico è considerato un po'
diverso dalla rapina propria, commina la medesima pena prevista dal c. 1: inoltre le aggravanti di
cui al c. 3 si riferiscono anche alla rapina impropria. Qualcuno mette in discussione tale
equiparazione: si afferma che, in fin dei conti, la rapina impropria è un furto finito male (il ladro
perde il controllo della situazione e attua una condotta che non aveva preventivato). Ciò che è vero
è che a volte la reazione può essere semplicemente istintiva e non in qualche modo premeditata, ma
di tale circostanza non si può mai essere del tutto certi: di conseguenza, se può apparire a volte un
po' eccessivo equiparare alla rapina un comportamento inizialmente configurabile come un banale
furto (basta poco, si pensi al soggetto che al supermarket prende una cosa e dà una spinta al
vigilante), è anche vero che possono darsi situazioni in cui non è chiaro se il soggetto agente avesse
già previsto la possibilità di reagire di fronte ad un eventuale ostacolo (peraltro qui, riuscendo a
dimostrare un intento del genere, non ha più particolare importanza il rovesciamento delle condotte
operato dal c. 2 rispetto al c. 1: in altre parole non c'è molta differenza tra rapina propria ed
impropria). Dato ciò, può non essere del tutto corretto affermare che la rapina impropria è frutto di
un eccesso di rigorismo dell'ordinamento penale: tra l'altro non si tratta di un'invenzione del codice
del '30 ma è più risalente.
Proprio questa riserva mentale circa l'equiparazione tra le due rapine gioca un ruolo fondamentale
nel configurare un problema preso in considerazione anche dalle Sezioni Unite (sentenza depositata
il 12 settembre 2012): infatti, mentre è assolutamente indiscutibile che si possa configurare un
tentativo di rapina propria, stranamente si è fortemente dubitato della configurabilità di un
tentativo di rapina impropria, nascendo tale dubbio dalla struttura dell’art. 628 c. 2.
Il problema è stato impostato in questi termini: il tentativo di rapina impropria, a tutto concedere, è
possibile soltanto in caso di tentativo di violenza o minaccia mentre, quanto alla sottrazione, la
norma richiede inevitabilmente che vi sia (il che sembra significare che il reato di rapina impropria
non nasce come tale, ma diventa rapina solo in un secondo momento). L’elemento caratterizzatore
sarebbe perciò la violenza o minaccia successiva alla sottrazione, essendo quindi possibile ravvisare
un tentativo solo in riferimento a questa condotta. Sennonché, sul piano statistico ciò non si verifica
mai: se un soggetto ha sottratto la cosa, nel momento in cui qualcuno lo ostacola tendenzialmente
tiene un certo comportamento, abbozza una reazione (seppur contenuta; oppure accade che chi lo
fronteggia sia molto rapido nel neutralizzarlo), e con ciò ha già perlomeno realizzato un
comportamento minaccioso. In altre parole, il tentativo di violenza è già di per sé una minaccia.
E allora, se così è, non stiamo parlando di un tentativo di rapina impropria, ma di una rapina
impropria consumata. In realtà scolasticamente si potrebbe affermare che sia configurabile un
tentativo di minaccia, ad esempio una lettera minatoria che non giunge al destinatario perché
intercettata, ma ben si capisce che si tratta di ipotesi che non si attagliano alla dinamica propria di
un furto che si trasforma in una rapina impropria.
Un problema di incompletezza, in relazione al percorso descritto dal c. 2, si pone invece
nell’ipotesi di un soggetto che tenti di sottrarre la cosa e, venendo scoperto, non insista nel portarla
via ma compia violenza o minaccia finalizzata a conseguire l’impunità. Questa situazione è
assistita da una giurisprudenza consolidata che in questi casi ravvisa un tentativo di rapina
impropria, a cui si obbietta però (tesi minoritaria) che la norma richiede che sia già avvenuta la
sottrazione. Chi ragiona in questi ultimi termini suggerisce di spezzare in due l'episodio,
costruendolo come la combinazione tra furto tentato e altre fattispecie, quali la violenza privata o la
resistenza a pubblico ufficiale. La discussione non è peraltro meramente teorica, poiché questa
seconda soluzione è certamente più favorevole all'autore del fatto. Tentativo di furto significa un
minimo di 6 mesi diminuibile fino a 2/3 (2 mesi), e se il reato successivo è una violenza privata, di
cui il minimo è 15 gg., anche sommando le due sanzioni la pena potrà essere molto contenuta;
viceversa, qualificando la vicenda come rapina impropria tentata, l'abbattimento va compiuto sulla
cornice edittale di cui all’art. 628, con un minimo di tre anni che può scendere fino ad un anno. In
riferimento poi al reato di resistenza a pubblico ufficiale, esiste una giurisprudenza granitica che
sostiene che lo stesso non sia assorbito dalla rapina consumata o tentata (sarà quindi chiamato in
concorso): gli interessi tutelati sono infatti diversi, e perciò non è possibile riconoscere nel
comportamento tenuto nei confronti del pubblico ufficiale un’aggravante quale, ad esempio, quella
di cui all’art. 61 n. 10.
La posizione di chi nega la configurabilità del tentativo, tendendo invece a spezzare l’episodio, a
volte utilizza a sostegno l’argomento secondo il quale la sottrazione è presupposto del reato di
rapina impropria. Ma le Sezioni Unite hanno reagito a questa tesi (peraltro non accettata anche da
una parte dei fautori del diniego di tentativo di rapina impropria): in effetti, qualificare la
sottrazione come presupposto del reato è concettualmente sbagliato, perché il concetto di
“presupposto” individua una situazione giuridica o di fatto che preesiste al reato e che non è oggetto
di una valutazione negativa da parte dell’ordinamento. In altre parole, i presupposti di un reato sono
sempre esterni alla condotta penalmente rilevante. Ad esempio, in tema di appropriazione indebita,
il soggetto è già in possesso della cosa ad un determinato titolo: questo è il presupposto, e
naturalmente non è vietato avere il possesso della cosa, ma è vietata la condotta appropriativa. Si
pensi al già menzionato esempio del titolare di una ditta di traslochi il quale sottragga alcuni beni:
egli detiene il possesso delle cose a lui affidate, e questa situazione non è assolutamente vietata,
anzi è tipica del contratto che ha concluso con il proprietario. Ancora più clamorosa l’ipotesi del
reato di aborto non consentito dalla l. 194/1978: è chiaro che sussiste un presupposto fattuale (la
gravidanza) il quale non è vietato.
Per quanto appena detto, affermare che la sottrazione sia presupposto della rapina impropria
equivale a qualificare la stessa come un fatto del tutto neutro. Ciò naturalmente non può essere
corretto, essendo invece evidente che la sottrazione è la prima parte della condotta penalmente
rilevante della rapina impropria: infatti il messaggio dato dal legislatore attraverso la previsione di
cui al c. 2 è il medesimo, seppur capovolto, di cui al c. 1 (si vuole impedire che vi sia sottrazione di
cosa altrui accompagnata da condotte violente o minacciose sulla persona).
A questo punto, appurato che la sottrazione non è presupposto ma parte integrante della condotta, è
inevitabile che la stessa sia suscettibile di tentativo (si incrimina quindi anche chi tenta di sottrarre
la cosa e compie violenza o minaccia). A ciò si potrebbe apparentemente obiettare che la norma
colloca la viole