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Dai lavori preparatori del codice Rocco è possibile ricavare che l’idea propugnata dai suoi
compilatori era quella di un dolo che non potesse sostanziarsi nella mera previsione dell’evento, ma
che necessitasse di un plus rappresentato dall’impulso psichico a conseguire l’effetto medesimo. La 6
rappresentazione dell’evento e il suo verificarsi, invece, sono considerati elementi sufficienti per la
colpa e la preterintenzione, ma non anche per il dolo, che necessita di una precisa intenzione di
realizzare l’evento. Chi aveva studiato a fondo la materia pose in evidenza che la nuova disciplina
del codice Rocco rendeva punibili a titolo preterintenzionale tutti quei fatti che in precedenza erano
generalmente sanzionati a titolo di dolo eventuale. Nei lavori preparatori è chiara l’intenzione dei
compilatori secondo cui la semplice rappresentazione del danno, come conseguenza della condotta,
non è di per sé sufficiente a realizzare il dolo, se a questa non si accompagna il fatto che il reo si
fosse proposto quell’evento come scopo della sua azione.
Dai lavori preparatori del codice ancora vigente, inoltre, si ricava anche la conferma che in tema di
preterintenzione non si debba parlare di responsabilità oggettiva. Anzi, si afferma espressamente
che “…..nella responsabilità a titolo di preterintenzionalità, non è che la legge addossi un danno,
come conseguenza dell’azione o dell’omissione volontaria, senza ricercare l’elemento psicologico
rispetto all’evento”. Al contrario, si precisa che in questi casi pare debba accertarsi se l’evento è
stato almeno previsto. Nella responsabilità oggettiva, invece, la conseguenza è posta dalla legge a
carico del reo in base al solo nesso eziologico.
Quindi, nel dolo, la previsione dell’evento è necessaria ma non sufficiente; nella colpa, la
previsione della conseguenza è possibile ma non necessaria; nella preterintenzione, la previsione
dell’evento più grave appare sufficiente e necessaria, ovviamente insieme al dolo del reato-base. Se
così è, si può dire che il legislatore abbia espunto il concetto di dolo eventuale dalla definizione di
cui al primo alinea dell’art. 43 cp, per includerlo nella formulazione di cui al secondo alinea. Ciò
significa che il concetto di preterintenzionalità potrebbe essere ricompreso in quello di dolo
eventuale.
La tesi proposta permetterebbe di distinguere meglio i tre profili soggettivi della responsabilità e,
nel contempo, consentirebbe di attribuire alla preterintenzione una connotazione più stagliata e
meno dipendente rispetto alle altre figure.
Benché la direzione intrapresa dai compilatori sia stata quella prima sintetizzata, la letteratura
penalistica successiva al codice Rocco ha continuato a sostenere che il dolo possa assumere molte
forme oltre a quella intenzionale, tra cui il dolo indiretto o di possibile e prevista, ma non voluta. Le
discussioni sulla natura del dolo, dunque, per molto tempo sono rimaste ancora imperniate sugli
effetti dell’antico confronto tra la teoria della rappresentazione e quella della volontà, malgrado il
codice Rocco avesse adottato chiaramente un’opzione in favore della seconda.
Il dibattito sull’illecito preterintenzionale, invece, dopo il codice Rocco ha preso una piega tutta
rivolta alla contrapposizione tra chi ha sostenuto che si trattasse di un misto di dolo e colpa, e chi ha
ritenuto che fosse un connubio di dolo e responsabilità oggettiva, o comunque ha attribuito l’evento
più grave in base al semplice nesso eziologico.
Attingendo ai risultati della teoria finalistica, però, si può dire che la volontà non è “causa”, ma è
“fine”, ossia abbraccia lo scopo di raggiungere un certo risultato. Questo concetto conserva una sua
utilità anche per intendere meglio le definizioni di cui all’art. 43 cp, le quali indicano anche
situazioni di sola previsione senza volontà. È la volontà ciò che qualifica il dolo e non anche la
colpa e la preterintenzione. In sostanza, la norma codicistica, tramite il concetto di “intenzione”,
esprime un’idea di dolo che corrisponde a quella della perfetta volontà finalistica. L’intenzione di
cui all’art. 43 cp, quindi, è la volontà che si realizza conformemente alla rappresentazione.
Posto ciò, si pone la questione di come collocare il dolo eventuale. Sul punto, alcune considerazioni
appaiono difficilmente controvertibili. In primo luogo, è chiaro che nel dolo eventuale manca
l’intenzione dell’evento, intesa come volontà finalisticamente orientata. Il dolo eventuale, poi, è un 7
concetto di creazione dottrinale, il quale, però, non incontra un riconoscimento espresso nella norma
codicistica, ove il riferimento è chiaro al solo dolo intenzionale e, anzi, la volontà storica del
legislatore sembra militare in altro senso. Buona parte della dottrina, ciò nonostante, ha cercato di
attribuire un valore “normativo” a quel concetto, ritenendo che la definizione dell’art. 43 cp, non lo
impedisse. In sostanza, dolo eventuale significa “non volontà” dell’evento.
Man mano parte della letteratura penalistica si è convinta della difficoltà di mantenere il dolo
eventuale nell’ambito del dolo definito dall’art. 43 cp; il dolo eventuale non può essere una specie
della più ampia categoria del dolo, poiché la mancanza di volontà non è un fatto specializzante del
dolo eventuale, ma invece un fattore di antinomia, ossia di appartenenza ad un genere diverso. Il
dolo eventuale e la colpa cosciente, quindi, secondo questo orientamento, sono accomunati dalla
previsione e non volontà dell’evento, mentre il distinguo è individuato nel criterio del versari in re
illecita, nel senso della realizzazione di un fatto-base doloso: colpa cosciente in caso di scopo lecito,
dolo eventuale in caso di fine illecito.
In un tale ordine di idee, i fattori tipici del dolo eventuale sarebbero la previsione dell’evento, la non
volontà dello stesso e il fine illecito perseguito dall’autore. Questo orientamento, se ha il merito di
aver ulteriormente evidenziato che il dolo eventuale è una forma di “non volontà” dell’evento e un
modello contiguo all’eccesso nel fine, non convince però nel momento in cui tenta a tutti i costi di
distinguerlo dalla preterintenzione, sostenendo che quest’ultima figura sia incompatibile con la
previsione dell’evento. Per questa via, il dolo eventuale assumerebbe le fattezze di una figura
sfuggente e non collocabile in alcune delle definizioni contemplate nell’art. 43 cp: non sarebbe dolo
perché non c’è l’intenzione di provocare l’evento; non sarebbe colpa (cosciente) perché il fine è
illecito; non sarebbe preterintenzione perché l’evento è previsto. Una volta intrapresa la via di
considerare il dolo eventuale una forma di “non volontà”, il ragionamento dovrebbe invece essere
coerentemente condotto verso tutte le conseguenze che ciò implica e, in particolare, l’espunzione
dall’ambito di applicazione dell’art. 43 primo alinea del dolo eventuale.
Prima di affrontare il problema in termini de lege ferenda, è possibile quindi ricapitolare i risultati
della, comunque problematica, ricostruzione sistematica della preterintenzione come ipotesi
riconducibile ad una species del dolo eventuale. Le basi di partenza non possono che essere le
indicazioni provenienti dagli artt. 42 e 43 cp. Il legislatore, in queste norme, oltre al criterio
generale d’imputazione del dolo, pare aver fornito dei criteri gradualmente residuali, ossia quelli
della preterintenzionalità, della colpa e, infine, della responsabilità obiettiva.
Il legislatore, in sostanza, permette si delle deroghe al criterio generale d’imputazione (il dolo
intenzionale), ma lo fa gradatamente in guisa che i criteri d’imputazione sono tanto più eccezionali
quanto più si scostano dal dolo. Ciò significa che la responsabilità oggettiva, è comunque criterio
d’imputazione decisamente residuale in rapporto alla preterintenzione, e, contemporaneamente, che
quest’ultima si avvicina tanto più al dolo, quanto più si tenda verso un’interpretazione che richieda,
ai fini della preterintenzione, la previsione dell’evento. Così ragionando, si arriva alla conclusione
per cui il legislatore ha dato una direttrice tendenzialmente a favore della preterintenzione rispetto
alla responsabilità obiettiva, considerando quest’ultima il criterio d’imputazione più residuale.
Alla luce di tali considerazioni, il paradigma preterintenzionale assume un ruolo che ne consente
l’applicazione non solo quando nella fattispecie v’è un richiamo espresso (come nell’art. 584 cp),
ma anche quando la struttura della norma incriminatrice corrisponde ad un particolare modello il
quale può essere così sintetizzato: fatto illecito doloso di base; evento più grave legato da un nesso
eziologico alla condotta del reo; evento più grave non voluto, nel senso di non coperto dal dolo
intenzionale, ma previsto come possibile; pena in misura intermedia tra quella stabilita per la 8
realizzazione dolosa dell’evento e quella sancita per la realizzazione colposa, laddove il fatto sia
punibile a titolo di colpa.
A questo punto, il paradigma preterintenzionale deve essere sottoposto ad una sorta di “prova di
resistenza”. Si deve cioè verificare se le possibili ricostruzioni ermeneutiche siano conformi alle
esigenze di razionalità interna del sistema. Si consideri la soluzione che inquadra la preterintenzione
come una forma di responsabilità oggettiva, nel senso che l’evento più grave è addebitato sulla
scorta del solo nesso di derivazione causale, e ciò a prescindere dai rilievi d’incostituzionalità, ma
solo per saggiare la coerenza interna del sistema codicistico. Il banco di prova non può che essere
costituito dalla fattispecie di omicidio di cui all’art. 584 cp, l’unica della quale, in virtù del
riferimento espresso, nessuno può fondatamente contestare la natura preterintenzionale. Il massimo
edittale imposto in tale norma incriminatrice è, com’è noto, di 18 anni di reclusione. La pena sancita
per l’omicidio colposo ex art. 589 cp, nella sua forma non aggravata, nel massimo è pari invece a 5
anni. Ciò mostra un evidente diverso disvalore che il legislatore ha voluto attribuire ai due diversi
fatti. Disomogeneità, d’altronde, la cui ragione non può esse