Riassunto esame STORIA DEL DIRITTO ITALIANO, prof. Vallone, libro consigliato Le grandi linee della storia giuridica medievale, Cortese
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Il era dunque una donazione che avveniva con un rito tipico e vincolava chiunque lo poneva in
Gairethinx
essere; ovviamente colui che si impegnava a cedere i propri beni mediante tale rituale, era vincolato al
mantenimento di quei determinati beni ivi promessi, al fine di poter rispettare la promessa di donazione.
Rotari, emanando questo editto, offre al suo popolo, in modo irrevocabile, il più grande bene che questi
potesse ricevere: il sommo bene delle leggi.
L'istituto del veniva in utilizzato un per poter affrancare i servi per far ottenere loro la piena libertà.
Gairethinx
Tale affrancamento avveniva in tre fasi, le quali ricordano quelle previste nel per la
Liber Gai Mancipatio del
in questo caso il fungeva da vero e proprio intermediario.
filio familias; Gisel
Nel prologo del suo editto, Rotari denuncia la nascita di differenti richieste degli poveri, i quali si
Arimanni
sentivano vessati, nel senso che, poiché le composizioni pecuniarie erano affidate consuetudini orali, tale
oralità non le garantiva.
Infatti, nel momento in cui un povero compiva un'offesa ad un ricco, il peso sociale di
Arimanno Arimanno
quest'ultimo poteva essere esercitato sul giudice, il quale veniva indotto a far cadere sul povero un sistema
di composizione pecuniaria eccessivamente gravoso.
Rotari propone quindi una soluzione che prevedeva, tra le altre cose, un sistema fisso, predeterminato, mi
composizioni pecuniarie. Il passaggio dall'oralità alla scrittura consente così di prevedere delle composizioni
pecuniarie, alle quali il giudice si doveva adattare, al fine di non subire influenze e/o pressioni dall’ Arimanno
più ricco.
Nell'editto si riscontra infatti un mero sistema pecuniario, ove ad un danno arrecato, mediante un
di Rotari
preciso tariffario, corrispondeva un determinato quantitativo di denaro.
Rotari interviene aggravando, talvolta, questo sistema, al fine di garantire la pace nella compagine sociale.
La pena capitale era prevista in pochissimi casi, ispirati, in linea di massima, ai regolamenti romani. La morte
di una persona causata da terzi, doveva essere ripagata alla famiglia del deceduto mediante la
corresponsione del Guidrigildo.
Il non corrispondeva ad una come dapprima veniva considerata, ma
Guidrigildo aestimatio corporis,
rappresentava una qualificazione dello status sociale di una persona, e variava in base allo status sociale da
essa ricoperto.
Sono però previsti, all'interno di questo editto, alcuni casi di pagamento del della persona che
Guidrigildo
offende; tali casi sono rappresentati dalla calunnia o dal falso notarile. Chi commetteva un simile reato
pagava all'offeso un quantitativo di denaro pari al proprio ovvero una somma di denaro che
Guidrigildo,
corrispondeva allo Stato sociale di chi commetteva il reato.
Talvolta, infine, mediante il suo pagamento, si poteva annullare la pena di morte.
La donna, nel mondo longobardo, non avendo uno status sociale all'interno della società, non aveva un
proprio Nonostante ciò le offese alle donne venivano punite ancor più aspramente rispetto a
Guidrigildo.
quelle che gli uomini.
Per loro infatti si fissava un peso sociale soggettivo in base allo status sociale della famiglia di appartenenza.
Talvolta, addirittura, per la donna si poneva in essere il pagamento della pena massima: 1200 soldi che, se
paragonato al massimo pagamento previsto per gli uomini, ovvero 900 soldi, fa intendere l'importanza che
comunque la figura femminile ricopriva all'interno della compagine sociale.
Il veniva suddiviso il 50% corrisposto allo Stato, è nel restante 50% che veniva corrisposto alla
Guidrigildo
famiglia dell'offeso. Lo stato, quindi, comincia ad avanzare pretese su di esso, in quanto la società non era
più composta da un aggregato di famiglie militari, ma si stava dando una struttura statuale, molto più
evoluta.
La figura della donna, nel mondo longobardo, rappresentava una sorta di oggetto.
Il matrimonio longobardo offre qualche spunto per supporre ciò; infatti esso si compiva con la della
traditio
donna.
Ma ella, nella compagine sociale longobardo, non era un oggetto: deteneva infatti la capacità giuridica, ma
non la capacità d'agire.
La sua volontà nella conclusione di atti e/o negozi giuridici doveva essere corroborata dalla volontà di un
altro soggetto, denominato il quale non trova alcuna corrispondenza negli istituti romani.
mundio, 13
La situazione giuridica della donna presenta degli aspetti tipici della che prevedeva la presenza di un
tutela,
tutor per la conclusione di atti o negozi di minorenni. Essa presenta però degli aspetti potestativi,
affiancandosi in tal modo alla del
potestas pater familias.
Il titolare del poteva permettere la monaca azione della donna, intervenire negli detenendo
mundio, sponsali,
inoltre una modica incisione disciplinare sulla donna stessa.
Il poteva essere qualificato e compravenduto.
mundio
Tale potere veniva detenuto solitamente da un membro della famiglia, il padre o il fratello della donna. Il
marito, invece, per poter detenere il della sua consorte, doveva acquistarlo durante gli
mundio sponsali,
dove si stabilivano gli aspetti patrimoniali; il marito doveva pagare il corrispettivo del al detentore di
mundio
esso.
La donna dunque non poteva essere compravenduta; ciò che veniva compravenduto era unicamente il suo
Era la donna stessa inoltre a decidere l'andamento del matrimonio, dando o meno il proprio
mundio.
assenso.
Il marito, durante il matrimonio longobardo, doveva portare con sé un quantitativo di denaro che doveva pur i
essere consegnato alla futura moglie. Esso corrispondeva ad un quarto dell'intero patrimonio del marito di un
stesso, che doveva essere donato alla donna il mattino seguente della cerimonia.
Questo dono, denominato per questo motivo dono del mattino, il corrispondeva al
Morgingap, prezzum
dei romani.
virginitatis
Una parte dei popoli germanici, dei Franchi e dei Longobardi, si convertono al cattolicesimo; questa
conversione determina un intervento da parte della Chiesa all'interno dello stesso matrimonio longobardo.
Questa, al fine di rendere il meno pagano possibile il rituale del matrimonio, fa sì che la caparra che doveva
essere ceduta alla donna durante il rito, venisse sostituita da un anello, rappresentante la fedeltà eterna.
Sotto il profilo dei rapporti obbligatori di Longobardi non avevano contratti propri che usavano quelli che la
prassi romana presentava loro. Di proprio avevano invece atti formali, direttamente produttivi di effetti
giuridici. Anche Longobardi, come i romani, oltre alle obbligazioni da contratti, avevano speciali forme di
rituali che produciamo effetti obbligatori, come il l'istituto principalmente adoperato per la
gairethinx,
trasmissione del patrimonio mortis causa a estranei.
Oltre al all'interno dell'ordinamento longobardo, vi sono altri due istituti di grande importanza:
gairethinx,
1) il è una controprestazione simbolica nei confronti di chi si spoglia di un bene per donarlo ad un
Launegild: altro individuo. Esso è dunque una controprestazione ad una donazione.
Il Launegild veniva utilizzato al fine di donare firmitas definitiva alla donazione, rendendola Irrevocabile; in
tal modo venivano eliminati i frequenti ripensamenti dei donanti, e veniva impedito il flagello delle doppie
donazioni o di altri atti alternativi di beni già donati in precedenza.
Questo era un rito formale, e si svolgeva attraverso la dazione di un bene che inizialmente doveva
rappresentare la donazione stessa (probabilmente veniva utilizzato un bastoncello atto a rappresentare il
bene in questione).
2) la atto definito dalla storiografia un contratto formale obbligatorio, accostato arbitrariamente
datio wadiae: alla stipulatio.
Esso veniva utilizzato per confermare una promessa. In questo atto formale obbligatorio vi era la
presenza di un soggetto il quale, promettendo, si obbligava nei confronti di un altro soggetto: il ricevente.
Tra questi due soggetti si inseriva un terzo uomo, il quale doveva ricevere la stima del soggetto ricevente
e che interveniva in qualità di fideiussore.
Questi atti formali erano dei riti e, affinché nascesse l'obbligazione, vi era bisogno del rispetto di un
preciso rituale.
Infatti nella il donatore consegnava un oggetto al ricevente, che si impegnava a donare tale
datio wadiae
oggetto appena ricevuto al terzo individuo, il il quale era un soggetto in grado di far pressione al
garante,
debitore per farlo adempiere; egli poteva inoltre ricorrere anche il pignoramento di
beni del debitore.
In caso di inadempienza si impegnava con i propri beni all'adempimento della promessa effettuata.
Questo istituto longobardo e del tutto simile al dei franchi, con il quale viene spesso
Vadimonium
Confuso; ma questi due istituti risultano essere sostanzialmente differenti: nel diritto Franco il Vadimonium
era legato d'una sorta di legno della propria persona; chi prometteva dava in prgno se stesso. 14
Processo longobardo:
Il processo longobardo era sostanzialmente differente da quello romano.
La fondamentale differenza consiste non tanto nella procedura, ma è data dal fatto che il giudice del diritto
longobardo non valutava la pretesa dell'attore nei confronti dell'ordinamento, emettendo poi una sentenza;
egli era solo un arbitro che assisteva al corretto svolgimento delle regole, che consentivano al convenuto di
purgarsi o all'attore di avere soddisfazione.
Il processo civile, nel diritto longobardo, era uguale a quello penale, in quanto il giudice verificava
unicamente il giusto svolgimento delle regole. Egli controllava che le norme che portavano al o al
giuramento
fossero corrette. Chi risultava vittorioso (o nel giuramento o nel duello), nel caso dell'attore poteva
duello
considerare fondata la sua pretesa; nel caso del convenuto poteva sentirsi purgato dall'accusa.
Nel processo longobardo si può parlare sia di che di in quanto esso, nel corso degli anni,
duello giuramento,
poteva constare di una o dell'altra fase:
Il era considerato quasi come giudizio divino; consentiva di giungere ad una soluzione che potesse
duello:
soddisfare e placare gli animi.
Chiunque fosse risultato vincitore otteneva dal giudice il riconoscimento della propria "vittoria” e l'impegno
contestuale da parte di chi soccombere ad intraprendere la datio wadiae.
Esso venne poi, con il tempo, soppiantato dal giuramento. Ai tempi di Rotari e Liutprando vi era ancora la
possibilità di scegliere tra le due tipologie di processo; il duello deriva però considerato una sorta di
soluzione residuale alla quale si preferiva solitamente il giuramento; con il duello, infatti, non vi era
uniformazione alcuna all'ordinamento sociale, ma la vittoria era sempre riservata al più forte.
Il questa tipologia di processo non coinvolge unicamente le due persone interessate, ma molti
giuramento:
più individui, che potevano oscillare da un numero minimo di tre ad un massimo di undici persone, scelte in
ugual modo da attore e convenuto.
Il convenuto doveva giurare insieme ad altre persone nominate dall'attore (la metà più uno).
Chi veniva a invitato a giurare, il non sempre giurava in qualità di testimone per attestare la
coniuratores,
verità dei fatti.I testimoni, infatti, potevano anche non aver assistito all'andamento dei fatti in questione, ma
venivano invitati a giurare sulla credibilità delle parti in causa e non sulla verità.
Non era infatti di fondamentale importanza conoscere la realtà dei fatti, ma unitamente placare gli animi,
considerando gli assetti sociali delle persone coinvolte, gestiti in funzione della loro capacità in ambito socio-
economico.
La pace sociale era dunque mantenuta dei poteri forti. Chi aveva il potere più forte soffocava la richiesta del
più debole. Dopo giuramento era necessario compiere una promessa, conformata grazie all'atto formale
della datio wadiae.
Il processo si riduceva quindi una sorta di gara ludica, e l'ufficio del giudice era di dirigerla secondo le regole
stabilite dal diritto poi di proclamare chi aveva vinto e chi aveva perso.
Capitolo 5: la Chiesa. Bisanzio e i carolingi
La chiesa, Bisanzio e i Carolingi
La fine del regno longobardo è da attribuire all'attività della Chiesa, la quale causò un crollo rovinoso che si
accompagnò ad un mutamento di rapporti tra Oriente e Occidente e all'impianto di un nuovo assetto politico
d'Europa.
Tutto cominciò quando i Longobardi decisero di impossessarsi di Ravenna, sede dell'esarcato.
Già Rotari, prima di emanare il suo editto, cercò di conquistarla, così come fece re longobardo Liutprando
nel 726, riuscendo nell'impresa ed occupando l’esarcato.
I Longobardi rappresentavano una vera e propria minaccia per la Chiesa, in quanto essa era consapevole
che dopo la conquista dell'esarcato (sede in cui vi era il rappresentante dell'impero d'oriente in Italia),
sarebbero giunti a Roma. 15
Questo pericolo incombente significava per la Chiesa romana essere in balia dei barbari. Inoltre vi era il
pericolo sempre più imminente dell’ormai diffuso cesaropapismo.
Proprio nel 726 Leone terzo l'Isaurico, imperatore del regno d'oriente nei primi decenni del VIII secolo, aveva
manifestato una vera e propria intolleranza verso il culto delle immagini, dunque verso l’Iconoclastia.
Inizialmente questa posizione non destò alcun allarme per la chiesa, finché egli con un decreto del gennaio
730, in pose questa dottrina in tutto il regno d'oriente, prevedendo l'eliminazione di tutte le immagini dei Santi
dalle chiese.
Questo decreto provocò una forte reazione da parte del re di Costantinopoli, il patriarca Germano, il quale
dovette però darsi alla fuga.
La ritorsione del monarca fu severa e colpì la Chiesa di Roma nelle prerogative e nella borsa. Scoppiarono
persino delle sommosse popolari che Ravenna culminarono nell'assassinio dell'esarca Paolo. A questo
episodio è dovuto l'irrigidimento ancor più forte dell'imperatore, il quale impose l’Iconoclastia a tutti i costi in
ogni sede apostolica, prevedendo in caso di inobbedienza l'eliminazione fisica del pontefice.
Per il momento prevalse la moderazione: Gregorio II, proprio il Papa fatto bersaglio delle minacce
dell'Isaurico, pronunciò parole difensive invocando la fedeltà al trono bizantino. Altrettanto avrebbe fatto
Gregorio III quando si trattò di esortare, nel 741, il duca Orso di Venezia ed il patriarca di Grado a resistere
alle richieste di Liutprando.
La situazione divenne insostenibile quando vi fu la destituzione del mite Rachi, e l'assunzione al trono
longobardo del bellicoso Astolfo, portato al trono e sorretto dal partito germanico guerrafondaio. Egli
condusse un'ennesima invasione dell'esarcato con relativa conquista di Ravenna tra il 750 e il 751.
Oltre ai timori della Chiesa, vi fu anche l'indignazione dell'imperatore Costantino V, che mandò al nuovo
pontefice Stefano II un messo, Giovanni, portatore della al Papa di recarsi da Astolfo per ingiungergli
iussio
di restituire il maltolto.
Obbediente all'ordine Stefano II partì per Pavia nell'ottobre del 753 e, giunto in presenza del re longobardo,
lo supplicò che rendesse al legittimo padrone i territori invasi. Ma il re non gli diede ascolto. Allora il Papa si
rivolse ai Franchi.
Nel frattempo il franco Pipino il Breve aveva assunto nel 751 il titolo di re. Per salire al trono aveva dovuto
però sbarazzarsi dell'ultimo merovingio, sovrano legittimo.
Egli pensò di premunirsi chiedendo il parere l'autorizzazione della suprema autorità morale, e Papa Zaccaria
gli fu benevolo: ordinò la deposizione del precedente re, e nel 751 gli fece conferire da Bonifacio, santo
vescovo di molto Magonza, l'unzione sacra.
Papa Stefano II, dunque, respinto dal re longobardo si rivolse al nuovo re dei franchi. Nel gennaio del 754
egli si recò da Pipino il breve, chiedendogli di recuperare i territori bizantini al fine di riconsegnarli
all'imperatore d'oriente.
Il nuovo sovrano accettò la richiesta del Papa, dando origine così ad un lungo e duraturo legame tra la
chiesa e la dinastia carolingia.
Papa Stefano prolungò i propri soggiorno presso i franchi e rafforzò a tal punto i legami con la nuova dinastia
da indurre l'instaurazione di un rapporto fittiziamente familiare. Ne conseguì che il progetto di tagliare il
tradizionale ancoraggio della Chiesa con il trono d'oriente, spostandolo in Occidente iniziò ad essere attuato.
Proprio in quell'estate del 754 il Papa Stefano II impartì solennemente unzione reggiano a Pipino e ai suoi
figli, Carlomanno e Carlo.
Molti interrogativi circondano questa unzione, e soprattutto il tipo di titolo che si voleva concedere a Pipino e
alla famiglia mediante essa. Tra le differenti ipotesi che cercano di dare una risposta a questo quesito, quella
che maggiormente regge è l'ipotesi che vede questa un’unzione utile a nominare costoro meri rappresentanti
dell'esarca.
L'esarca era l'autorità da cui dipendeva il ducato di Roma. Tale titolo era però vacante da quanto Astolfo
aveva poco la conquista di Ravenna.
In sostanza dunque, con questa unzione, il Papa Stefano II voleva conferire a Pipino il breve e alla sua
famiglia il titolo di esarca, creando in tal modo un forte legame tra la Chiesa e i franchi, i quali andavano così
a sostituire i rappresentanti bizantini in Italia, conferendo una forte stabilità alla Chiesa. 16
Pipino il breve il Papa, sempre nel 754, si ritrovarono a Carisiacum, un villaggio dove il re aveva un palazzo
e che acquisterà fama come sede di diete e di assemblee.
Qui il pontefice, il quale pochi mesi prima si era presentato per richiedere il recupero in favore dell'impero dei
territori usurpati da longobardo Astolfo, si vide fare all'improvviso la promessa di una grandiosa donazione
destinata non più a Bisanzio, ma alla Chiesa.
Questa promessa che Pipino il breve fa al pontefice, prende il nome di con essa egli
Promissio Carisiaca:
prometteva di destinare alla Chiesa l’esarcato (Ravenna), Venezia, l’Istria, l'Emilia e la Tuscia, la Corsica, i
ducati di Spoleto e Benevento.
Questa immensa donazione non fu mai eseguiti integralmente ma, dopo la vittoria delle armi anche su
Astolfo, ebbe la prima limitata attuazione entro il 756.
Essa diede inoltre origine a dei disegni a livello territoriale della Chiesa, che non voleva rompere i rapporti
con l'oriente, ma al contempo cercava di sfruttare la situazione, governando differenti territori da essa
detenuti e amministrati.
La Chiesa dovette comunque in qualche modo giustificarsi; per questo motivo essa compone un vero e
proprio documento falso, denominato o
Constitutum Constantini donazione di Costantino.
Questo viene compilato tra il 750 e l'850, in un arco temporale di 100 anni.
È un falso che ha a che fare con l'imperatore Costantino, il quale si era tempo addietro dimostrato
magnanimo verso la Chiesa, e quindi rappresentava l'imperatore che più di tutti aveva compiuto degli atti di
grande magnanimità nei confronti della Chiesa stessa.
In questo falso Costantino promette in dono alla chiesa tutti i territori della Pars Occiedntis dell'impero,
determinati con una vaghezza astutamente ricercata.
Egli si sarebbe inoltre spogliato delle vesti imperiali stessa e dei suoi titoli.
Questo falso consentiva la chiesa di avere un titolo mediante il quale poteva governare liberamente
sull'Occidente.
Il venne spacciato per vero finché, nel 1440, Lorenzo Valla non portò alla luce la
Constitutum Constantini
vera falsità di questo documento.
Ma dopo tanti secoli dimostrare l'usurpazione effettuata dalla chiesa risultava pressoché inutile, in quanto
tutti gli equilibri territoriali e politici erano mai stati rimodernati.
L'elevazione di Carlo Magno alla dignità imperiale era stato un traguardo della politica ecclesiastica che si
era diffusa per quasi tutto il secolo. Questo è l’avvenimento che la storiografia continua a considerare il più
grandioso della storia medievale.
Il Papa Leone III, approfittando del fatto che il trono bizantino era considerato vacante perché
illegittimamente occupato dall'usurpatrice Irene, la quale pur di salire al trono imprigionò e accecò il figlio,
volle trasferirlo a Roma.
Fu così che la notte di Natale dell'800 Carlo Magno venne incoronato imperatore dallo stesso Papa.
Egli dapprima ricevette il titolo di imperatore dei romani e di seguito divenne anche imperatore dei franchi e
dei bizantini.
Venne così attuata la grande poiché sul trono di Costantinopoli salì un Germano, e il
Renovatio Imperi,
cuore del potere venne trasferito a Roma.
Dapprima si pensò di utilizzare la soluzione più semplice, cercando di venire incontro ai bizantini, mediante
un matrimonio tra Carlo e l'usurpatrice Irene. Ma le nozze non si celebrarono, ella venne deposta e morì
l’anno dopo.
Dunque nel Natale dell'800 ad Acquisgrana, Carlo ricevette l'unzione imperiale, voluta dalla Chiesa.
I franchi non avevano giostrato la situazione, ma addirittura, secondo alcune cronache dell'epoca, il luogo
imperatore fu quasi costretto a ricevere quest'incoronazione da parte del Papa.
Per il nuovo imperatore si presentarono però subito di momenti difficili da risolvere, a causa di forti attriti con
il re bizantino Niceforo, i quali diedero origine ad un decennio di scontri armati, che terminarono solo nell’812
con un compromesso: il trattato di Acquisgrana.
Con esso si proibì ai franchi di avere titoli sigilli romani, consentendo però di avere un nuovo imperatore in
Occidente. Ciò serviva ad inglobare i regni esistenti all'interno dell'impero.
Fu così che Carlo magno mantenne la qualifica imperiale ma non con il nome di imperatore romano; egli si
spogliò del manto di una monarchia romana e indossò la vera e propria concezione barbarica dell'impero,
che si riduceva all'immagine di un regno rinforzato. 17
Quello che prima era il regno longobardo, divenne dunque il regno d'Italia, con capitale Pavia.
In queste impero la convivenza armonica delle differenti genti ivi stabilite era garantita dalla personalità della
legge, che trova la sua massima diffusione proprio nell'epoca carolingia.
Questo principio si contrapponeva a quello della territorialità, e prescriveva che ogni individuo appartenente
ad una determinata stirpe o natio, dovesse utilizzare un determinato ordinamento tipico della sua stirpe o
natio.
Se da un punto di vista l'utilizzo di quest'ordinamento poteva avere un risvolto pacifico, soprattutto quando si
incontravano due soggetti appartenenti alla medesima natio, da un altro punto di vista il suo utilizzo era
assai difficoltoso, in particolar modo quando interagivano due soggetti di differente stirpe.
In questo caso ci si chiedeva infatti quale tra i due diritti dovesse prevalere.
Al fine di regolamentare queste situazioni, si era deciso di far prevalere il diritto più forte; talvolta però era
difficile dichiarare quale forse il più forte tra i due, è proprio così nacquero cosiddette con
professiones iuris,
il compito di specificare quale dei due diritti dovesse prevalere.
Dunque nell'impero carolingio vigeva il principio di personalità della legge, il quale si portava dietro il diritto
proprio dell'etnia o della popolazione di appartenenza.
Tale principio collega il cosiddetto con il diritto di nuova formazione, quello carolingio.
Ius vetus
Il principio di personalità della legge emerge dalle ovvero da quelle dichiarazioni che
professiones iuris,
venivano redatte dal notaio e che avevano la funzione di rogare l'atto; in esse viene dunque esplicitato il
diritto con cui ci si obbliga.
Le la parte forte del contratto, dove si dichiarava di vivere secondo una
professiones iuris divennero
determinata legge per via della propria ossia della nascita, che collocava gli individui all'interno di un
natio,
determinato gruppo etnico.
l principio della personalità della legge consentiva, nell'ottica della pacifica convivenza delle leggi, alcune
eccezioni. I romani nel regno italico utilizzavano infatti il o la così come i longobardi
launrgild datio wadae,
utilizzavano il diritto romano.
L'erronea interpretazione della norma emanata nel 727 da Liutprando, importante per il contenuto del
capitolo 91 del sostenuta anche da Calassio, affermava erroneamente che anche all'interno
De scribis,
dell'ordinamento longobardo vigesse il principio della personalità della legge.
In questo caso tale principio non può però essere preso in considerazione, in quanto ivi si afferma la
possibilità di rinunciare alla legge, la quale deve essere intesa però come un diritto soggettivo.
All'interno dell'impero carolingio, per quanto concerne l'ambito delle norme e dell'ordinamento, è necessario
effettuare una distinzione tra:
1) norme sciolte emanate dall'imperatore;
capitula:
2) serie più o meno lunghe e non sempre omogenee di brevi capitoli; non erano altro che una
capitularia: raccolta di capitula.
I a loro volta, si distinguevano in: e riguardanti il
capitularia, capitularia ecclesiastica capitularia mundana,
mondo laico, nonché il governo temporale dell'imperoI contenevano invece
capitularia ecclesiastica
provvedimenti relativi al clero, chiese e monasteri.è in essi vi si vede rispecchiato il tema più significativo del
mondo carolingio, quello dei rapporti tra il regno e il sacerdozio. L'abbondanza della loro produzione ai tempi
di Carlo Magno e di Ludovico il Pio dalla misura dell'impegno di sovrani ad assicurare la vita ordinata della
chiesa.
La visione ecclesiale del mondo stava dietro la dedizione dei religiosi sovrani e li spronava, ma non va
dimenticato che la configurazione della Chiesa come organo dello Stato, in cui non si era mai smesso di
credere, li obbligava intervenire.
La Chiesa chiese un gran numero di interventi tra il 680 e il 740, quando la sua decadenza aveva toccato il
fondo, la gerarchia andava in pezzi, il clero ignorante aveva reclutato senza criterio, corruzione e indisciplina
regnavano, l'aristocrazia laica si mostrava invadente prepotente.
I carolingi avevano così cominciato a preoccuparsi. Già Pipino, oltre ad aver convocato il concilio di
Soissons, aveva tenuto d'occhio la liturgia, e si era spinto a curare il cosiddetto sacramentario (messale)
gelasiano. 18
Carlo nel famoso concilio di Francoforte del 794 baderà a difendere il dogma, a precisare il culto delle
immagini, a reagire contro l'eresia adozionista. I scritti in tema d’iconoclastia dopo la sinodo
libri carolini
nicena del 787, furono attribuiti a Carlo falsandone la paternità materiale ma non quella spirituale.
Il governo temporale dell'impero avveniva mediante:
1) utili al fine di uniformare l'ordinamento;
capitularia generalia:
2) un informavano determinate realtà all'impero.
capitularia specialia:
Carlo Magno nell'802 approfittò di una tregua nelle guerre e radunò nell'ottobre un concilio generale.
Ivi venne affrontato il problema delle e per assicurare a ricchi e poveri una eguale giustizia,
leges popolari,
volle la redazione delle consuetudini delle genti barbare dell'impero.
Molte di queste genti avevano comunque già provveduto alla redazione delle proprie consuetudini, ma,
ciononostante non utilizzavano le norme scritte.
Perciò Carlo Magno impose a tutte le popolazioni dell'impero la redazione delle proprie consuetudini.
Tale attività di redazione obbligava a valutare e correggere tutte le consuetudini, le quali venivano adattate
alla realtà, con una tendenza ad uniformarsi all'ordinamento dell'impero stesso.
rappresentano tutte quelle norme che si vanno ad aggiungere alle leggi
I capitularia legibus addenda
popolari, ovvero alle leggi di una particolare etnia.a sottolineare l'unità di quel ordinamento generale
dell'impero in parte decentrato, ma sempre tenuto sotto il controllo dell'unico potere centrale. Tra i carolingi
sono gli unici per i quali viene richiesta l'approvazione dei primati, ovvero dei giudici, che avevano il dovere
di applicare quelle specifiche leggi.
Infatti, quando Carlo Magno aveva in mente di emanare tali capitularia, inviava dei propri rappresentanti al
fine di aprire il consenso dei maggiorenti, chiamati per applicare le leggi, e questi, con il rito della manu
le approvavano.
firmatio (mano sul foglio)
Le uniche norme carolingia e che seguono l'approvazione dei giudici sono questi determinati tipi di
capitularia.
La mancata approvazione popolare delle norme dell'ordinamento resiste fino alla decadenza carolingia,
ovvero fino ai primi decenni del nono secolo.
Infatti i poteri decisionali saranno contesi tra l'imperatore e ceti sociali forti, che pattuiranno le decisioni,
come avvenne per il importante in quanto modificò sostanzialmente la vita del feudo,
capitolare di Quiercy,
emanato da Carlo il Calvo nell'887.
Esso nasce appunto da un patto tra sovrano e ceti forti, i quali richiedevano un'ereditarietà del feudo, che
troverà però ragion d'essere solo più tardi nel 1037.
Il rappresenta solo apparentemente un esempio di
capitolare italicum capitularia legibus addenda.
Questo nell'XI secolo sembra sia stato aggiunto all'ordinamento longobardo. Il suo contenuto pare esser
composto da un insieme di norme carolinge e dall'ordinamento longobardo stesso, il tutto redatto
appositamente per il regno italico.
Una nota anonima, da collocare tra il 774 e il 781, attesta come Carlo Magno abbia voluto dare una
consistente patina salica all'ordinamento longobardo.
Il prezzo infatti elenca le occasioni in cui longobardi e romani adottarono le loro diverse leggi nazionali,
proclamando però che nelle altre materie tutti avrebbero usato la legge comune aggiunta, appunto, da Carlo
Magno agli editti.
Carlo Magno ingiunse a Pipino di far mettere nell'ordinamento italiano anche i capitolari dell'803 che
riformavano la legge salica, per dare un tocco di uniformità alla sua politica legislativa nei confronti delle
varie genti.
Esso in realtà non contiene norme vigenti solo per il regno italico, ma anche ai quali si
capitularia generalia,
aggiunge qualche norma falsificata.
Il fenomeno falsificatorio dilagò misteriosamente intorno alla metà del IX secolo. Furono contraffatti i
capitolari regi. In un anno imprecisato, tra l'847 e l'852, ne fece una grossa raccolta un certo Benedetto che
si chiamò biblicamente Levita. 19
Egli manipolò approssimativamente e 3/4 dei capitoli di una raccolta di capitularia prodotta da Ansegiso,
lasciandone solo un 1/4 di produzione originale.
Il principio della personalità della legge, tanto diffuso all'epoca carolingia, andava però ad intaccare il
principio di universalità voluto dalla chiesa, andando invece a diffondere la particolarità.
Le norme temporali dell'impero andavano così a contrastare con le norme universali ecclesiastiche.
Infatti, nell’822, il dotto Agobardo, arcivescovo di Lione, in una lettera indirizzata all'imperatore Ludovico il
Pio, denuncia queste problematiche, scrivendo che talvolta in uno stesso luogo si trovavano cinque persone
diverse, che regolamentavano la propria vita con cinque ordinamenti differenti.
La chiesa si fa così portatrice di un ordinamento temporale universale, occupandosi del recupero dello studio
del diritto romano.
È proprio grazie all'attività del clero fioriscono le scuole di recupero del diritto Giustinaneo, andato perduto
con la dominazione longobarda.
In età carolingia l'uso del diritto romano avveniva mediante forme elementari, tramite editti o epitomi
Giustinianee. Tutta la compilazione risultava infatti troppo difficoltosa per un periodo di così bassa cultura. Ci
si accontentava dunque di forme rielaborate, non originali.
Le quattro combinazioni ( di cui tre ufficiali e una ufficiosa) di Giustiniano, ovvero il Codice, le Istituzioni, il
Digesto e le Novelle, non subiscono tutte la medesima sorte.
Infatti, mentre il Codice, le Istituzioni e le Novelle, continuano a circolare,1 parte delle compilazione inizia a
scomparire dalla circolazione.
Il Digesto è infatti assai più ostico delle altre opere di Giustiniano in quanto ivi egli compie una
trasformazione da a
iura leges.
Questa trasformazione, nonostante sia di fondamentale importanza, è puramente esteriore, in quanto non
intacca la sostanza degli Il digesto contiene infatti formalmente delle un le quali però si rivelano dei
iura. es,
veri e propri iura, in quanto, il caso concreto viene analizzato in maniera diretta.
Per arrivare alla legge è necessario compiere un procedimento su questi contenenti dunque la
iura,
pronuncia di un giurista fondata sulla legge.
È necessaria perciò, al fine di poter utilizzare questa determinata opera di elevato grado di cultura, un
retroterra culturale assai più elevato di quello del medioevo. Tali difficoltà portano dunque ad una vera e
propria scomparsa del Digesto Giustinianeo e dei suoi 50 libri.
L'ultima citazione di quest'opera di Giustiniano è quella del 603, adducibile al papa Gregorio Magno,
contenuta in un documento che forniva delle istruzioni ad un Giovanni, in procinto di partire per
defensor
l'Iberia al fine di rappresentare in una causa pendente le parti della Chiesa in giudizio.
Tra queste istruzioni troviamo una citazione normativa sul digesto, il quale, dopo il 603 scompare, per
riapparire solo negli ultimi decenni dell'XI secolo.
Il diritto Giustinaneo contenuto nei Codici, nelle Novelle, e nelle Istituzioni venne adattato alla realtà
dell'epoca, subendo in tal modo una riduzione dei suoi contenuti normativi al fine di poterli applicare a fatti
reali
Anche il codice conteneva infatti un materiale troppo arduo per le esigenze di una prassi che chiedeva poco.
Si è supposto che sin dal primo medioevo si fosse provveduto a ridurlo in misura cospicua mettendo in
circolazione un la quale avrebbe utilizzato le parti normative essenziali, eliminando gli ultimi
epitome codicis,
tre libri (tres libri), le costituzioni in greco (per allora lingua intraducibile), e tutte le compilazioni in latino degli
ultimi nove libri, andando a contenere così unicamente un quarto circa del reale contenuto del codice di
Giustiniano.
Questa fu la più grande riduzione del codice, il quale venne realmente spogliato dei suoi medi contenuti.
La sua ricomparsa comporta un drastico cambiamento: rispetto all'originale vengono eliminati gli ultimi tre
libri, contenenti norme inapplicabili o incomprensibili (in quanto in lingua greca), nella realtà del tempo.
Tale distinzione, ovvero quella tra i primi nove e gli ultimi tre libri del codice, espunti questi ultimi dal codice
gregoriano nell’alto medioevo, si prolunga nel tempo.
Il recupero dei testi Giustinanei venne avviato dalla chiesa intorno all’XI secolo è portato avanti dalla scuola
dei Glossatori di Bologna verso la metà del XII, i quali riportarono alla luce gli e i
iura regalia diritti maiestatis
al fine di adattarli alla realtà del tempo. 20
Un opera che appare come una riduzione delle costituzioni del codice, caratterizzata da un testo non solo
incompleto ma soprattutto trasformato in un seguito di rozzi sommari delle stesse costituzioni, comparve per
qualche tempo nell'Italia centrale, e prese il nome di Summa Perusina.
Tale opera venne ritrovata a Perugia, e contiene riassunti delle costituzioni del codice, in testimonianza che
l'accostamento al diritto Giustinaneo avveniva per mezzo di riassunti, i quali erano ricchi però di
fraintendimenti ciò evidenzia la tipica ignoranza di allora.
Talvolta emerge anche la volontà di adeguare i contenuti del diritto Giustinaneo alla realtà di allora.
Non risulta facile datare la produzione di questo documento. Con una certa approssimazione il manoscritto
risale intorno al X secolo, ed il suo nucleo centrale, al quale si fa spesso riferimento, è antecedente alla
stesura dell'opera stessa, ma anche esso difficilmente databile.
alcune proposte collocano tale nucleo centrale dell'opera dalla metà del quinto secolo alla metà del nono
secolo, in un arco di tempo dunque assai vasto.
Risulta però più semplice collocare la in un luogo geografico, ove venne redatta: la zona di
Summa Perusina
Roma.
Tra il 999 primi anni del 1000 venne sicuramente utilizzata dai giudici, i quali sentivano la necessità di avere
un codice più semplificato.
Per quanto concerne le Novelle Giustinianee, proprio come codici, vennero sottoposte ad una attività di
rimaneggiamento.
Le novelle vennero utilizzate secondo la relazione delle Giustiniano non provvidero
Epitome Iuliani.
ufficialmente a raccogliere le costituzioni dopo la nascita del codice; tre sono le differenti redazioni di novelle
dell'autore, solo due delle quali circolarono in Italia.
In Occidente, infatti, non giunse la raccolta di novelle in greco. Ivi si diffusero unicamente e
l'Epitome Iuliani
l’Authenticum. Questi due documenti si distinguono sia per i contenuti (numero di costituzioni) e forma.
particolarmente cara alla Chiesa, venne redatta da un professore di Costantinopoli. Essa
L'epitome Iuliani,
conteneva un numero di 124 novelle di cui due germinate (doppie), e le costituzioni in essa contenute si
presentano in forma riassunta.
L’Authenticum rappresenta una raccolta se non ufficiale ufficiosa, da ricondursi alla cancelleria imperiale.
Essa contiene un numero di 134 novelle, e presenta, al suo interno, delle costituzioni in lingua latina; le
traduzioni però, pur non risultando eccellenti, si avvicinano di più alla loro forma originale.
Nonostante in Occidente circolino entrambi, soppianta via via l’Authenticum, in quanto
L'epitome Iuliani
risponde alle esigenze di esemplificazione dell'epoca. Infatti, l'altro documento, dopo l'editto di Rotari (603)
scomparve, venendo totalmente messo da parte; riemergerà unicamente solo con il recupero dei testi
Giustinianei.
Il diritto Giustinaneo venne dunque, nell'epoca carolingia, fortemente rimaneggiato. Spesso l'accostamento a
questo diritto avvenne mediante delle antologie di norme che si rifacevano a quelle tre parti della
compilazione che non vennero abbandonate.
nacque in ambiente ecclesiastico, intorno alla metà del nono secolo, e mette
Lex romana canonice compta:
in luce come gli ecclesiastici stessi utilizzino il diritto Giustinaneo. Si trattava di un'antologia e traeva le
norme dall'epitome dalle Novelle e dal Codice.
Iuliani,
Essa contiene un evidente collegamento con un'altra antologia:
La dal titolo una collezione dedicata ad Anselmo, vescovo di Milano intorno agli
Collectio Anselmo dedicata:
ultimi 15 anni del IX secolo.
Essa è composta postuma di una ventina di anni rispetto alla e contiene
Lex romana a canonice compta,
238 capitoletti di norme romane già esistenti nella precedente lex.
Al fine di spiegare la presenza di 238 capitoletti di norme romane identiche sia all'interno dell'una che
dell'altra antologia, sono sorte due differenti ipotesi:
1) il redattore della trasse spunto dalla lex per compilare l'opera.
Collectio Anselmo dedicata
2) un'altra ipotesi avvalorata da qualche fonte, afferma che vi sia una terza raccolta, denominata Lex
dalla quale sarebbe stato tratto spunto per poter scrivere tutti due le antologie.
Romana, 21
La sarebbe una redazione di diritto Giustinaneo portata a termine nell'età carolingia. Non è da
Lex Romana
escludere che nella suddetta epoca circolasse dunque una compilazione che contenesse una
semplificazione del diritto Giustinaneo ancor più ampia della la quale, a sua
lex romana canonice compta,
volta, era ancora più ampia della Collectio Anselmo dedicata.
Dunque queste due antologie, risultano legate da 238 capitoletti comuni che paiono tratti dalla più ampia lex
raccolta di diritto Giustinaneo manipolato, adeguato, ridotto, al fine di essere adattato all'epoca
romana,
carolingia. Essa è dunque la più ampia antologia di norme Giustinianee applicabili al tempo.
Le sorti del diritto romano in Europa durante il medioevo si sono scisse in due tronconi. La tradizione fondata
sulla compilazione Giustinianea ha coinvolto solo l'Italia, mentre le regioni transalpine hanno conservato il
ricordo del diritto Teodosiano soprattutto perché la Chiesa ha continuato a maneggiare la Lex Romana
Wisigothorum.
Una traccia del sia trovato in un manoscritto udinese ove compare una di quelle
breviario Alariciano
numerose epitome che rappresentano le forme in cui il breviario era ormai conosciuto. Si è stabilita la sua
origine nell'VIII secolo, e prende il nome di lex romana Raetica Curiensis.
Apparizioni sporadiche e misteriose di materiale normativo visigotico si devono registrare persino nell'Italia
meridionale Di grande importanza appare la cosiddetta il cui contenuto appare
collezione Gaudenziana,
attribuito a Giustiniano il quale però si sarebbe avvalso dello stravagante concorso di sacerdoti e vescovi del
senato di Roma a imitazione probabile dell’assenso di vescovi e di chierici celebrato da Alarico II, contenuto
nell'apertura del suo breviario.
Capitolo 8: alle origini del Feudo
Nell'Italia meridionale sin dai tempi di Andrea di Isernia, gli inizi del 300, si era cominciato a discutere se il
feudo fosse un istituto nuovo o avesse radici romane.
Ma fu nel 500 che venne di moda mettere in discussione con dovizia di argomenti eruditi il problema delle
origini del feudo.A qualche decennio di distanza i punti di vista, però cambiarono del tutto.
Fu il francese Carlo Molino a dare l'avvio a una teoria che nella sostanza, seppure con aggiustamenti, è
stata adottata dalla storiografia moderna e ha dominato fino al giorno d'oggi: il feudo sarebbe stato di
invenzione dei Franchi e avrebbe visto la luce ai tempi dell'insediamento in Italia dei primi Merovingii,
all'inizio del V secolo; i Longobardi, poi, l'avrebbero conosciuto dai Franchi e importato, oltre che nell'Italia
padana, anche nel mezzogiorno.
La costruzione definitiva del feudo si affidò a Carlo Magno che aveva il vantaggio di fare da cerniera tra le
tradizioni dei vari popoli barbarici e tra le oscure età antiche nei tempi più moderni è più documentati.
Il feudo constava dell'unione di tre elementi, ossia di tre istituti, dalle radici ben diverse:
1) un rapporto personale, detto generalmente che correva tra un signore e un suo subordinato;
vasallaggio,
questo avrebbe avuto lontane ascendenze germaniche.
2) una concessione patrimoniale ispirata da benevolenza ma usata come remunerazione di servizi, detta
perlopiù derivante da prassi ecclesiastiche.
beneficium,
3) infine il privilegio formale dell'immunitas che, essendo stato proprio delle terre fiscali e dei latifondi
imperiali dell'antichità, si riteneva un prodotto dell'antichità romana.
Così delineati, questi tre elementi avevano il pregio di rappresentare vividamente, in una figura medievale di
eccezionale rilievo, l'incontro delle tre forze storiche delle quali si vedeva costruito il medioevo: il
Germanesimo, la Chiesa e la Romanità.
Importante all'epoca era il rapporto personale. Il suo contenuto primo stava nella che il vassallo
fidelitas
doveva prestare al suo signore. Ma la non era affatto esclusiva del rapporto vassallatico.
fidelitas
Era una forza etica che sin dal tardo antico la storia politico-sociale ci mostra attiva ovunque; era entrata
persino nella sovranità, si era infiltrato nel normale rapporto di sudditanza caricandolo di un impegno di
carattere morale. 22
Prendendo per buone certe fonti bizantine i monarchi costantinopolitani avrebbero preteso il giuramento di
fedeltà da tutti i funzionari sin dal V secolo; i concili prestavano giuramento ai re visigoti, come rivela il
concilio di Toledo del 633; nel regno longobardo a partire da Liutprando le diete sono affollate di Fideli.
E, propriodella Carlo Magno fa un grande uso.
fidelitas,
Il rapporto del cittadino con la cosa pubblica si immedesimata. Con la fidelitas giurata al sovrano anche il
concetto di reato si trasforma per identificarsi con la violazione di quella della fedeltà. Il rapporto di sovranità-
sudditanza perde così il carattere astratto per divenire un legame concreto, individuale.
Si può dire linea generale che all'obbligo di fedeltà del suddito corrisponde (esplicito o implicito) quello della
protezione da parte del superiore. Per questa via la sovranità si tinge di colori protettivi.
Alla generale prestata da tutti al re si contrappongono forme di specifica, e una di queste è il
fidelitas fidelitas
vasallaggio.
La parola forse variante del celtico che significava uomo, fa la sua comparsa in Italia all'inizio
vassus, gwas,
dell'VIII secolo; il re tiene alcuni al palazzo, altri ne invia qua e là ad amministrare beni fiscali.
vassi
Si tratta di servitori, ma quando sono servitori di re e di potenti, le loro basse mansioni acquistano
onorificenza.
Un capitolare, forse di Ludovico il Pio, e forse dell'816, elenca i cinque casi in cui il vassallo può
legittimamente sottrarsi a rapporto con il senior:
1) quando il senior rabbia preteso ingiustamente servizi non previsti
2) quando il senior abbia congiurato contro la sua vita;
3) quando il senior si sia precipitato su di lui a spada snudata;
4) quando il senior abbia commesso adulterio con la moglie;
5) quando il senior abbia tralasciato di difenderlo.
Quest'ultimo caso poteva essere invocato dal vassallo soltanto quando rapporto fosse stato instaurato come
formale commendatio.
La era praticata da secoli. Già invocata dalla a proposito dell'assunzione di
commendatio lex Wisigothorum
bucellari nel patrocinium di potenti, i Longobardi l'avevano attinta dagli usi volgari e ne avevano tratto la
condizione semi servile di una categoria di lavoratori della terra, detti, commendati.
La prima descrizione di una eseguita, mettendo le mani in nelle mani del signore e
commendatio
pronunciando solenne giuramento di fedeltà, riguarda non servi semiliberi ma un personaggio di grandissimo
rilievo, il potente duca da Tassilone di Baviera il quale, facendo atto di sottomissione, si commenda nel 757
al re dei franchi Pipino e ai suoi figli.
Il superiore gerarchico, nel rapporto vassallatico, sin dall’epoca antica venne chiamato o più anziano.
senior,
La stranezza del nome può essere forse spiegata dalla naturale contrapposizione ai o giovani, che
iuniores,
dall'età merovingia erano i collaboratori dei conti.
Alle origini del vasallaggio si muovono dunque figure varie disposte su livelli sociali diversi. Anche poi
vassalli che nel 792-793 erano chiamati servi, a forza di venir onorati di e progredirono
beneficia ministeria
rapidamente nella scala delle gerarchie.
Il che era un tipo di salario, era per forza connesso con un servizio, ministerium, e svolgerlo per un
beneficio,
signore significava legarsi a un ambiente prestigioso.il servizio che, gli inizi, venne maggiormente
remunerato con buoni beneficia fu quello militare, e fu nel contesto militare che il beneficio si vide destinato a
costituire il secondo elemento, quello patrimoniale, del futuro feudo.
Furono le guerre incessanti a propagare i militari ai tempi della dinastia carolingia suo si usò
beneficia
all'inizio il dare terre ai combattenti in che era la forma di concessione agraria usata dalla Chiesa.
precaria,
La si adottò perché le terre scelte per queste assegnazioni erano perlopiù ecclesiastiche; equiparate ai beni
fiscali, dato che la Chiesa e restituzione pubblica, esse avevano il vantaggio d'essere abbondanti.
La medievale richiama nel nome il vecchio precarium Romano, dal quale in realtà differisce
precaria
parecchio. Il era gratuito, la precaria no; l'uno era provvisorio e l'altra a termine; il primo non era
precarium
un contratto, e la seconda si. 23
Per uno strano tipo di fu quello utilizzato per finanziare l'esercito nell'ultima età merovingia e agli
precaria
inizi di quella carolingia. Al posto della rituale richiesta del concessionario e della libera contrattazione stava
l’ unilaterale decisione del re espressa in forma normativa, in un capitolare.
Quello di Les Etiennes 743 del,1 dei più antichi che si abbiano, stabilisce la riserva di una quota delle
proprietà di chiese e monasteri all'uso militare, definisce il censo annuo da pagare all'ente religioso, lascia al
potere pubblico di determinare la durata del rapporto e di imporne rinnovo tutte le volte che lo riterrà
opportuno.
La svanisce presto dalla scena beneficiaria, ma si conserva l'abitudine di distribuire terre della
precaria
Chiesa e si mantiene il forte legame del beneficio con il servizio militare.
Per tutta l'età carolingia l'istituto giuridico del beneficio sfugge alle definizioni. Si nota che il termine, usato
nel senso generico di "atto benevolo", ha contenuti vari. Ancora in pieno IX secolo, ad esempio, il sovrano si
dice desideroso di premiare con congrui benefici coloro che gli prestano fedeltà e ossequio, ed elargisce loro
terre regie non in concessione mia proprietà piena.
Il carattere che più ha peso sul risulta quello aleatorio, non tanto quello della temporaneità. Le
beneficium
notizie che abbiamo giungono perlopiù da poche leggi, da qualche diploma regio o da fonti indirette, perché
l'area della revocabilità escludeva che si redigesse ogni volta un documento notarile di concessione. Il
documento, infatti, aveva proprio l'efficacia contraria, quella di attestare di produrre firmitas.
Privo del supporto della documentazione, il beneficio era spesso fonte di disordine. In casi limite arditi
truffatori riuscivano a trasformare il godimento temporaneo in proprietà piena alienando illegittimamente il
beneficio a terzi, per poi ricomprarlo e ottenere così una carta notarile che comprovasse la falsa
appartenenza del bene Di fronte a simili malefatte il re s'indignò. Non, tuttavia, perché il
ius dominii.
comportamento configura un'evidente ipotesi di reato, ma perché l'azione subdola violava l'obbligo della
sincerità imposta dalla giurata al sovrano. Insomma non perché il malfattore aveva compiuto una truffa,
fides
ma perché si era macchiato di infidelitas.
Per ovviare alla confusione i sovrani dovettero inviare i in varie città ad accertare lo stato dei
Missi dominici
vecchi benefici laici ed ecclesiastici.
Da vari indizi si intravvede che sin dalla prima metà del IX secolo si dovevano essere formati comprensori
pubblici destinati all'erogazione di benefici; siccome terreni usavano avere un loro v'erano
status giuridico,
miriadi di appezzamenti che acquistavano stabilmente natura beneficiale, quasi ne avessero impresso sulla
terra il marchio. Le terre date in beneficio erano normalmente immuni. I venivano assegnati o su
beneficia
terre dell'imperatore o su territori appartenenti alla chiesa.
Va infine rilevata, nell'età carolingia, la tendenza della e del a convergere. Lotario, nel
fidelitas beneficium
839, proclama che è cosa degna della maestà imperiale di esaltare con benefici coloro che si
sottomettevano al sovrano in fedeltà totale.
Il feudo nasceva dunque quando i tre elementi peculiari, ovvero il vasallaggio, il beneficio, e l’immunitas,
convergono, unendosi.
Unicamente quando il privilegio diventa stabile vi è la mera nascita del feudo, in quanto il territorio in
questione cessa di possedere un carattere di temporaneità e aleitorietà.
Carlo il Calvo, nel 877,11 anni prima dell'estinzione della dinastia carolingia, era circondato dall’infidelitas, la
quale nasceva da trame familiari.
Al fine di conquistare l'aristocrazia carolingia, il sovrano fu disposto ad elargire grandi concessioni, le quali si
rivolgevano anche alla partecipazione da parte dell'aristocrazia alla stessa vita legislativa.
Questa partecipazione è particolarmente evidente all'interno del i cui primi nove articoli
capitolare di Quiercy,
risultano emanati con l'interrogazione diretta dall'assemblea, la quale mette in evidenza una partecipazione
dell'aristocrazia all'emanazione legislativa.
Questo capitolare conferisce l'ereditarietà (stabilità) dei feudi maggiori.
Non si trattava comunque di una vera e propria ereditarietà, in quanto non vi era alcun automatismo nella
concessione. Era comunque prevista un'investitura dei figli al fine di farli godere dei propri dal
beneficia
padre.
Carlo il calvo si era così impegnato a far sì che nel caso di morte dei suoi avrebbe riconosciuto ai figli
fideles,
tutti i beneficia che ricadevano in capo al padre, prima che fosse deceduto, con una nuova investitura,
sempre però se questi fossero stati lavoratori all'interno della contea. 24
Per quanto concerne la stabilità del feudo, di fondamentale importanza risulta L’edictum de Beneficiis,
emanato nel 1037 da Corrado II.
Fu una norma di grande rilievo storico che, accordando la stabilità dei benefici, aprì la strada verso la
costruzione del feudo lombardo.
Nessun maggiore di vescovi, di abati o di badesse, di conti o di marchesi, e nessun minore
miles miles
investito di benefici su terre fiscali e della chiesa, poteva essere privato, se non per propria colpa, da provare
dinanzi ad un tribunale di pari oppure dell'imperatore o di suoi dei propri benefici.
missi,
I figli succedevano in questi benefici, e in loro mancanza i figli dei figli, eccezionalmente i fratelli; ai signori
era vietato di esercitare i loro diritti proprietari permutando i benefici o assoggettandoli a precari senza il
consenso dei beneficiari. La costituzione di Corrado II fu il tronco sul quale si innestarono le nostre
consuetudini feudali.
Capitolo 10: dopo l'anno 1000
L'estinzione della dinastia carolingia risale all'888. Per qualche decennio la carica di imperatore rimase
vacante.
La grande trasformazione degli assetti economico sociali che si avviava all'alba del nuovo millennio
corrispondeva ad ansie di rinnovamenti religiosi e politici che scatenarono ai tentativi di riforma della Chiesa
e dell'impero.
Per quanto riguarda l'impero, esso era lanciato all'inseguimento di poteri antichi.
Proprio in questo periodo si stabilizza una nuova dinastia, quella degli Ottoni.
L'incoronazione del sassone Ottone I, che diede inizio a questa dinastia, si ebbe nel 962, e chiuse un lungo
periodo di vacanza succeduto alla morte dell'ultimo carolingio.
Nell'Italia si abbattè un forte vento di germanizzazione, il quale fu però di breve durata.
Ottone, preparò inoltre nuove aperture alla romanità, quando decise di unire matrimonio una principessa
bizantina e il figlio Ottone II, che nel medesimo 967 aveva associato al trono.
Fu il figlio di costui, Ottone III, educato dalla madre greca alla cultura di Bisanzio, a soggiornare a Roma, a
dichiararsene affascinato, a confessare di preferirla alla pur dilettevole Germania e a passare alla storia per
il restauratore della tradizione imperiale. Si ebbe così la seconda Renovatio Imperii.
Fu infatti a partire da questo imperatore che il solito appellativo di si trasformò in quello di
Augustus Caesar
più ricco di reminiscenze, e che il sigillo imperiale riesumò la dicitura
Augustus, Renovatio Imperii
Romanorum.
I successivi regnanti d'Occidente si forgiarono così del titolo di riconosciuti anche
Imperatores Romanorum,
dalle cancellerie orientali. Si ebbe dunque una vera e propria restaurazione dell'impero romano, e Ottone III
divenne così un paladino della romanità.
Il problema fondamentale del ritorno all'ambito Romano, era caratterizzato dal recupero del diritto
Giustinianeo. Sembrava infatti quasi evidente che Ottone III si fosse fatto paladino non solo della romanità,
ma anche delle fonti originali del diritto Giustinianeo.
Egli infatti incarnava la figura dell'imperatore che utilizzò il diritto romano, ovvero il diritto di Giustiniano,
quale diritto dell'impero.
Questa tesi era avvalorata dal fatto che la vecchia storiografia attribuisse Ottone III un fatto di cronaca
successiva: la consegna di una copia del codice di Giustiniano ad un magistrato.
Ma la vera protagonista del recupero del diritto Giustinianeo risulta essere la Chiesa.
Intorno alla metà dell'XI secolo era stato avviato un processo di recupero delle ovvero dei diritti
regalie,
Maiestatici.
Si trattava di un recupero reso opportuno e necessario affinché la fine della dinastia carolingia (888),
caratterizzata da una fitta rete di insita in trame familiari, costruisse un nuovo piano sul quale
infidelitas,
potesse governare il nuovo imperatore.
Il recupero delle incentrato sul fisco e sul demanio (recupero degli ufficiali, i quali dovevano essere in
regalie,
capo all'imperatore; precisazione di determinate imposizioni fiscali), occupa un arco temporale molto lungo,
di circa un secolo.
Questo trova la sua conclusione nel 1158, quando Barbarossa diede avvio alla dieta di Roncallia.
Tale situazione portò al recupero dei cosiddetti Giustinianei, i quali rimasero inutilizzati per tutta
tres libris
l'epoca carolingia. 25
Questo recupero risulta adducibile all'attività dell'imperatore, mentre il recupero di altre due opere
Giustinianee, ovvero l'Authenticum e il avviene per mano della Chiesa.
Digesto,
Il rapporto tra Chiesa e impero, ad un certo punto, va via via logorandosi fino a rompersi. La Chiesa non si
riconosce più quale istituzione pubblica di Stato; si ha dunque a che fare con una Chiesa proiettata verso
nuovi spazi.
La chiesa acquista una dimensione elevata, del tutto innovativa, in particolar modo nell'epoca ove vi furono
gli scontri tra l'imperatore Enrico IV ed il papa Gregorio VII.
Nella seconda metà dell'IX secolo i rapporti tra Stato e Chiesa risultano sempre più roventi. La Chiesa è
insoddisfatta del ruolo che ricopre, ed avverte la necessità di una riforma interna, non gestita dall'impero,
bensì dalla Chiesa stessa.
A questa problematica si aggiunge anche quella delle investiture.
Era infatti l'imperatore a nominare il sia il Papa che gli vescovi, decidendo infine a chi elargire i beneficia,
creandosi intorno, in tal modo,1 rete di alleanze assai fitta e duratura.
Furono questi i fattori scatenanti che indussero la Chiesa ad accusare l'imperatore della violazione della
sacralità dell'ufficio divino, in quanto era il regnante stesso che nominava coloro i quali avessero dovuto
ricoprire cariche ecclesiastiche.
La voluta fortemente dalla Chiesa, la quale era alla ricerca della spiritualità che dal X
Riforma gregoriana,
secolo la animava, nacque dunque da un ordine ecclesiastico, più precisamente dall'ordine dei benedettini
che, nel 910, in Francia, a Cluny, aveva già dato vita a un movimento riformatore, il quale prevedeva
l'estromissione dell'imperatore dagli interventi sulla Chiesa stessa.
Venne così resa indispensabile è necessaria un'obbedienza diretta al Papa sia sotto il profilo della disciplina
ecclesiastica.
I contrasti tra il pontefice e l'imperatore nascevano dunque dal delineamento dei ruoli ricoperti dai due
personaggi.
Le posizioni della Chiesa e dell'imperatore venivano esposte nei differenti scritti denominati atti
libelli d’elite,
a difendere le posizioni sia dell'imperatore che, contemporaneamente, della Chiesa.
Importante risulta il documento utile al fine di avvalorare la legittimità delle posizioni di
Defensio Enricii,
Enrico IV.
Il suddetto libello risulta composto intorno al 1084 da Pietro Crasso, autore sconosciuto, del quale si ipotizza
l'appartenenza alla cancelleria di Ravenna, considerata la fucina di opere utili ad avvalorare le ragioni
dell'imperatore, difese anche in alcuni documenti falsi.
Nonostante solitamente fosse la Chiesa a dare origine a dei documenti fasulli, anche la cancelleria
imperiale, in questo il periodo, produce dei falsi, di cui tre risultano essere di fondamentale importanza:
1) Decretum Adrianum;
2) Privilegium Maius;
3) Privilegium Minus.
Questi falsi erano dunque utili a dimostrare che l'imperatore fosse il detentore di tutti poteri sulla terra,
conferendogli, in tal modo, la capacità di poter “ tenere a bada” il Papa.
Le posizioni dell'impero venivano difese grazie all'utilizzo di fonti tratte sia dalle sacre scritture che dal diritto
romano.
Nonostante nel documento vi sia una citazione del Digesto Giustinianeo, non venendo
Defensio Enricii
indicato né il luogo dell'opera dal quale viene attinto questo passo, ne la qualità e tanto meno la credibilità
del riferimento, tale citazione non risulta essere soddisfacente.
Ma già prima del 1084 il digesto aveva fatto qualche apparizione in luoghi convincenti, in opere redatte dalla
Chiesa, le quali venivano maneggiate ancor meglio che nell'ambito della cancelleria imperiale.
Il nuovo millennio si aprì con una nuova collezione, quella di atta a testimoniare i radicali
Burcardo di Worms,
cambiamenti che, all’epoca, colpivano l’ambiente ecclesistico.
Quest'opera venne redatta tra il 1008 e il 1012; è una collezione importante in quanto rappresenta il
passaggio da una chiesa ancora di stampo costantiniana ad una Chiesa che, invece, nel nuovo millennio,
sente la necessità di occupare nuove posizioni. 26
L'opera di nonostante risulti lontana rispetto alle opere dell'ultimo 25ennio del secolo,
Burcardo di Worms,
eccheggiando una matrice moderata, sorvola su differenti argomenti, come quello dei concili, ove aleggiava
la dominazione dell'imperatore; o ancora sull'argomento dei che, la Chiesa, non voleva fossero
beneficia,
decisi solo ed esclusivamente dall'imperatore.
Fu così che la Chesa iniziò a proteggere i propri beni, considerandoli sacri e inviolabili, non intaccabili
dunque dall'imperatore.
Con la vi è quindi un'esaltazione del pontefice, quale maggior rappresentante
riforma gregoriana
ecclesiastico,1 tutela dei beni della Chiesa, e infine la ricerca di una mera riforma spirituale.
Le collezioni che maggiormente evidenziano come la Chiesa risulti travolta dalla sono:
riforma gregoriana,
1)la risalente al 1074. L'autore di quest'opera rimane ancor oggi sconosciuto. Essa
collezione in 74 Titoli,
venne composta intorno alla metà dell'anno 1000, quando il papato era retto da Leone IX, o
nei primi sei anni del papato di Gregorio VI.
2)la la quale recupera buona parte della del 1074,
collezione canonica di Anselmo da Lucca, CollezioneTitoli
circa i due terzi. L'autore di quest'opera era un grande amico di di Gregorio VII, e, per queste
motivazioni, ne acquisirà tutte le posizioni.
Essa, al suo interno, contiene gran parte delle rispondenti alle esigenze di
Decretalie pseudo Isidoriane,
rinascita che caratterizzavano la Chiesa dell'epoca. Ivi è inoltre contenuto il falso documento ecclesiastico
denominato il quale conferiva alla Chiesa il potere decisionale.
Constitutum Constantini, risulta inoltre essere la collezione che meglio risponde alla
La collezione canonica di Anselmo da Lucca
riforma gregoriana. Anselmo da Lucca recupera infatti l’Autenthicum, del quale viene citata qualche
collezione.
Il vero manifesto della riforma gregoriana è però rappresentato da un documento intercalato nell'edificio
papale, un manoscritto risalente al marzo 1075: il composto da sole 27 proposizioni.
Dictatus Papae,
Per l'esiguità dei contenuti, non può dunque essere considerato una vera e propria opera, bensì un foglietto
all'interno del quale il Papa Gregorio VII, di suo pugno, scrisse il proprio pensiero le proprie posizioni.
queste 27 proposizioni lapidarie erano utili al fine di mettere in risalto la figura del pontefice, la sua
preminenza nei confronti dei vescovi dei concili, ma soprattutto nei confronti dell'imperatore.
All'interno del è stata riscontrata un'evidente arroganza nelle disposizioni del pontefice, ove
Dictatus Papae
viene infatti affermato come l'imperatore debba, in segno di onorificenza, "baciare i piedi al Papa".
Gregorio VII afferma inoltre come il Papa possa fregiarsi dei sigilli imperiali.
Al pontefice veniva infatti riconosciuta, all'interno di questo documento, la capacità di sciogliere i vincoli di
sottomissione che legavano il popolo al sovrano, andando a ricoprire così non solo ruoli spirituali, ma anche
temporali, tipici dell'autorità regnante.
Infine, nel emergeva un fortissimo strumento utilizzato dalla Chiesa al fine di isolare
Dictatus Papae,
dall'universalità sia i sovrani che gli privati: la scomunica.
Gli individui,1 volta ricevuta la scomunica, non potevano più essere reintegrati all'interno dell'ambiente
ecclesiastico.
Questo documento dunque divenne il vero e proprio manifesto della riforma gregoriana, in quanto raccolse
le volontà di Gregorio VII, negli incandescenti anni dell'XI secolo, caratterizzati dalle aspre lotte tra
imperatore e Chiesa.
Vi sono inoltre due ipotesi inerenti la secondo le quali questo solo documento potrebbe
Dictatus Papae,
rappresentare la (suddivisione in capitoli) di un'opera di Gregorio VII, andato oramai perduta,
capitulalatio
oppure l'indice di un'opera che si sarebbe dovuta redigere.
Analizzando questa seconda ipotesi viene subito richiamata alla mente la richiesta che il papa Gregorio VII
fece a Saint Pierre Damiani di intraprendere la stesura di un'opera che raccogliesse al suo interno tutta le
idee del pontefice concernenti la vita e la struttura della Chiesa.
Egli però rifiutò la proposta di Gregorio VII.
Saint Pierre Damiani era dotto conoscitore del diritto Giustinianeo; infatti nel 1045 si ritrovò a Ravenna per
discutere con altri dotti del problema concernente il computo dei gradi di parentela, che investiva l'uso del
computo canonico e anche del computo civile. 27
Fu dunque la Chiesa, al fine di forgiarsi degli scritti Giustinianei, a recuperare il per portare avanti la
Digesto,
riforma gregoriana.
Per quanto riguarda quest'opera Giustinianea, ovvero il riappare nelle opere di Ivo di Chartres in tre
Digesto,
differenti documenti scritti (due dei quali però, risultano essere di paternità dubbia):
1) (paternità dubbia)
il Decretum
2) (paternità dubbia)
la Panormia
3) La Tripartita.
Ivo di Chartres cita in queste tre opere alcuni passi del anche se, in verità, le principali citazioni
Digesto,
dell'opera Giustinianea fecero la loro apparizione nell'opera del1076 e nella
Placito di Marturi Collectio
britannica.
La non era altro che una sentenza emanata nel 1076 a Marturi, cittadina senese.
Placito di Marturi
Il convento di San Michele cercava di recuperare dei beni donati all'istituzione circa ottant'anni prima, i quali
erano stati usurpati ed usucapiti da un marchese del luogo, il quale li aveva sottratti all'ambiente
ecclesiastico.
Il vescovo non si perse d'animo, e i monaci di questo convento, al fine di recuperare tutti quei beni andati
ormai perduti, rispolverarono il Digesto, utilizzando un passo utile a vincere la causa.
Il passo in questione era adducibile ad Ulpiano, e consentiva di ottenere la sia per i
restitutio in integrum
minorenni, che per tutti i maggiorenni che non fossero riusciti ad ottenere giustizia.
Rifacendosi a questo scritto i monaci riuscirono a recuperare tutti i beni del marchese aveva preso loro, il
quale, in passato, prima della sua morte, non aveva permesso che questi venissero recuperati dai legittimi
proprietari. Questo passo venne tratto dal cosiddetto Digestum Vetus.
Il digesto, con i suoi 50 libri, venne ovviamente recuperato in tre momenti differenti.
1) In un primo momento, riapparvero i primi 24 libri, di cui il 24esimo riapparve in completo, presentando
unicamente i primi due capitoli. Questa parte dell'opera, riapparsa ancor prima delle altre, viene denominata
Digestum Vetus.
2) In un secondo momento vennero recuperati gli ultimi 12 libri dell'opera, denominati Digestum novum.
3) Quelli che vennero recuperati in un terzo ed ultimo momento, furono i libri intermedi dell'opera, denominati
in quanto andavano a rafforzare le parti preesistenti dell'opera stessa.
Digestum Inforzatum,
Di grande importanza fu infine la opera composta da un ecclesiastico tra il 1088 e il
Collectio britannica,
1099, anni nei quali i monaci tentarono di recuperare differenti istituzioni, come il matrimonio; quest'opera è
attualmente conservata a Londra presso British museum, ma venne scritta a Roma, ove avvenne anche il
ritrovamento del Digestum Vetus.
comprende un numero assai elevato di passi del digesto, ben 93 frammenti, citati in
La Collectio britannica
maniera corretta e precisa, dei quali 91 appartenenti al il 92esimo al ,
Digestum Vetus, Digestum Inforzatum
e il 93esimo al Digestum Novum.
Analizzando la composizione di quest'opera sorge però spontaneo un interrogativo: come è possibile
spiegare la presenza di questi ultimi due frammenti dato che all'epoca era riscontrata la presenza del solo
Digestum vetus?
Due ipotesi cercano di rispondere coerentemente a questo quesito:
1) essendo il Digesto un manoscritto composto da 50 libri, i quali vennero, nel corso degli anni, suddivisi in
differenti tomi, è fattibile pensare che la redazione di quest'opera avvenuta a Roma tra il 1088 il 1099,
contenesse anche alcuni frammenti non appartenenti al questa spiegazione sarebbe
Digestum vetus;
plausibile se si riscontrasse una suddivisione in due tomi del documento in questione.
2) La spiegazione più verosimile risulta quella che afferma come i due frammenti non appartenenti a
siano stati aggiunti in seguito alla redazione dell'opera.
Digestum vetus
Questo infatti spiegherebbe le motivazioni per le quali i frammenti contenuti nel vengano
Digestum vetus
inseriti con una mera regolarità, tanto da apparire redatti, all'interno della con armonia e
Collectio britannica,
costanza, divenendo rappresentativi dei primi 24 libri; discorso differente invece riguarda gli di ultimi due
frammenti, i quali, appaiono disconnessi ai precedenti. 28
A Roma, tra il 1088 il 1099, venne utilizzata una particolare edizione manoscritta del la più antica
Digesto,
che avesse circolato in Occidente: la (così denominata in quanto dapprima si
Littera Pisano Florentina
riscontrava la sua presenza presso la città di Pisa nel XII secolo, ed in seguito venne importata a Firenze,
agli inizi del 400, ove si trova ancora oggi).
Questa particolare edizione manoscritta, secondo taluni, rappresenterebbe la redazione del inviata
Digesto
nell'Italia da Giustiniano dopo la conquista dei Goti, e quindi con la Pragmatica Sanctio.
Per diverso tempo si è ritenuto che in Italia questa lettera rappresentasse la matrice di tutte le redazioni
successive del circolanti nel territorio nostrano, in particolare della opera
Digesto Vulgata Bolognesis,
utilizzata nella scuola di Irnerio presso la città di Bologna.
A dimostrazione di un plausibile collegamento tra le due tradizioni manoscritte è la presenza, in entrambe le
opere, di una celebre inversione di fogli.
La contiene infatti un errore di impaginazione, il quale viene riscontrato in eguale modo anche
Littera
all'interno della Vulgata.
Nonostante si riscontri questa coincidenza che crea un collegamento fittizio tra le tue opere, sono però tante
le sostanziali differenze che intercorrono tra esse.
Risulta perciò necessario immaginare la presenza di redazioni intermedie tra i due documenti in questione,
al fine di giustificare le notevoli differenze riscontrate.
Due sono le ipotesi che riguardano l'esistenza di una possibile redazione intermedia:
1) da alcuni studiosi è stato sostenuto che una relazione intermedia, collocata intorno all'XI secolo,
rappresentò la vera matrice della Vulgata Bolognesis.
2) secondo Cortese, l'ipotesi che colloca quest'opera intermedia nell'XI secolo, risulta inesatta. Egli infatti
ritiene che la ramificazione tra le due edizioni manoscritte sarebbe avvenuta molto prima, addirittura ancor
prima del 603, in età post-Giustinianea, in quanto già nella redazione di Gregorio Magno, denominata
si sarebbe fatto uso non dell'originale ma di una copia di questo
Communitorium, Littera Pisano Florentina,
documento fantasiosamente denominata Codex secundus.
dunque, utilizzò probabilmente la copia del intermedia, collocata tra la
La Collectio Britannica, Digesto Littera
e la ovvero il che evidenzia una fase di passaggio
Pisano Florentina Vulgata Bolognesis, Codex Secundus,
tra le due edizioni; questo giustificherebbe l'appartenenza al medesimo filone di ambedue i documenti.
La lotta tra impero e Chiesa portata avanti da Gregorio VII e da Enrico IV si fece assai più aspra dopo
gennaio del 1076, quando la Chiesa cercava di avvalorare le proprie pretese contro l'imperatore utilizzando i
testi Giustinianei originali, recuperati appunto dall'ambiente ecclesiastico.
La forte religiosità che connota il medioevo non si spegne neppure in questo periodo di aspre lotte; è anzi
l'impero che sente la necessità di tener vivi i collegamenti esistenti tra i regolamenti dello Stato e le leggi
ecclesiastiche, avviando una forte riscoperta dei due ordinamenti che vigevano all'interno dell'ambito sociale:
l'ordinamento civile e l'ordinamento canonico, ricordando in tal modo la teoria del corpo misto di Papa
Gelasio I.
L'uomo, infatti, durante la sua vita terrena, doveva tener conto non solo delle leggi che regolamentavano
l'ambiente civile, e dunque dell'ordinamento civile, ma anche del regolamento canonico, conducendo in tal
modo una vita rilevante sia sotto il profilo giuridico che sotto il profilo religioso, senza mai trasgredire la
legge, né i dettami divini.
La convivenza e il rispetto di ambedue i regolamenti, ovvero dell'ordinamento civile e canonico, darà origine
all’ il cui significato è: l'una e l'altra legge.
Utraque Lex,
Da questa formula, scaturirà in seguito a una sorta di evoluzione, che porterà alla luce l’ dal
Utrumque Ius,
significato l'uno e l'altro diritto.
Con esso si giungerà alla fusione dei due diritti, canonico e civile, che daranno origine ad un unico
ordinamento, dal quale attingeranno indistintamente sia la figura del giurista che dell'ecclesiastico.
Questo sistema entrò in vigore a partire dal 1300, con la nascita della scuola dei commentatori.
Prima del 300, ovvero del periodo di affermazione dell’ venivo utilizzata dunque l’Utraque
Utrumque Ius, Lex,
ovvero il rispetto dei due distinti ordinamenti, quello dello Stato e quello della Chiesa, al fine di condurre una
vita retta e giusta. 29
Il rispetto dell’Utraque faceva sorgere differenti problematiche.
Lex
Innanzitutto, essendovi due distinti ordinamenti, per quanto concerneva all'ambito del rispetto delle leggi
divine, bisognava trovare un sistema al fine di renderle inattaccabili; inoltre bisognava cercare di dar luogo
ad un compromesso per tutte quelle leggi canoniche che contrastavano con l'ordinamento civile.
Infatti, nel caso in cui vi fosse un contrasto tra l'ordinamento civile e l'ordinamento canonico, quale delle due
legislazioni doveva prevalere sull'altra?
Naturalmente, tale quesito, non vi era una risposta equa
Il civilista, infatti, scavalcava le norme canoniche senza mai però intaccare quelle divine; mentre il canonista,
ovviamente, faceva prevalere i principi canonici su quelli civili.
Queste problematiche vennero meno con l'affermarsi dell’ Utrumque Ius.
Infatti, essendoci un unico ordinamento, vi sarà la prevalenza di un precetto che aderisce ai principi etici più
diffusi.
Dunque, sia il civilista che il canonista, si potranno occupare di entrambi gli ordinamenti, ormai fusi all'interno
di un'unica legislazione. 30
PARTE SECONDA
Capitolo 1: scuole preirneriane di diritto
La prima scuola scientifica di diritto romano è quella di Irnerio, nata a Bologna nei primi anni del XII secolo.
Ma prima di Irnerio, vi era stato qualche studio scientifico del diritto? esistevano, dunque, scuole
preirneriane?
Se ci si interroga sul problema inerente la diffusione della cultura nell'alto medioevo, ci si rende conto che la
cultura di livello abbastanza elevato veniva insegnata all'interno delle scuole di Arti Liberali, adatte agli
uomini liberi; esse rappresentavano i nostri attuali ginnasi, ove venivano insegnati principi teorici i quali
venivano applicati all'attività quotidiana dell'uomo.
Le scuole di Arti liberali erano degli istituti di matrice ecclesiastica, che sorgevano presso le grandi cattedrali,
essendo all'epoca, la Chiesa la vera detentrice della cultura.
Erano caratterizzate da un filone comune: la mera rilevanza pratica degli insegnamenti ivi impartiti.
Le arti liberali insegnate all'interno di queste scuole erano 7, suddivise in due grandi gruppi:
1) comprendevano l'insegnamento della dialettica, della grammatica, e della retorica.
arti sermoniali:
Dovevano servire alla formazione dell'avvocato, al fine di far apprendere agli studenti i regolamenti e le
modalità del porsi agli altri individui, parlando e scrivendo in maniera corretta.
2) termine derivante dal latino Esse comprendevano lo studio della musica, dell'astronomia o
arti reali: res.
dell'astrologia, della geometria e dell'aritmetica. Erano tutti insegnamenti volti alla conoscenza di tutte le
cose.
Negli studi che venivano effettuati all'interno delle scuole di arti liberali non vi era un indirizzo specifico verso
una materia concernente in modo specifico il diritto.
Qualche nozione veniva impartita nel corso delle e in speciale modo là dove si studiava la
arti sermoniali,
retorica, caratterizzata dalla lettura di Cicerone.
Le scuole di arti liberali rappresentavano i luoghi di studio e di formazione di futuri avvocati e magistrati.
Prendendo in considerazione queste tipologie di scuole bisogna considerare che gli imperatori carolingi
sentirono la necessità di elevare il livello culturale dell'epoca.
Per quanto concerne l'età carolingia in Italia, bisogna considerare il capitolare ecclesiastico dell'825 di
Lotario, il quale testimonia la presenza di scuole di arti liberali sparse all'interno del regno italico.
Forse questo capitolare non istituiva una nuova rete di scuole, ma aveva come obiettivo quello di ridistribuire
il numero di studenti frequentanti in modo uniforme all'interno degli istituti preesistenti.
In età preirneriana, l'unica scuola di diritto di cui è accertata l'esistenza, testimoniata da differenti opere e
documenti da essa stessa prodotti, è quella situata presso la città di Pavia, sorta accanto alla rete di scuole
di altri liberali.
Essa si differenzia da quella che nascerà con Irnerio in quanto al suo interno non vengono impartite lezioni
di diritto romano; l'istituto risultava infatti incentrato sullo studio del diritto longobardo e Franco, basandosi sui
longobardi e sul carolingi.
liber capitolari
Nella scuola di diritto veniva utilizzato il una raccolta di materiale normativo, contenente i
Liber Papiensis,
longobardi e il carolingio, caratterizzato dalla presenza al suo interno di editti vigenti
liber capitolare italicum
in Italia.
La redazione di questo libro si va formando con il tempo, raggiungendo la sua stabilità nell’XI secolo.
All'interno della scuola di Pavia si sentì l'esigenza di ridistribuire il materiale di studio in maniera sistematica.
Nel il materiale risultava riordinato in ordine cronologico, e necessitava di una ridistribuzione
Liber Papiensis
sistematica, la quale invece risultava una delle caratteristiche principali della contenente lo
lex longobarda,
stesso materiale del Liber.
Questa tipologia di scuola nacque a Pavia per la formazione professionale di coloro che dovevano trovare
impiego all'interno dell'ambito amministrativo e giuridico.
Fondamentalmente questo istituto professionale mostrò interesse di tipo prevalentemente pratico,
orientandosi dunque verso lo studio del diritto che trovava applicazione nel foro. 31
Infatti, da essa uscirono numerosi tesi alla pratica del diritto che trovava applicazione all'interno del
formulari,
foro, in particolar modo nell'ambito della materia processuale.
Ivi il materiale è riportato in ordine cronologico. L'elemento della cronologicità servirà differenziare il
dalla
capitolare italicum lex longobarda.
L'opera più significativa e di maggior rilievo prodotta da diversi giuristi della scuola di Pavia prende il nome di
la quale rappresentava una sorta di commento analitico alle varie norme
Expositio ad Librum Papiense,
contenute all'interno del ed era anch'essa caratterizzata da una formazione stratificata.
Liber Papiensis,
Al suo interno i giuristi dell'istituto vennero distinti in tre differenti categorie: antiqui, antiquissimi e moderni.
Questa suddivisione fa percepire quanto antica fosse questa scuola, e concerne l'approccio nei confronti del
diritto romano e la considerazione che adesso venne da essi riservata.
Dallo studio della è possibile desumere che tutte e tre le categorie di giuristi
Expositio ad Librum Papiense
considerassero il diritto romano quale ovvero la legge generale di tutti gli individui,
lex generalis omnium,
dalla quale bisognava attingere in caso vi fosse una lacuna all'interno del diritto Franco-longobardo.
Oltre alla scuola di Pavia, molti studiosi, in passato, affermarono erroneamente che fosse possibile
ipotizzare l'esistenza di scuole preirneriane situate una nella città di Roma e una in quella di Ravenna.
Ma a differenza della prima, la qui reale esistenza è testimoniata dalla presenza di opere e documenti, la
situazione che aleggia intorno all'ipotetica esistenza di queste due scuole è minata da dubbi e lacune.
Per indagare sulla possibile esistenza delle scuole di Roma e Ravenna, risulta necessario analizzare gli
eventi storici dell'epoca.
Odofredo, giurista e glossatore molto scrupoloso e attento, riportava all'interno delle sue opere,
testimonianze di storia non confermatene né tanto meno accompagnate da alcuna documentazione.
Egli affermò che la scuola di Bologna nacque sulla base di quelle di Roma e Ravenna.
Odofredo, all'interno dei suoi scritti, sostiene che i cosiddetti materie di studio all'interno della
liber legales,
scuola di Bologna, nacquero nell'istituto di Roma, per poi essere importati a Ravenna e infine approdare
nella scuola di Irnerio.
questa tesi fece supporre la possibile esistenza di queste due scuole preirneriane.
S. Pierre Damiani, nel 1045, secondo documentazioni storiche approvate, si trovava a Ravenna per
disputare con i dotti in materia di compiuti di gradi di parentela.
Egli difendeva il computo Canonico e, per questa sua posizione, differiva dagli membri dell'assemblea, i
quali portavano avanti il baluardo del computo Giustinaneo.
I dotti, essendo conoscitori del diritto Giustinaneo e portando avanti il suo computo, potevano essere in
qualche modo docenti di una delle scuole esistenti all'epoca?
Questi individui di grande conoscenza, nel racconto descrittivo della disputa, vennero distinti come coloro
che si forgiavano di una ferula, bacchetta utilizzata dei docenti nelle ore di lezione con gli studenti.
L'assemblea in questione si svolse in un ginnasio, e ciò potrebbe ricondurre all'aula di un istituto scolastico.
Ma, seppur nel loro complesso possano sembrare corrette, quest'ipotesi non sono sufficienti a garantire la
mera esistenza della scuola di Ravenna, alla quale non può essere ascritto alcun documento.
Inoltre, la ferula, ovvero la bacchetta della quale si forgiavano tutti i dotti ivi presenti, veniva utilizzata non
solo dagli insegnanti, ma in particolar modo da magistrati e giudici.
Per quanto riguarda il discorso inerente la scuola di Roma, esso si presenta assai più semplice e molto
meno complesso di quello riservato alla possibilità dell'esistenza della scuola preirneriane a di Ravenna.
Nonostante Irnerio si recò a Roma per conto di Enrico IV, si trattenne nella città solo pochi mesi,1 tempo
assai insufficiente al fine di fondare una vera e propria scuola di diritto.
Dunque, esclusa la possibile esistenza di queste due scuole, la prima vera e propria scuola scientifica del
diritto romano venne fondata a Bologna.
La sua nascita venne anticipata della riemersione dei testi originali Giustinianei caduti nell'oblio, e avvenne
per merito dell'attività di recupero attuata dal giurista Irnerio,1 figura che assume svariate caratteristiche.
Dapprima la storiografia ci fornisce l'immagine di un Irnerio giurista, il quale poi, con la nascita di questa
scuola, diverrà filologo e al contempo maestro. 32
Ma chi può essere considerato il vero precursore di Irnerio? era forse Pepo? che legami intercorrono tra il
fondatore della scuola di Bologna e Pepo?
Le fonti che ci forniscono differenti indicazioni sulla figura di Pepo sono di difficile interpretazione.
Nel del 1076, venne denunciata la presenza di un certo Pepo legis doctor, appellativo
Placito di maturi,
utilizzato poi, in seguito, al fine di designare tutti i maestri che insegnavano all'interno delle scuole
universitarie.
Ma il Pepo ivi citato potrebbe non esser la stessa persona che viene considerato il precursore di Irnerio.
Con il nomignolo, infatti, Pepo venivano usualmente soprannominati tutti gli individui di nome Pietro; questa
era un'usanza assai diffusa in particolar modo nell'Italia occidentale.
Del Pepo precursore di Irnerio ci fornisce notizie interessanti Odofredo, affermando che, nonostante la sua
attività, non ebbe una grande notorietà a Bologna.
La meritata fama viene invece raggiunta da Pepo nella Francia del periodo successivo.
Infatti, Radulfus Niger, maestro francese di arti liberali, che da una testimonianza della sua grandezza, indica
Pepo come un grandissimo uomo di cultura, il cui nome venne addirittura paragonato all'aurora surgens.
Il nome Pepo appare anche all'interno di un risalente ad un arco temporale che va dal
placito lombardo,
1084 al 1090, anni questi in cui era accesissima la lotta tra impero e chiesa.
All'interno di quest'opera egli insorge contro una legge conforme al diritto Franco longobardo vigente in Italia
all'epoca, opponendosi al fatto che, la condanna per la morte di un servo, causi al colpevole unicamente una
combinazione pecuniaria.
Pepo, infatti, rivendicava la pena capitale per l'uccisione di un servo, portando in tal modo alla luce
l'eguaglianza tra gli uomini in maniera conforme al diritto naturale, secondo il quale l'uccisione di un uomo
andava punita con una condanna a morte emessa nei confronti del colpevole.
Ciò fa dunque pensare che Pepo, appellandosi alla legge del taglione, si propone come canonista legato al
regime dell' interpretata però dalla mente di un canonista, il quale si basa unicamente sui
utraque lex,
precetti canonici della Bibbia. In questo caso, dunque, il diritto canonico prevale su quello Giustinaneo
Questa vicenda evidenzia come Pepo, chiedendo la pena capitale per un simile delitto, non presenti i
caratteri tipici di un romanista.
Il Pepo in questione, secondo alcuni studi, rappresentava la figura del vescovo scismatico di Bologna,
stabilito nella medesima città dal 1080 al 1096, il cui vero nome di battesimo era Pietro.
Negli anni più accesi della lotta che si consumava tra la Chiesa e l'impero vi fu infatti uno scisma sulle
nomine degli uomini ecclesiastici, caratterizzato dalla richiesta, da parte degli uomini della Chiesa, che le
decisioni inerenti le cariche cadessero non più in capo all'imperatore, bensì dipendesse dalla Papa.
Una seconda interpretazione che cerca di dare un volto alla figura di Pepo precursore di Irnerio, è quella che
vaglia la possibilità che differenti operette di materia canonica,sorte in questo periodo, legate alla Francia e
all'Italia, presentino alcune caratteristiche riconducibili a questa misteriosa figura.
Questa operette, legate tra loro per via degli ambienti in cui nascono, hanno la caratteristica di essere
correlate tra loro, presentando la caratteristica del canovaccio (ripetizione sistematica di parti di testo in tutte
le opere), e si distinguono in:
1) libro di Tubinga
2) libro di Asburnham
3) libro di Gratz
4) Esposiciones Legum romanorum Petri.
Tra le quattro, l'operetta più importante, è quella denominata il cui
Esposiciones Legum romanorum Petri,
titolo, tradotto, risulta esposizioni delle leggi romane di Pietro (Pepo), e i cui contenuti si riscontrano anche
all'interno del libro di Tubinga.
Di questo documento, la parte più importante è il proemio, ove viene affermato che verranno cancellate tutte
le leggi non più vigenti, e tutte le norme che contrastano con il diritto naturale.
Ivi, dunque, è possibile riscontrare numerose affinità di pensiero con quello di Pepo contenuto nella Placito
Lombarda.
Pepo era dunque un canonista che si trovava a Bologna per insegnare all'interno degli ambienti ecclesiastici.
33
Nonostante queste differenti ipotesi, non esiste una risposta certa sulla configurazione di questo misterioso
personaggio il cui soprannome è Pepo.
Questi era sicuramente il precursore di Irnerio, e, le due ipotesi, lo designano o come il vescovo scismatico
di Bologna il cui nome era caduto nell'oblio, oppure come un ecclesiastico che insegnava nella medesima
città del vescovo in questione.
Nonostante un alone di mistero aleggi intorno personaggio di Pepo, si ha la certezza che questi non
contenga al palma di creatore della scuola scientifica di diritto romano, da sempre detenuta da Irnerio.
Irnerio è un nome di matrice germanica, proveniente dalla parola Wernerius, assai diffuso, all'epoca, anche
nell'Italia meridionale.
La sua appartenenza alla viene testimoniata da differenti scritti; questa sua provenienza
natio teutonica,
spiegherebbe lo stretto legame tra Irnerio e l'imperatore Enrico IV, il quale si circondò di Fideles germanici.
Questa stretta vicinanza con l'imperatore fu la causa di una scomunica.
Gli anni in questione, sono infatti i più duri che caratterizzano la lotta tra impero e Chiesa.
Nel 1119, l'imperatore Enrico IV insieme alla sua cerchia di fedeli, Irnerio compreso, ricevettero una
scomunica dal Papa, la quale però decadde in poco tempo grazie al concordato di Worms del 1122.
Questi sono anche gli anni in cui la scuola di Bologna inizia a vacillare a causa dell'allontanamento
obbligatorio del suo fondatore, il quale dovette trasferirsi al di fuori dell'Italia.
Dalle notizie che ci vengono fornite dalla storiografia, Irnerio dapprima appare come colui che riceve una
ovvero una richiesta, da parte di Matilde di Canossa, donna fedelissima al Papa, figlia di quella
petitio,
Beatrice del Placito di Marturi.
Ella, essendo estremamente devota all'ambiente ecclesiastico, si poneva in una posizione antitetica rispetto
all'imperatore.
Matilde, secondo gli avvenimenti storici, fedelissima al Papa, chiese ad Irnerio di il al
renovare librum Legum,
fine di compiere un'edizione rinnovata che riportasse i testi Giustinianei alla loro purezza originale,
intraprendendo la strada del filologo.
Da alcuni storici, questo avvicinamento di Matilde ad Irnerio, uomo appartenente alla ristretta cerchia di
dell'imperatore, aveva un significato ben preciso: evidenziava una sorta di riavvicinamento tra impero
fideles
e chiesa, ed ella, in questa nuova fase, avrebbe impersonato un vicario della chiesa stessa, alla quale era
assai devota e legata.
Gli storici cercarono dunque dunque di forzare la storia, al fine di attribuire a Matilde di Canossa degli
avvenimenti ad ella non adducibili; ciò lo si riscontra anche nella tesi che tende ad interpretare questa
richiesta quale incipit per la costruzione della scuola bolognese.
Tutti i documenti a noi oggi pervenuti che parlano della figura di Irnerio risalgono ad un arco temporale che si
colloca tra il 1112 e il 1125, anni questi in cui, il fondatore della scuola di Bologna, aveva già intrapreso il suo
operato. Non vi sono dunque testimonianze scritte inerenti gli anni della sua nascita.
Infatti, al quesito "quando nacque Irnerio?", non è attribuibile alcuna risposta attendibile.
Alcuni storici collocano la sua nascita intorno al 1055. Ma nessuna ipotesi viene attualmente accertata; si sa
unicamente che questi nacque nell'XI sec, e morì tra il 1125 e il 1130.
Il ritratto di Irnerio, fornitoci delle fonti storiche, lo dipinge nelle vesti di giudice e di da essa però
causidicis;
non ci perviene alcuna notizia sul suo magistero nella scuola di Bologna.
La documentazione certa riguarda unicamente quella che attesta la richiesta di Matilde verso Irnerio a
compiere una relazione critica di testi Giustinianei, compito questo assai difficile.
Il codice Giustinaneo attuale risale alla versione ricostruita dei giuristi bolognesi.
I glossatori cercarono, nel recupero di questi testi, di compiere una che potesse rispondere alle
Collectio
esigenze di purezza ed integrità richieste dalla stessa Matilde di Canossa.
Irnerio non utilizzò l'epitome Iuliani proprio per poter giungere ad una accertata purezza del testo.
Per quanto concerne l'ambito delle opere Giustinianei, risulti infatti necessario effettuare una distinzione tra
le e le
costituzioni novelle.
Per quanto concerne l'aspetto formale delle risulta necessario ricordare come, al suo interno, le
costituzioni
norme fossero presentate in forma sintetica; mentre quelle contenute all'interno delle risultavano
novelle
prolisse, non precise e fuorvianti. 34
DESCRIZIONE APPUNTO
Riassunto per l'esame di Storia del diritto italiano, basato su appunti personali e studio autonomo del testo consigliato dal docente Le grandi linee della storia giuridica medievale, Cortese. parte medievisticacon i seguenti argomenti analizzati: l'impero e la Chiesa dopo Costantino, lex dei, consultatio, i tre codici: teodosiano, ermogeniano e gregoriano , manumissio in Ecclesia, l'istituto del Gairethinx, processo longobardo, la Chiesa, Bisanzio e i Carolingi.
I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher trick-master di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di STORIA DEL DIRITTO ITALIANO e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Salento - Unisalento o del prof Vallone Giancarlo.
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