Riassunto esame Diritto Internazionale, prof. Vassalli, libro consigliato Diritto Internazionale, Leanza
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Al fine di evitare abusi la dottrina è concorde nell’affermare che le reazioni dei singoli Stati
debbano essere gestite in modo collettivo e sottoposte al controllo di organi internazionali, nella
specie, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Il requisito della violazione di una norma
cogente non costituisce il requisito unico degli illeciti ex art. 40 del Progetto della Responsabilità
degli Stati, essendo anche necessaria la gravità della violazione stessa, la quale è tale se denota da
parte dello Stato responsabile una violazione evidente o sistematica dell’esecuzione dell’obbligo.
Ai sensi dell’art. 41, in caso di violazione grave di norme di diritto cogente, è imposto agli Stati
l’obbligo di cooperazione per porre fine, attraverso mezzi leciti, alla violazione; e l’obbligo di non
riconoscere come lecita la situazione creata dalla violazione, né prestare aiuto o assistenza al
mantenimento della situazione. È fatta salva la possibilità di conseguenze supplementari.
CAPITOLO 7:
IL REGIME GIURIDICO DEGLI SPAZI COMUNI:
IL COSIDDETTO PATRIMONIO DELL’UMANITA’
Nel diritto internazionale classico i regimi giuridici diversi da quello della sovranità nazionale si
risolvevano alle ipotesi si terres nullius e di res communes omnium.
1. res nullius: terriotori non sottoposti alla sovranità territoriale di alcuno Stato nei quali ogni
Stato ha libertà di utilizzazione nonché di poterle sottoporre al proprio potere di governo
attraverso l’occupazione (requisiti: che la terra sia nullius, animus possidendi e effettività);
2. res communes omnium: non possono essere soggette alla sovranità di nessuno Stato non
appropriazione nazionale e libertà d’uso. Sono le acque dell’alto mare, mentre per lo spazio
cosmico e l’orbita geostazionaria il principio delle res communes omnium è caratterizzato
da elementi solidaristici tali da garantire la cooperazione interstatale e un equo accesso alle
loro risorse per tutti gli Stati.
L’opposizione dei Paesi in via di sviluppo e la centralità dell’individuo hanno portato alla nascita
del concetto del patrimonio comune dell’umanità. Tale espressione vuole enfatizzare l’importanza
per tutti e l’insostituibilità delle risorse alle quali si riferisce, sottolineando il divieto di
appropriazione ed esigendo uno sforzo congiunto per la conservazione e gestione razionale.
Il patrimonio comune testimonia la necessità e la volontà della Comunità universale di assumere un
atteggiamento di corretta gestione, protezione e conservazione nei confronti del proprio patrimonio,
visto come eredità delle generazioni passate e ricchezza di quelle future.
La maggior parte della dottrina individua gli elementi distintivi del patrimonio comune nel divieto
di appropriazione nazionale, nella riserva a scopi puramente pacifici, nel rispetto dell’equilibrio
ambientale, nell’elaborazione di un sistema tale da garantire alla Comunità il controllo sulle attività
e la distribuzione dei benefici, e nell’internazionalismo istituzionale.
Questi requisiti sono rilevabili solo con riferimento ai fondali marini profondi, ai sensi della
Convenzione NU sui diritti del mare del 1982; mentre con riferimento alla Luna e ai corpi celesti
manca l’internazionalismo istituzionale; rispetto all’Antartide manca l’equa ripartizione dei
benefici; con riferimento ai beni culturali e naturali manca l’elemento della non appropriazione,
visto che sono sottoposti alle giurisdizioni nazionali.
Quanto ai fondali marini, verso la fine del XX secolo, solo le potenze raggiunsero un progress
tecnologico e gli strumenti sofisticati necessari per lo sfruttamento degli abissi oceanici e delle loro
risorse. Ma la concezione del fondale come res communes omnium si presentava come
discriminatoria e ingiusta in quanto privilegiava solo pochi Stati già sviluppati. Viene quindi
emergendo una nuova concezione, quella del patrimonio comune dell’umanità.
I negoziati riguardanti la Convenzione del 1982 si conclusero con l’approvazione di un Accordo
integrativo di attuazione della parte XI e un allegato allo stesso.
L’accordo non contesta la qualificazione di patrimonio comune ma i metodi con cui si intendeva
realizzare il nuovo regime: 10
- sono stati eliminati gli oneri finanziari incombenti sugli Stati, consistenti in prestiti a lungo
termine senza interessi;
- viene mantenuta l’Impresa ma gli Stati non sono più obbligati a contribuire alle prime
operazioni minerarie dell’Impresa;
- viene eliminato il principio dell’obbligatorietà del trasferimento della tecnologia;
- viene stabilito il consensus per l’adozione delle decisioni dell’Assemblea; ove non sia
possibile raggiungere il consensus le decisioni su questioni di procedura sono prese a
maggioranza semplice, quelle su questioni di sostanza a maggioranza qualificata dei 2/3 dei
presenti e dei votanti.
LO SPAZIO COSMICO:
ci si chiede se i mezzi cosmici e le attività svolte da essi debbano essere sottoposti anche al
controllo degli Stati sorvolati o solo al controllo degli Stati che li hanno lanciati e ne utilizzano
l’attività. L’orientamento preferibile è quello della determinazione funzionale, secondo cui le
attività spaziali o cosmiche possono essere sottoposte unicamente alla sovranità degli Stati di lancio,
dato che non presentano alcun collegamento con il territorio dello Stato sorvolato.
L’utilizzazione dello spazio ai fini della navigazione cosmica è regolata dal principio secondo il
quale l’esercizio della libertà da parte di ciascuno Stato non deve ostacolare o limitare l’esercizio
della stessa libertà da parte di ogni altri Stato; mentre l’utilizzazione dello spazio ai fini dello
sfruttamento delle sue risorse è disciplinata dal principio first come first served.
Dichiarazione delle NU afferma alcuni principi: esplorazione e utilizzazione dello spazio cosmico
per il bene dell’intera umanità, libertà di esplorazione dei corpi celesti su basi di eguaglianza tra
Stati, inappropriabilità nazionale dello spazio cosmico e dei corpi celesti. Tali principi non
costituivano norme vincolanti. Numerosi principi divengono norme convenzionali con il trattato
sullo spazio (1967). Il regime è fondato sul principio della libertà di esplorazione e di sfruttamento
dello spazio cosmico. la qualificazione dello spazio cosmico come res communes omnium è stata
fortemente contrastata tra i paesi in via di sviluppo che tentavano di qualificare la luna e i corpi
celesti come patrimonio comune dell’umanità.
Il trattato sulla Luna (1979) non sembra precludere uno sfruttamento commerciale della Luna, ma
nello sfruttamento di tali risorse naturali, speciale considerazione dovrà essere riservata ai bisogni
dei Paesi in via di sviluppo e di quelli che hanno contribuito all’esplorazione della Luna.
Tuttavia le potenze spaziali non hanno ratificato l’accordo e continuano a considerare lo spazio
cosmico come una res communes omnium.
L’utilizzazione dell’orbita geostazionaria:
gli stati equatoriali hanno preteso l’esclusività del segmento dell’orbita situata sul proprio territorio,
in quanto parte integrante del territorio stesso: si tratta di un tentativo teso a modificare il regime del
first come first served a favore delgi Stati meno sviluppati. La prassi dimostra come tali pretese
siano state respinte. D’altronde tale orbita non può che essere parte dello spazio cosmico e pertanto
sottoposta a quei principi di diritto internazionale consuetudinario, codificati nel trattato sullo
spazio del 1967, che ne sanciscono libertà di esplorazione e d’uso.
Quanto ai satelliti e alle bande di frequenza radioelettriche un ruolo fondamentale è stato svolto
dall’UIT: ha riconosciuti a tutti gli Stati uguali diritti nell’utilizzazione delle risorse radioelettriche e
delle posizioni nell’orbita geostazionaria ed ha elaborato dei piani di distribuzione delle frequenza
radioelettriche e delle posizioni orbitali.
IL REGIME GIURIDICO DELL’ANTARTIDE:
gli Stati che si affacciano sul circolo polare antartico hanno rivendicato il settore corrispondente al
proprio territorio come sottoposto alla propria sovranità.
Non può ritenersi che il mantenimento di basi scientifiche sui territorio antartici rivendicati, sotto il
profilo dell’acquisizione materiale del territorio, sia assimilabile ad un insediamento stabile.
Rispetto all’utilizzazione delle risorse economiche dei vari settori non si è mai affermato uno jus
excludendi alios in favore degli Stati rivendicanti.
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Il trattato di Washington (1961) si limita a disciplinare il regime giuridico del territorio antartico: -
uso pacifico dell’Antartide; - libertà di ricerca scientifica; - cooperazione internazionale sul
Continente.
Con la Convenzione di Canberra (1980) sulla regolamentazione dello sfruttamento delle risorse
biologiche viventi, la conservazione delle risorse biologiche antartiche passa da una fase di mera
cooperazione tra Stati ad uno stadio istituzionale, finalizzato ad un uso razionale delle risorse stesse.
L’accordo prevede determinati standards che evitano il depauperamento della fauna ittica e
minimizzano i rischi di modifiche all’ecosistema marino.
Il movimento ambientalista ha proposto di dichiarare l’Antartide una riserva naturale, consacrata
alla pace e alla scienza.
Sulla base di un generale consenso sulla necessità di elaborare misure globali di protezione
dell’habitat naturale, viene adottato a Madrid il Protocollo ambientale al trattato antartico (1998).
Questo impegna le parti contraenti ad adottare le misure indispensabili per la protezione globale
dell’ambiente. Elemento cardine è quello che impone alle parti il divieto di effettuare ogni tipo di
attività che non sia di natura scientifica. Tuttavia manca un meccanismo di responsabilità civile o
internazionale per i danni causati all’ambiente.
CAPITOLO 8:
LA PROTEZIONE INTERNAZIONALE DEL PATRIMONIO MONDIALE CULTURALE E
NATURALE IN TEMPO DI GUERRA E DI PACE
L’interesse comune dell’intera Comunità nei confronti del patrimonio culturale si configura
soprattutto in termini di conservazione e protezione, nonché, con riferimento ai beni mobili, di lotta
al traffico illecito, e non in pretese di appropriazione da parte della Comunità internazionale.
L’internazionalizzazione del patrimonio culturale mondiale avviene attraverso metodi e strumenti
suoi propri che si richiamano alla necessaria cooperazione dello Stato territoriale ed al carattere
solidaristico e complementare della tutela internazionale. La volontà degli Stati di cooperare per
superare i pericoli che incombono su questi beni trova la sua naturale espressione nell’attività
dell’UNESCO e delle altre organizzazioni operanti in materia, come il Consiglio d’Europa.
LA TUTELA DEL PATRIMONIO CULTURALE IN TEMPO DI GUERRA
1. Dichiarazione di Bruxelles (1874) sulle norme e consuetudini di guerra: si estende il
principio della proprietà privata anche ai beni storico-culturali degli Stati.
2. Convenzione dell’Aja del 1899: relativa alle guerre terresti;
3. Convenzione dell’Aja del 1907: relativa alle guerre navali.
Tali Convenzioni sono espressione di un primo concreto interesse della Comunità
internazionale per la protezione dei beni culturali. La maggior parte delle disposizioni
considera quali beni oggetto di protezione quasi esclusivamente quelli mobili.
4. convenzione dell’Aja del 1954: è il primo strumento convenzionale a tutela dei beni
culturali in caso di conflitto armato. Nel preambolo della convenzione si afferma che i danni
causati ai beni culturali, a qualsiasi popolo essi appartengano, costituiscono un danno al
patrimonio culturale dell’intera umanità perché ogni popolo contribuisce alla cultura
mondiale. Con riferimento a questi beni sussiste un obbligo di protezione che si specifica in
comportamenti di salvaguardia e di rispetto. Accanto a tale regime generale di protezione la
Convenzione offre la possibilità di applicare un regime speciale di protezione ad un numero
limitato di beni immobili e rifugi destinati a custodire beni mobili. La protezione può essere
accordata a condizione che non siano usati a fini militari e che siano sufficientemente
distanti dai principali obiettivi militari. Devono essere iscritti nel Registro internazionale dei
beni culturali sotto protezione speciale.
5. i Protocolli aggiuntivi: uno del 1954, destinato ad impedire l’esportazione dei beni culturali
da un territorio di un Paese occupato o ad assicurare la restituzione dei beni culturali alle
autorità competenti di tale Paese; l’altro, del 1999, volto a rafforzare la cooperazione tra gli
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Stati contraenti al fine di garantire una protezione rafforzata. Il secondo protocollo presenta
innovazioni quanto alle condizioni necessarie per la protezione speciale accanto a quelle del
disposto della Convenzione del 1954, che prescrive che tali beni non devono essere usati a
fini militari: il nuovo articolato richiede che si tratti di beni di grande importanza per
l’umanità, già protetti da una normativa nazionale adeguata. Quanto alla deroga
all’immunità per i beni, il Protocollo non elimina la nozione di necessità militare ma la
riferisce solo al regime generale di protezione e le conferisce un contenuto più preciso in
modo da non farne uno strumento di comodo per le forza militari. Quanto ai beni che
godono della protezione speciale, il Protocollo identifica le ipotesi che possono giustificare
l’uso della forza rispetto a tali beni con i casi di utilizzo degli stessi tale da renderli obiettivi
militari.
LA PROTEZIONE DEL PATRIMONIO CULTURALE IN TEMPO DI PACE
Nel secondo dopoguerra il compito di provvedere alla salvaguardia del patrimonio culturale venne
affidata all’UNESCO.
La convenzione di Parigi del 1972 è adottata per realizzare la condivisione di responsabilità,
istituendo un sistema di protezione collettiva del patrimonio di eccezionale valore universale. In
questa Convenzione non viene assicurata la protezione materiale di tutti i beni culturali immobili,
ma solo di quei beni che presentino una determinata valenza, qualificata come universale. Nei
confronti di tali beni tutti gli Stati hanno obblighi positivi ai fini della protezione, alla tutela
dell’integrità fisica, del restauro in caso di deterioramento, nonché degli altri interventi d’urgenza. Il
Comitato del patrimonio mondiale cura la redazione di due liste: una lista del patrimonio mondiale
e una lista del patrimonio mondiale in pericolo.
Ai fini della convenzione sono considerati beni culturali i monumenti, i gruppi di edifici e i siti.
L’iscrizione può essere effettuata solo su domanda dello Stato nell’ambito del cui territorio il bene è
situato e non autoritativamente dal Comitato. Anche l’assistenza internazionale può avvenire solo
su richiesta dello Stato interessato.
Vi è stata l’inclusione nella convenzione di un capitolo dedicato al suivi, ossia al controllo del
permanere delle condizioni necessarie per l’iscrizione attraverso la regolamentazione di periodici
rapporti degli Stati territoriali al Comitato del patrimonio mondiale.
LA TUTELA DEL PATRIMONIO NATURALE MONDIALE
I testi convenzionali sono generalmente concepiti o direttamente in funzione di determinati spazi
(spesso in quanto habitat di alcune specie animali o vegetali), o direttamente in funzione della tutela
di certe specie selvatiche, intervenendo allora la protezione di alcune zone determinate come misura
necessariamente accessoria e quindi dipendente dalla finalità principale.
Ogni sito naturale per poter essere iscritto nella lista del patrimonio mondiale deve presentare il
requisito dell’integrità, che può essere definita come l’intrinseca capacità del sito stesso di
esprimere compiutamente e mantenere nel tempo i valori che lo caratterizzano. Tra le condizioni di
integrità figura la necessità di costituire le realtà più importanti dal punto di vista della diversità
biologica.
Convenzione sulle zone umide di Ramsar del 1971, sulle zone di importanza internazionale in
quanto habitat di uccelli acquatici, istituisce due liste: una elenca le zone umide di riconosciuta
importanza internazionale, l’altra individua tra queste le aree in cui si siano prodotti, si stiano
producendo o è probabile che si producano cambiamenti delle caratteristiche ecologiche.
Le zone inserite nella lista sono designate dallo Stato territoriale e gli Stati contraenti possono
cancellare zone già iscritte o restringerne i confini se necessario per la tutela di urgenti interessi
nazionali.
Nel 1992 è stata adottata una serie di emendamenti che hanno modificato tra l’altro i criteri per
l’iscrizione dei siti culturali e naturali nell’elenco del patrimonio mondiale, inserendo la definizione
di una nuova tipologia di sito, il paesaggio culturale: si tratta di siti che dimostrano in modo
esemplare l’interazione tra uomo e natura. In alcune di queste realtà l’azione dell’uomo è
determinante e domina le caratteristiche naturali per piegarle ai propri scopi (parchi e giardini), ma
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nelle altre tipologie l’opera dell’uomo non è così invasiva: tale è il caso - dei paesaggi culturali
essenzialmente evolutivi, risultato del soddisfacimento di esigenze sociali, economiche,
amministrative e/o religiose in simbiosi con le caratteristiche dell’ambiente culturale e – dei
paesaggi culturali che si caratterizzano per l’associazione dei fenomeni religiosi, artistici o culturali
all’elemento naturale.
CAPITOLO 9:
LA PROTEZIONE INTERNAZIONALE DELL’AMBIENTE UMANO:
LO SVILUPPO SOSTENIBILE
Non sembra rinvenibile né nel diritto internazionale convenzionale, né in quello consuetudinario,
per la protezione dell’ambiente, il principio del patrimonio comune dell’umanità.
Si può affermare l’esistenza nel diritto consuetudinario di una norma che impone agli Stati il divieto
di inquinamento transfrontaliero. Si è affermato il principio che vieta gli usi nocivi del territorio,
alla stregua del quale lo Stato non deve permettere che le attività realizzate sul territorio
pregiudichino l’ambiente di Stati vicini.
A partire dagli anni settanta, il divieto di inquinamento transfrontaliero è venuto progressivamente
estendendosi a tutti i casi in cui una sostanza inquinante fuoriesce dal territorio di uno Stato,
apportando pregiudizi all’ambiente di altri Stati anche non contigui.
A partire dalla Dichiarazione di Stoccolma sull’ambiente umano del 1972 l’obbligo di impedire
pregiudizi ambientali è stato esteso anche agli spazi non soggetti ad alcuna autorità nazionale.
Si è poi venuta precisando ed estendendo la portata degli obblighi che incombono sugli Stati: questi
sono responsabili per le attività dagli stessi posti in essere e per quelle comunque esercitate sotto il
loro controllo: l’illecito dello Stato, oltreche commissivo, può essere omissivo, concretandosi nella
mancata vigilanza su attività svolte da privati senza le dovute cautele.
Si ritiene dalla dottrina maggioritaria che dal divieto di inquinamento non discende un obbligo di
astensione di carattere generale, ma solo obblighi positivi, e precisamente: il dovere degli Stati di
adottare tutte le misure necessarie ai fini dell’eliminazione o dell’attenuazione di ogni rischio di
danno transfrontaliero: gli Stati sono liberi di intraprendere le attività che ritengono opportune ma
sono vincolati al dovere di non nuocere l’ambiente di altri Stati o zone non sottoposte a sovranità.
Il fattore per verificare la legittimità delle utilizzazioni del territorio deve essere quello della
diligenza usata dallo Stato per prevenire il rischio del danno ecologico (attraverso una condotta
preventiva e repressiva).
L’obbligo di prevenzione impone la pianificazione dei possibili rischi che potrebbero derivare dalle
attività poste in essere dallo Stato.
L’assenza di un pregiudizio non può giustificare l’imposizione di una sanzione; l’obbligo di
prevenzione è non un obbligo di risultato, ma di mezzo o condotta la prova dell’adozione dei
criteri di diligenza elimina ogni eventuale forma di responsabilità dello Stato.
Il principio precauzionale prevede che gli Stati non possono invocare l’assenza di certezza
scientifica come pretesto per rinviare misure effettive di prevenzione.
Nella Dichiarazione di Rio si afferma che il principio deve essere applicato tenendo conto delle
possibilità di ciascuno Stato. Il documento afferma anche che le misure necessarie a prevenire il
degrado devono essere efficienti – ossia in grado di evitare il degrado ecologico – in relazione al
loro costo.
È indice di diligenza dello Stato il fatto che questo sottoponga un progetto relativo all’attività che
intende realizzare, ad una procedura di valutazione dell’impatto ambientale, ossia ad un
meccanismo procedurale amministrativo in grado di individuare i possibili effetti e le ripercussioni
negative che potrebbero derivare all’ambiente dall’esecuzione dell’attività. La procedura VIA non
pregiudica la libertà di scelta dello Stato di origine circa la realizzazione del progetto.
Quanto agli obblighi procedurali, sembra non possa rilevarsi nel diritto internazionale generale la
prova dell’esistenza di obblighi di informazione e consultazione preventivi, mentre è da ritenersi
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una forma di adempimento dell’obbligo della diligenza il dovere di notifica d’urgenza nei casi di
installazioni pericolose già esistenti che possano sicuramente produrre o stiano producendo un
danno transfrontaliero.
Il principio “chi inquina paga”, prevedendo il pagamento di una penale commisurata all’entità del
danno provocato dall’inquinatore, costituisce uno sprone per consumatori e produttori a modificare
i propri comportamenti e ad utilizzare le risorse naturali in modo più eco-efficiente; e porta ad
investire verso la prevenzione all’origine del degrado.
Date le connessioni tra crisi ambientale e crisi economica gli atti elaborati a partire dagli anni
settanta non concentrano più esclusivamente l’attenzione sulle sole tematiche ambientali, ma
tengono conto dei fattori economici all’origine del degrado ecologico.
Vengono fissate una serie di direttive e di norme ispirate al concetto di sviluppo sostenibile, cioè al
principio secondo cui la crescita economica volta a soddisfare i bisogni delle generazioni presenti
non deve compromettere, attraverso uno sfruttamento indiscriminato delle risorse disponibili, il
soddisfacimento dei bisogni delle generazioni future.
Per essere sostenibile lo sviluppo deve fondarsi sull’accorto uso delle risorse e sul rispetto delle
compatibilità ambientali.
L’integrazione delle tematiche ambientali ed economiche trova la sua più compiuta e recente
espressione nei documenti elaborati dalla Conferenza di Rio del 1992. la dichiarazione di Rio su
ambiente e sviluppo afferma che l’eliminazione della povertà è priorità imprescindibile dello
sviluppo sostenibile; inoltre, affermando che impegni e responsabilità degli Stati devono essere
commisurati al differente contributo al degrado ecologico, pone a carico dei Paesi industrializzati la
responsabilità primaria del perseguimento dello sviluppo sostenibile. la dichiarazione inoltre
sollecita gli Stati a promuovere un sistema economico internazionale solidale e aperto, idoneo a
generare una crescita economica ed uno sviluppo sostenibile in tutti i Paesi.
Infine la Dichiarazione, pur riconoscendo che il diritto allo sviluppo deve essere realizzato in modo
tale da soddisfare le esigenze di crescita economica e sociale e di protezione ambientale delle
generazioni presenti e future, non precisa i soggetti titolari di tale diritto, lasciando aperta la
questione se il diritto allo sviluppo vada inteso come diritto fondamentale dell’uomo o come
situazione giuridica facente capo allo Stato.
CAPITOLO 10:
LA DISCIPLINA TRANSNAZIONALE DEL COMMERCIO INTERNAZIONALE.
DALL’ACCORDO GENERALE ALL’ORGANIZZAZIONE DEL COMMERCIO.
CRISI E PROSPETTIVE DI SOLUZIONE
Tra il XVII e il XIX secolo si manifestarono due tendenze contrapposte: il libero commercio e il
protezionismo.
All’indomani della seconda guerra mondiale gli USA, sostenitori del libero mercato, proposero la
creazione di tre istituzioni internazionali:
1. Fondo Monetario Internazionale (FMI): con il compito di garantire la stabilità monetaria e di
aiutare a finanziare i deficit nella bilancia dei pagamenti degli Stati membri;
2. Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BIRS), con lo scopo di mobilitare e
raccogliere capitali da fonti private sul mercato internazionale per prestarli agli Stati
maggiormente bisognosi di investimenti stranieri;
3. Accordo Generale sulle Tariffe ed il Commercio (GATT), con lo scopo di liberalizzare gli
scambi economici internazionali abolendo le barriere e le tariffe doganali, nonché di
agevolare l’espansione del commercio mondiale e di realizzare l’aumento del livello di vita
e dei redditi, la piena occupazione e l’utilizzazione ottimale delle risorse mondiali. Era un
accordo provvisorio, privo di efficacia vincolante per gli Stati ed esentava le parti contraenti
all’obbligo di rendere compatibili le loro legislazioni con le disposizioni in esso contenute.
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Quanto alla risoluzione delle controversie si prevedeva un procedimento di conciliazione,
con possibilità di veto della parte soccombente (principio del consensus).
Tali carenze del GATT hanno portato alla creazione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio
(OMC): l’accordo istitutivo intanto sopprime la clausola che esentava le parti contraenti
dall’obbligo di adattare le loro legislazioni; poi, per la risoluzione delle controversie, si adottò un
sistema giudiziario, in cui la parte soccombente, che ha a disposizione un secondo grado di giudizio,
non può sottrarsi alle conseguenze del procedimento.
Resta immutato il regime di circolazione delle merci.
In cima alla struttura dell’OMC vi è la Conferenza dei ministri. Gli organi permanenti sono: il
Consiglio generale, che opera sia come Consiglio per la soluzione delle controversie, sia come
Consiglio per il controllo della politica commerciale. Seguono tre organi sussidiari: Consiglio sulla
proprietà intellettuale, Consiglio sui prodotti e Consiglio sui servizi.
L’OMC non ha poteri normativi e si presenta come un foro negoziale, chiamato a favorire
l’incontro della volontà delle parti.
Il sistema commerciale coordinato dall’OMC è caratterizzato dall’assenza di discriminazioni: gli
Stati non possono discriminare tra partners commerciali che sono tutti egualmente favoriti dallo
status di nazione più favorita.
Inoltre vige il principio di competitività: l’OMC si pone come obiettivo quello di creare un sistema
di regole per un’equa concorrenza.
Fondamentale è poi la maggiore flessibilità verso i Paesi in via di sviluppo, la quale si traduce nel
riconoscere loro tempi più lunghi per adeguarsi ai vari accordi.
Quanto alla crisi attuale della globalizzazione abbiamo diversi ordini di cause:
- istituzionali: mancanza del potere normativo dell’OMC; competenze limitate del Consiglio
dei Ministri; pratica del consensus; assenza in capo all’OMC di un potere di attuazione delle
procedure di soluzione delle controversie.
Possibili soluzioni: rinuncia al consensus e introduzione del voto ponderato (tenendo conto
del PIl, sella popolazione e dell’estensione territoriale degli Stati); trasformare il Consiglio
generale in un organo assembleare permanente; potenziare il ruolo del Segretario e del
Direttore, anche attribuendogli il potere di iniziare le procedure di soluzione delle
controversie nei confronti di un membro che abbia violato una o più norme contenute negli
accordi; potenziare la collaborazione tra OMC e Organizzazioni Non Governative.
- Sostanziali: la liberalizzazione è avvenuta senza alcun riferimento alla tutela dei diritti
economici e sociali dell’individuo; scarsa attenzione è stata data alla protezione
dell’ambiente e agli effetti della liberalizzazione delle misure a tutela della proprietà
intellettuale sul diritto alla salute.
Possibili soluzioni: l’azione dell’OMC dovrebbe tenere presenti i nove principi espressi nel
Patto Mondiale del 1999 (tutela dei diritti umani, norme sul lavoro, tutela ambientale).
Inoltre, eguale rilievo dovrebbe essere riconosciuto tanto alla tutela dei diritti umani, tanto
alla tutela dell’ambiente in un’ottica di sostenibilità dello sviluppo.
In un contesto di rilancio dell’OMC e della liberalizzazione degli scambi internazionali un ruolo
primario potranno avere le organizzazioni economiche regionali. È necessario assicurare la
compatibilità tra gli accordi regionali e il sistema multilaterale; ciò può avvenire estendendo al
sistema multilaterale il raggiungimento di quei risultati che sono più rapidamente ottenibili in un
quadro regionale (regionalismo aperto).
Il rafforzamento del ruolo comunitario nel sistema OMC può seguire due vie: - comunitarizzazione
delle restanti competenze nazionali (servizi e proprietà intellettuale); - attrazione verso il mercato
interno delle politiche commerciali con una profonda revisione del processo decisionale.
Vantaggi della prima: tradizione, efficienza e fa sentire le ragioni dei partners internazionali. Ma ha
un deficit democratico che esclude i Parlamenti europeo e nazionali. Vantaggi della seconda:
processo decisionale più democratico ma si privilegerebbero le logiche interne.
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CAPITOLO XI:
JUS BELLUM E JUS IN BELLO: IL DIVIETO DELLA MINACCIA E DELL’USO DELLA
FORZA E LA COVERGENZA TRA DIRITTO BELLICO E DIRITTO UMANITARIO
Ius ad bellum: diritto di ricorrere alla forza armata, prima illimitato. Lo Statuto delle Nazioni Unite
(24 ottobre 1945) ha bandito dalle relazioni internazionali la minaccia e l’uso della forza: sono
vietate tutte le azioni militari.
L’articolo 2, paragrafo 4 vieta l’uso della forza nelle relazioni internazionali: l’attività del governo
volta a ristabilire l’ordine pubblico è legittima e deve potersi svolgere liberamente (ma non nei casi
di autodeterminazione).
Sono previste eccezioni al divieto:
1. legittima difesa: art. 51 Carta ONU. Condizione necessaria è l’aggressione armata già
sferrata. È possibile la legittima difesa nei casi di aggressione indiretta, mentre non è
aggressione la semplice fornitura di armi e l’assistenza logistica. La reazione deve essere
necessaria e proporzionale. Le azioni esperite nell’esercizio del diritto di autotutela devono
essere immediatamente portate a conoscenza del Consiglio. L’art. 51 attribuisce agli Stati
anche un diritto di legittima difesa collettiva.
2. misure di attuazione coercitiva adottate dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite: le
Nazioni Unite non dispongono di un proprio esercito pertanto il Consiglio di sicurezza è
finora intervenuto in crisi istituzionali o creando delle Forze di pace, incaricate di operare
per il mantenimento della pace, o autorizzando gli Stati ad intervenire. Del sistema di
sicurezza collettiva fanno parte anche le organizzazioni regionali: l’art. 53 dello Statuto
stabilisce che il Consiglio utilizza gli accordi e le organizzazioni internazionali per azioni
coercitive sotto la sua direzione. Tra le organizzazioni regionali di difesa ha assunto una
posizione primaria la NATO, istituita dal Trattato del NordAtlantico del 1949: ha la
funzione di predisporre mezzi per l’attuazione del diritto di legittima difesa. Nel vertice di
Washington sono stati elaborati i nuovi obiettivi della NATO: controllo degli armamenti,
disarmo, misure volte alla non proliferazione delle armi, condanna del terrorismo
preminenza alla tutela dei diritti umani.
3. disposizioni della Carta ONU contro gli ex nemici: sono ormai cadute in desuetudine le
disposizioni che prevedevano la possibilità per gli Stati membri di esperire azioni nei
confronti di quegli Stati che durante la seconda guerra mondiale hanno combattuto contro
gli originari firmatari della Carta ONU.
Ius in bello: trova applicazione nel momento in cui scoppia una guerra e per tutta la durata delle
ostilità. Nel diritto tradizionali si distingueva tra diritto bellico in senso stretto e diritto
internazionale umanitario. Del primo ricordiamo le Convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1907 che
concepiscono i conflitti armati come scontri tra eserciti e distinguono nettamente tra combattenti e
civili, cercando di sottrarre questi ultimi alla violenza bellica (clausola De Martens). Quanto al
diritto umanitario, ricordiamo le Convenzioni di Ginevra sul miglioramento delle condizioni dei
feriti e sul trattamento dei prigionieri.
La Convenzione del 1949 aggiorna le precedenti riguardo al dovere di salvaguardare i diritti
dell’uomo anche nel corso di conflitti armati.
L’articolo 3, comune alle quattro Convenzioni di Ginevra, ponendo obblighi, limiti e garanzie,
vuole assicurare anche nei conflitti a carattere non internazionale, un minimo di protezione agli
individui che non partecipano direttamente alle ostilità o che, pur avendovi partecipato, abbiano
deposto le armi o siano fuori combattimento.
Le quattro Convenzioni hanno creato un sistema repressivo basato sul principio dell’aut dedere aut
iudicare che impone l’obbligo per ciascuno Stato contraente (quale che sia il suo status in un dato
conflitto armato e quindi anche lo Stato neutrale) di perseguire, arrestare e processare qualsiasi
individuo accusato di aver commesso o di aver dato ordine di commettere infrazioni gravi. In
subordine, gli Stati hanno l’obbligo di consegnare queste persone perché vengano processate da un
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altro Stato contraente interessato. Si parla in queste ipotesi di amministrazione delegata della
giustizia.
Il I Protocollo aggiuntivo del 1977 si applica ai conflitti tra Stati e alle guerre di liberazione
nazionale, ma questo vale solo per gli Stati parte del Protocollo.
Il II Protocollo riguarda i conflitti armati interni e trova applicazione solo quando la guerra civile
abbia raggiunto un’intensità tale da poter essere equiparata ad uno scontro tra due eserciti
convenzionali.
Diritto dei conflitti armati:
gli atti di ostilità non possono essere compiuti nel territorio di Stati neutrali.
Sono definiti legittimi combattenti solo coloro che sono organi in senso stretto del belligerante o
che risultano inquadrati nell’organizzazione della parte belligerante a favore della quale prendono
parte alle ostilità.
La violenza non deve essere diretta contro i civili e la popolazione civile. Solo gli obiettivi militari e
non quelli civili possono divenire oggetto della violenza bellica. È posto il divieto di mezzi e metodi
capaci di causare mali superflui o sofferenze inutili. È altresì vietato il ricorso alla perfidia.
Limiti all’azione bellica sono: il principio di necessità militare (il belligerante non deve usare una
violenza maggiore di quella indispensabile per sconfiggere il nemico) e quello di proporzionalità (si
richiede che l’impiego di armi non sia, per ciò che riguarda gli effetti indiretti, sproporzionato
rispetto al vantaggio militare ricercato).
Diritti umani e diritto internazionale umanitario sono suscettibili di garantire la protezione
dell’individuo in una sorta di continuum temporale: i primi in tempo di pace; i secondi in tempo di
guerra.
Tra gli scopi della Prima Conferenza di pace dell’Aja del 1899, il disarmo si rivelò il più difficile da
raggiungere. Si giunse però in quell’occasione a dichiarare il divieto dell’utilizzo di alcuni specifici
tipi di armi. Ma i mezzi convenzionali volti a questo scopo non prevedevano adeguati meccanismi
di verifica del rispetto degli obblighi.
Sulla base dell’analisi del diritto consuetudinario, la Corte Internazionale di giustizia nel parere del
1996, si è limitata ad affermare che non esiste una opinio juris chiara e conclusiva nel senso di una
generale proibizione dell’uso delle armi nucleari.
La Corte ha chiarito che l’arma nucleare non può essere assimilata né alle armi avvelenate, né a
quelle asfissianti, quanto piuttosto appartiene al genus delle armi di distruzione massiva al pari delel
armi batteriologice e chimiche.
CAPITOLO 12:
I CRIMINI INTERNAZIONALI E LA RESPONSABILITA’ PENALE INTERNAZIONALE
DELL’INDIVIDUO
La responsabilità individuale si sviluppa a partire dalla fine della prima guerra mondiale e si
aggiunge, e non sostituisce, a quella collettiva. Il Trattato di Versailles del 1919 prevede un
processo contro il Kaiser Guglielmo II, che tuttavia non ebbe mai luogo a causa della mancata
consegna dell’imputato da parte del governo olandese.
Nel 1945 viene istituito un Tribunale militare internazionale con sede a Norimberga, per giudicare i
criminali nazisti; e nel 1946 viene istituito un Tribunale militare per l’Estremo oriente con sede a
Tokio. L’aspetto rivoluzionario di questi due tribunali risiede nella determinazione della
responsabilità penale individuale e nell’ampliamento della categoria dei crimina juris gentium, fino
ad allora limitata ai crimini di guerra, ed estesa ai crimini contro l’umanità e la pace.
Il diritto penale internazionale è orientato verso gli ordinamento statali, dovendo favorire il loro
corretto funzionamento nella repressione di determinate fattispecie penali, caratterizzate da elementi
di estraneità o in presenza di situazioni in cui la giustizia penale di un singolo Stato non potrebbe
raggiungere i suoi scopi senza la cooperazione di altri Stati: esso non limita la sovranità statale ma
costituisce un ausilio della stessa. 18
Invece, il diritto internazionale penale abbraccia le norme internazionali che definiscono determinati
comportamenti degli individui come crimini internazionali, in quanto costituiscono un pericolo per
l’ordine pubblico internazionale, e quelle norme che determinano specifici meccanismi di
prevenzione e di repressione. La responsabilità penale internazionale viene imputata alle persone
fisiche nella loro qualità di individui-organi, che hanno agito, grazie al rapporto di imputazione
organica, in nome e per conto dello Stato nella commissione di tali crimini. Pertanto tale diritto va
oltre la sovranità degli Stati, in quanto è stato trasferita al livello dell’ordinamento internazionale
l’incriminazione dei crimina juris gentium.
Il diritto penale internazionale e il diritto internazionale penale divergono con riferimento a molti
aspetti:
- oggetto: il diritto penale internazionale coordina le diverse sovranità statali in materia
penale, mentre il diritto internazionale penale qualifica come crimini internazionali
determinati comportamenti individuali;
- scopo: il diritto penale internazionale è volto alla tutela dell’ordine sociale degli ordinamenti
interni; mentre il diritto internazionale penale serve alla tutela della pacifica coesistenza tra
Stati nella Comunità internazionale ed alla tutela degli interessi superiori dell’umanità;
- fonti: il diretto penale internazionale deriva sia da norme interne che internazionali; mentre
il diritto internazionale penale è di origine esclusivamente internazionale.
Il primo elemento del diritto internazionale penale è costituito dall’incriminazione di determinati
comportamenti quali crimini penali internazionali, posti in essere da individui-organi. Sono crimini
internazionali individuali solo quelle fattispecie la cui incriminazione è contenuta in una norma
internazionale consuetudinaria, la quale provvede direttamente e autonomamente ad incriminare
determinate condotte, indipendentemente dal fatto che queste siano già penalmente rilevanti negli
ordinamenti statali. I crimini internazionali sono caratterizzati dal fatto di ledere interessi
fondamentali della Comunità internazionale e, in particolare, l’interesse alla pace e alla sicurezza
mondiale e quello alla tutela di rilevanti valori umanitari. Essi devono essere posti in essere da
individui-organi, o comunque, direttamente o indirettamente, nell’ambito di politiche o azioni
statali. Tali crimini possono essere sottoposti al giudizio di un organo giurisdizionale della
Comunità internazionale, la Corte penale internazionale. In particolare, costituiscono crimini
internazionali dell’individuo:
- il genocidio (art. 6 Statuto Corte penale internazionale – 1998): quei comportamenti posti in
essere nell’intento di distruggere in tutto o in parte un gruppo etnico, nazionale, religioso o
razziale;
- crimini contro l’umanità (art. 7): lo statuto elenca una serie di fattispecie, caratterizzate
dall’estensione e dalla sistematicità dell’attacco diretto verso una popolazione civile
(omicidio, sterminio, riduzione in schiavitù, deportazione, tortura, stupro, riduzione in
schiavitù per fini sessuale, prostituzione gravidanza e sterilizzazione forzata, persecuzioni,
apharteid ed atti inumani che provochino sofferenze gravi o serio pregiudizio fisico o
mentale;
- crimini di guerra (art. 8): possono essere commessi nel corso di conflitti armati
internazionali e interni ma devono iscriversi nel quadro di un piano o di un disegno politico
ed essere commessi su larga scala. Lo Statuto individua quattro categorie: 1. lettera a):
infrazioni gravi alle Convenzioni di Ginevra del 1949 (omicidio, tortura, trattamenti
inumani, volontaria inflizione di gravi sofferenze o lesioni all’integrità fisica o alla salute,
distruzione della proprietà non giustificata da necessità militare, deportazione o confino
illegittimi, presa di ostaggi); 2. lettera b): altre gravi violazioni del diritto dei conflitti armati
internazionali (attacco contro centri religioso, artistici, scientifici, scuole, monumenti storici,
ospedali; non sono menzionati i beni culturali; impiego di armi quali il veleno, le armi
avvelenate e le pallottole che si espandono; stupro riduzione forzata in schiavitù,
prostituzione, gravidanza e sterilizzazione forzata sono qualificati crimini di guerra solo
nella misura in cui vengano commessi nei confronti di nemici in un conflitto armato
19
DESCRIZIONE APPUNTO
Riassunto per l'esame di Diritto Internazionale, basato su appunti personali e studio autonomo del testo consigliato dal docente Diritto Internazionale, Leanza. Analisi dei seguenti argomenti: la comunità internazionale quale fenomeno dinamico, il positivismo (teoria normativa e teorie volontaristiche), la teoria del realismo, le cause della disgregazione dei poteri unitari e della formazione delle monarchie nazionali.
I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Exxodus di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Diritto internazionale e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Napoli Federico II - Unina o del prof Vassalli di Dachenhausen Talitha.
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