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EQUO INDENNIZZO”.
C’è però anche chi inquadra questa ipotesi come indennizzo, il che non è esattamente un
risarcimento (cioè equiparazione del danno, tra l’altro in via equitativa) e lo fa rientrare nella
categoria del riscontro di danni provenienti da attività lecita.
Per che non è possibile tutelare un bene patrimoniale?
Perché la norma scriminante tutela l’agire di colui che difende la persona dal danno grave.
Questioni giurisprudenziali inerenti l’invocazione dello stato di necessità.
- Comportamenti costituenti reato, inerenti all’abitazione abusiva di appartamenti destinati a edilizia
popolare non assegnati: la Cassazione ammette che tra i diritti tutelabili ai sensi dell’art. 54 ci può
essere l’applicazione dello stato di necessità, quando gli immobili sono pubblici e le condizioni
degli occupanti precarie (es: ragazza madre, senza reddito con a carico una bambina). Ciò è
determinabile anche attraverso accertamenti da parte dell’autorità che danno luogo al poco
interesse degli assistenti sociali, facendo sì che il pericolo sia “altrimenti evitabile”.
La giurisprudenza previa la verifica che gli addetti ai lavori non hanno trovato una sistemazione
alternativa, ammette che detti comportamenti possono essere sanzionati dall’art. 633 (Invasione di
terreni o edifici).
Casi alternativi:
a) edificazione abusiva su suolo demaniale: è da dimostrare che c’era il pericolo di danno grave
alla persona di colui che ha costruito l’abitazione (es: baracca).
b) Persona che intende tutelare i suoi gatti fuggiti da casa ed entrati all’interno di un alloggio che
essa danneggia infrangendo una finestra la fine di liberarli.
La giurisprudenza tutela la sola persona e non gli animali.
Uso legittimo delle armi o di altri mezzi di coazione fisica (art. 53)
“Ferme le disposizioni contenute nei due articoli precedenti, non è punibile il pubblico ufficiale
che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di far uso delle armi o
di un altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza
o di vincere una resistenza all’Autorità e comunque di impedire la consumazione dei delitti di
strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario,
rapina a mano armata e sequestro di persona (1) .
La stessa disposizione si applica a qualsiasi persona che, legalmente richiesta dal pubblico
ufficiale, gli presti assistenza.
La legge determina gli altri casi, nei quali è autorizzato l’uso delle armi o di un altro mezzo di
coazione fisica.
(1) Comma così modificato dalla L. 22 maggio 1975, n. 152.
Questa è una causa di giustificazione “propria”, nel senso che non è una scriminante invocabile da
tutti, perché appellabile solo da determinate categorie di soggetti che possono agire nell’ambito di
essa: sono genericamente indicati come PUBBLICI UFFICIALI (art. 357).
Il P. U. indica colui che svolge una pubblica funzione di natura amministrativa, legislativa o
giudiziaria, tuttavia la categoria è molto ampia, in quanto anche un professore mentre interroga uno
studente all’esame è un pubblico ufficiale; occorre dare un’interpretazione più restrittiva a questa
indicazione soggettiva: non qualsiasi P.U., ma solo quelli che per la funzione che svolgono e per
l’investitura istituzionale, sono autorizzati dall’ordinamento a detenere e armi e utilizzare mezzi di
coazione fisica (che a volte può corrispondere ad un’arma, come per es. personale appartenente alla
P.S., ai CC, alla G.F., alla Polizia Locale; o altrimenti di coazione fisica, che non sono tipici di tutti i
P.U. – per es. idranti o lacrimogeni).
Questi P.U. dotati di mezzi di coazione possono utilizzarli quando si trovano a fronteggiare una
situazione che viene definita in termini di VIOLENZA o di RESISTENZA all’Autorità.
Il concetto di violenza all’Autorità può vedere lo stesso P.U. o un’autorità pubblica diversa (es: una
struttura pubblica), quindi la norma è facilmente interpretabile parlando di tutte quelle formule che
nel linguaggio penalistico, vengono collocate nell’ambito della violenza (più spesso violenza
propria, altre volte impropria) e comunque intitolate comportamento aggressivo da parte di chi
fronteggia un P.U.
Più ambiguo è il riferimento alla resistenza perché il concetto non ha una sua definizione di
carattere generale e viene utilizzata raramente in disposizioni particolari (es: art. 336, Violenza o
minaccia a p.u. – art.337, Resistenza a p.u.).
Quando si va a valutare da vicino la norma sulla resistenza a pubblico ufficiale ci accorgiamo che
come condotta non si differenzia da quella della violenza a pubblico ufficiale, cioè è anch’essa
costituita da violenza o minaccia, per cui l’aiuto interpretativo che potrebbe derivare da queste due
norme è nullo perché rischierebbe di cancellare l’autonomia del concetto di resistenza.
La resistenza deve avere una porta diversa rispetto alla violenza; a questo punto si apre una
discussione dell’interpretazione autonoma del requisito della resistenza: se questo concetto può
essere ristretto alla c.d. resistenza attiva o se possa estendersi anche alla c.d. resistenza passiva, e ci
si chiede altresì se può essere esteso anche a un comportamento identificabile come fuga.
Resistenza attiva: non è una immediata violenza nei confronti di un P.U., è qualcosa che
- indica una contrapposizione fisica alla sua attività.
Resistenza passiva: è un concetto che implica un’inerzia da parte del soggetto attivo, una
- non collaborazione (non assecondando l’attività, per es. l’arresto).
Fuga: è qualcosa di certamente diverso, non è un’opposizione fisica all’attività, né
- un’inerzia del soggetto, però nell’interpretazione giurisprudenziale i due profili della
resistenza attiva e quello della fuga vengono considerati unitariamente.
Quando il legislatore delinea i presupposti per poter utilizzare armi o altri mezzi di coazione fisica,
fa riferimento soltanto alla resistenza attiva o anche a forme di resistenza passiva?
Per esempio colui che non collabora all’arresto è un problema relativo, comunque, l’impiego di
energia fisica dobbiamo metterla in campo: quindi già un minimo di impiego dell’art. 53 si verifica.
Ma potrebbe anche succedere che la resistenza passiva sia quella di un gruppo di persone, allora la
domanda diventa: “In presenza di questa forma di resistenza passiva è possibile per es. usare gli
idranti per indurre le persone ad allontanarsi e non opporsi alla pubblica autorità?”
La domanda dipende da come interpretiamo i requisiti dell’art. 53, perché chi parla di resistenza
attiva nega che si possono utilizzare questi strumenti in presenza di resistenza passiva.
Perché nasce questa interpretazione restrittiva?
Poniamoci il problema del perché il legislatore introduce nel codice una causa di giustificazione che
non era presente nel codice Zanardelli (praticamente non è presente in nessun codice in ambito
europeo; è quindi una peculiarità del codice italiano).
È abbastanza evidente che questa è una norma condizionata dalla natura autoritaria del regime che
ha introdotto il codice del 1930 e che voleva dare via libera alle FF.OO. e ai PP.UU.: e allora si
capisce che questa norma aveva delle maglie molto larghe, tanto da indurre il codificatore a non
prevedere la Proporzione, che può essere un requisito ridimensionante, perché non si può fare
uso di armi o dei mezzi di coazione ad libitum.
Caduto poi il regime è chiaro che gli interpreti hanno avuto l’imbarazzo di trovarsi di fronte una
norma condizionata, ispirata a principi politici non più condivisibili, hanno cercato di
ridimensionarne l’operatività: una prima operazione è stata quella contenerne l’applicazione per i
casi più gravi (quando c’è una vera violenza o c’è una contrapposizione fisica, quindi una resistenza
attiva), evitando di applicarla ai casi di resistenza passiva. Il problema non è dilatiamo o stringiamo
il concetto di resistenza, ma il vero problema è che non è previsto il requisito della proporzione (è
questo il punto debole).
Forse dobbiamo sganciare il problema della resistenza dal nodo ben più problematico dell’assenza
della proporzione nell’art. 53: quindi se facciamo questa operazione, nulla vieta di interpretare la
resistenza per quello che davvero voleva dire, e cioè che ogni forma di resistenza, anche passiva,
può essere rimossa con l’utilizzazione di mezzi coercitivi, perché il problema, se mai, è come
intervenire: allora diventa un problema di proporzione o di necessità.
Si può ammettere, senza avere troppe preoccupazioni, che il concetto di resistenza, proprio perché
abbinata alla violenza e distinto da essa, porrebbe forme di opposizione non violenta da parte di chi
si oppone all’autorità e ciononostante è una premessa per un’utilizzazione dell’art. 53.
Affrontiamo ora il vero nodo interpretativo: è ammissibile, in un problema che si pone in una
cornice costituzionale e istituzionale, una norma che dia tanta “carta bianca” nell’uso di armi o di
altri mezzi di coazione fisica, senza richiedere nessun limite solo perché si è profilato un episodio di
violenza o di resistenza?
Si è aperto un dibattito che è stato in qualche misura portato avanti con molta difficoltà: se
valutassimo il livello di interpretazione attuale sia la dottrina penale della giurisprudenza,
ci accorgeremmo che tutti ormai ammettono in qualche modo che la proporzione sia un requisito
implicito nell’art. 53.
È un discorso che formalmente non sta in piedi perché la norma è stata disegnata avendo ben
presente che uno dei requisiti condizionanti una causa di giustificazione è/può essere la proporzione
e si è deciso di non introdurre questo requisito nella norma; allora l’unico modo per introdurlo, in
via interpretativa, è quello di prendere atto che un’interpretazione letterale creerebbe problemi di
legittimità costituzionale, in quanto espressione di un’adesione a un’autorità pubblica contrapposta
non solo ai cittadini, ma anche a qualsiasi essere umano: apparirebbe incostituzionale perché
consentirebbe qualunque sacrificio, anche di beni fondamentali, a fronte dell’esigenza di affermare
l’attività da parte dei