Diritto internazionale e dell'economia - nozioni generali
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Gli Stati tendono a far convergere i propri interessi dando vita a situazioni collettive e contraggono
obblighi multilaterali con una pluralità di soggetti attraverso la procedura della conferenza
internazionale.
Le organizzazioni internazionali sono associazioni volontarie di soggetti di diritto internazionale,
costituite mediante accordi; sono strumentali al perseguimento di fini comuni ai singoli Stati che
meglio si raggiungono tramite uno sforzo collettivo.
Nasce il concerto europeo per garantire il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali.
Vennero inoltre istituiti i bureaux per una gestione e un coordinamento tra gli ordinamenti. Si tratta
di strutture non autonome ma legate ad un’amministrazione statale. Ma ciò limita la sfera d’azione
dell’organizzazione. Tali organizzazioni diventano quindi autonome e distinte dalla struttura dello
Stato di sede.
Intorno alla metà del XX secolo le organizzazioni internazionali iniziano ad occuparsi non più
soltanto di problemi tipicamente internazionali, cioè rapporti interstatali, ma anche problemi di vita
interni degli Stati, di rapporti interindividuali per colmare il dislivello civile, economico, politico e
industriale. Il metodo adottato dalle organizzazioni internazionali nell’affrontare i problemi relativi
alle esigenze degli Stati era quello del coordinamento (proposizione da parte dell’organismo di un
obiettivo da raggiungere da parte degli Stati e di un modello di strumenti adeguati al
raggiungimento di quei risultati). Tale sistema si rivela inadeguato e vengono creandosi nuove
organizzazioni che svolgono una funzione di integrazione tra gli Stati.
Esse determinano direttamente gli strumenti per il conseguimento degli obiettivi e sostituiscono i
propri strumenti a quelli tradizionali degli Stati. Ancora oggi il carattere delle organizzazioni è
patrizio e la sua vita è condizionata dall’accordo istitutivo.
Il contenuto del diritto internazionale attuale è costituito da un insieme di limiti all’esercizio della
forza da parte degli Stati. Recentemente si sono affermati una serie di limiti all’esercizio della
potestà dello Stato che investono l’intera comunità statale. Tali norme mirano a tutelare valori
comuni a tutti gli Stati e cittadini, sottratti di conseguenza alla libera disponibilità dello Stato. In
questo modo si è andato erodendo il concetto del cosiddetto dominio riservato.
Attraverso la personalità giuridica le organizzazioni internazionali riescono a farsi portatrici di
interessi collettivi distinti dagli interessi individuali dei singoli Stati. La personalità può
determinarsi se un’organizzazione internazionale è soggetto di diritto internazionale alla luce del
principio di effettività.
Il riconoscimento all’organizzazione della personalità giuridica comporta che le stesse possono
entrare in rapporti rilevanti per il diritto internazionale con altri sogetti della Comunità: - possono
stipulare trattati internazionali; - possono intrattenere relazioni diplomatiche di carattere stabile e
permanente con altri soggetti; - hanno una responsabilità internazionale per il loro operato; -
possono porre in essere atti unilaterali rilevanti per il diritto internazionale.
Altro strumento attraverso cui l’organizzazione internazionale persegue interessi collettivi è
l’adozione di atti unilaterali vincolanti. Ma si tratta di eccezioni: decisioni del Consiglio di
sicurezza delle Nazioni Unite e atti vincolanti delle Comunità europee. Tali atti possono avere un
effetto reale o obbligatorio e possono avere carattere self executing oppure no.
Le decisioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite hanno carattere eccezionale e si
riconnettono all’esistenza di situazioni particolari in cui vengono messe in pericolo la pace e la
sicurezza internazionale; gli atti comunitari invece sono lo strumento di azione delle Comunità
europee, organizzazioni internazionali che non perseguono la cooperazione interstatale ma
l’integrazione economica e monetaria.
Gli atti direttamente produttivi di effetti giuridici sono i regolamenti (hanno portata generale,
vincolatività in ogni loro elemento, e diretta applicabilità). Destinatari di tali norme non sono solo
gli Stati ma direttamente anche gli individui.
Le direttive sono atti vincolanti diretti agli Stati membri: hanno efficacia solo verticale nei confronti
degli Stati e non orizzontale nei rapporti interindividuali. Esse possono avere efficacia diretta solo
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nei limiti in cui siano in grado di produrre effetti anche in assenza del completamento normativo
demandato agli Stati membri (che è atto dovuto).
Gli atti non vincolanti non sono irrilevanti giuridicamente: la raccomandazione, in alcuni casi ha un
contenuto che diviene vincolante perché viene mutuato da un diverso atto che ha natura vincolante.
Dichiarazioni, inviti, esortazioni, voti, appelli vengono raccolti nella categoria del soft law.
Appare preferibile la tesi che considera come soft law tutti quegli atti e quelle procedure che si
trovano al di fuori del sistema delle fonti indicato dall’art. 38 dello Statuto della Corte di giustizia
che, pur essendo privi di valore vincolante e non creando diritti e obblighi, possono produrre
determinati effetti giuridici. Il soft law svolge un ruolo nella formazione delle norme generali in
quanto manifestazione della opinio juris degli Stati.
CAPITOLO 4:
LA CONTRAPPOSIZIONE TRA STATI E POPOLI:
IL PRINCIPIO DI AUTODETERMINAZIONE
Nella rivoluzione americana e francese il principio di autodeterminazione intende sancire la
liberazione dei popoli da ogni oppressione sia esterna che interna, anche se poi, nella sua
applicazione pratica, nel corso dell’ottocento, esso si è esclusivamente manifestato nel principio
della nazionalità, svolgendo un ruolo rilevante nella formazione degli Stati europei.
Comunque questo principio aveva portata solo politica e nessun obbligo gravava sugli Stati
relativamente al riconoscimento del diritto di autodeterminazione delle collettività umane.
Assume portata giuridica solo nei trattati di pace conclusivi della prima guerra mondiale.
Con la seconda guerra mondiale si assiste ad un’accettazione più ampia del principio di
autodeterminazione e alla sua consacrazione nella Carta delle Nazioni Unite.
Tuttavia, dall’enunciazione, non pare trattarsi di un obbligo da ottemperare nell’immediato, ma solo
della previsione di un programma d’azione per l’ONU e per gli Stati.
Inoltre l’autodeterminazione viene concepita non come un fine in sé perseguito, ma come uno
strumento per assicurare il fine ultimo della pace internazionale..
L’autodeterminazione era intesa in senso negativo, come obbligo gravante su tutti gli Stati di non
interferire. Solo verso la fine degli anni 50 l’autodeterminazione cominciò ad essere intesa in senso
positivo, ossia come obbligo incombente su di un governo che occupa un territorio non suo di
lasciare che il popolo possa determinare il proprio destino.
I dati che emergono dalla prassi spingono a ritenere che il principio di autodeterminazione dei
popoli sia divenuto regola di diritto internazionale consuetudinario. Inoltre, talune ipotesi di
autodeterminazione, postulano il principio come un principio fondamentale dei diritto
internazionale o una norma di jus cogens. Le ipotesi sono quelle che trovano il loro fondamento
giuridico nella tutela di interessi fondamentali della Comunità internazionale, ossia di interessi
solitamente tutelati da norme cogenti di diritto internazionale.
Il principio si applica tradizionalmente ai popoli sottoposti ad un governo straniero
(autodeterminazione esterna) ossia ai popoli soggetti a dominazione coloniale, ad un regime razzista
e alle popolazioni di territori conquistati e occupati con la forza.
Sembrerebbe invece da escludersi la possibilità di autodeterminazione interna, in quanto gli Stati
non devono godere del consenso della maggioranza dei loro sudditi, dato che questo è presunto fino
a prova contraria (il principio dell’unità e integrità territoriale si pone come limite all’applicazione
dell’autodeterminazione).
Destinatari dell’obbligo di rispettare l’autodeterminazione sono gli Stati. Detentori reali delle
istanze di autodeterminazione sono i popoli, i quali sono i materiali beneficiari delle disposizioni;
tuttavia non possono essere titolari di alcun diritto per la mancanza del riconoscimento di
soggettività giuridica, nel diritto internazionale, a enti diversi dagli Stati.
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Il principio di autodeterminazione, comunque, è istitutivo di obblighi erga omnes, la cui violazione
comporta la lesione di un interesse proprio della Comunità internazionale. In caso quindi di
violazione ciascuno Stato è potenzialmente legittimato ad agire al fine di tutelare tale interesse.
Quanto alle modalità di esercizio assume rilievo:
- l’obbligo di consultare il popolo colonizzato sottoposto a dominazione straniera (attraverso
referendum, voto di assemblea rappresentativa, sondaggi);
- il fatto che l’autodeterminazione deve realizzarsi nel quadro delle frontiere coloniali
stabilite;
- il fatto che le risoluzioni dell’assemblea generale delle Nazioni Unite hanno definito lecita la
lotta condotta dal popolo oppresso, organizzato in un movimento di liberazione nazionale,
mediante l’uso della forza. L’uso della forza armata è però condizionato dalla necessità di
reagire all’esercizio di analoga forza da parte del governo oppressore.
Il diritto internazionale consente agli Stati estranei alla guerra di liberazione nazionale di intervenire
a favore del popolo che sia già organizzato e che rivendichi l’autodeterminazione.
Pacificamente ammesso è il sostegno di tipo economico, finanziario o politico.
Con il tempo la maggior parte degli Stati ha finito per accettare anche la legittimità dell’intervento
armato a favore dei popoli in lotta, limitatamente però all’ipotesi si assistenza armata indiretta.
Alcuna legittimazione non ha invece ottenuto l’intervento armato diretto.
Il governo non rispettoso dell’autodeterminazione viola un obbligo erga omnes, indipendentemente
dalle misure coercitive impiegate per reprimere le aspirazioni del popolo oppresso.
È come se il governo oppressore perdesse alcune delle garanzie predisposte dall’ordinamento
internazionale (non è intaccata la personalità dello Stato, ma il governo viene privato del diritto di
impiegare la forza contro il popolo) e detto governo non è più al riparo dalle ingerenze poste in
essere dalla Comunità internazionale o dai singoli Stati a favore dei beneficiari della norma in tema
di autodeterminazione.
CAPITOLO 5:
LA PROTEZIONE INTERNAZIONALE DEI DIRITTI UMANI E LA CENTRALITA’
DELL’INDIVIDUO COME BENEFICIARIO DI NORME INTERNAZIONALI
A partire dagli orrori della seconda guerra mondiale ha assunto una posizione sempre più rilevante,
fino a divenire centrale, l’individuo in sé considerato.
Resta comunque escluso che l’individuo sia soggetto attivo del diritto internazionale in quanto non
può agire direttamente a tutela dei suoi diritti in tale ordinamento come dimostra l’istituto della
protezione diplomatica (uno Stato agisce a proprio nome in favore della parte lesa .
)
L’individuo è però beneficiario diretto delle norme internazionali in materia di diritti umani.
Elemento sostanziale dei diritti dell’uomo è che si tratti di diritti inerenti, che sussitono per il solo
fatto che esiste un essere umano, senza che dipendano dalla loro concessione.
La titolarità dei diritti spetta agli individui, che non sono soggetti dell’ordinamento internazionale.
I destinatari degli obblighi sono gli Stati, al di fuori del principio di reciprocità.
Diritti dell’uomo sono: i diritti di ordine personale, i diritti civili, sociali, economici e culturali.
Sono poi tutelati i diritti delle minoranze etniche, religiose, culturali e nazionali.
L’universalità dei diritti dell’uomo è statuita nell’articolo 55 della Carta delle Nazioni Unite.
Mentre i diritti civili e politici tendenzialmente impongono un obbligo di non discriminazione da
parte dello Stato, i diritti economici, sociali e culturali necessitano di un’esplicita attività da parte
dello Stato che implica solitamente un conseguente finanziamento.
Per i diritti civili e politici i meccanismi di controllo sono più facilmente realizzabili mentre per i
diritti economici, sociali e culturali non si può andare oltre la previsione di un sistema di rapporti
periodici che permettano di valutare la loro progressiva realizzazione.
I limiti del sistema di tutela dei diritti dell’uomo consistono nella scarsa incisività ed effettività
degli strumenti di controllo previsti a garanzia del rispetto dei diritti umani da essi sanciti.
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I poteri che possono essere attribuiti agli organi internazionali possono essere limitati alla soluzione
amichevole della controversia e si esplicano nell’emanazione di rapporti, pareri e raccomandazioni,
tutti sforniti di efficacia obbligatoria.
Esistono poi poteri (sentenze e ordinanze) forniti di efficacia obbligatoria tra le parti.
L’organo più indiviso è la Commissione delle Nazioni Unite per i diritti dell’uomo istituita dal
Consiglio economico e sociale (1946). Il fulcro del meccanismo di controllo è l’istituto
dell’inchiesta, limitata dal fatto che l’azione non è esperibile senza il consenso dello Stato
interessato.
Controlli ancora meno incisivi furono introdotti nel 1966:
1. patto sui diritti civili e politici;
2. patto sui diritti economici.
Per entrambi i patti gli Stati devono presentare un rapporto sulle misure adottate e sui progressi
compiuti. Il Comitato deve formulare osservazioni soltanto di carattere generale.
Le garanzie a tutela dei diritti dell’uomo hanno maggiore effettività nei sistemi regionali istituiti a
tutela di tali diritti e in primo luogo nel sistema europeo Convenzione europea dei diritti
dell’uomo (1950): garantisce una serie di diritti civili e politici e istituisce un sistema di controllo di
natura giudiziaria che si caratterizza per l’istituzione di una Corte unica permanente, alla quale i
singoli hanno accesso diretto.
Sono stati adottati 12 Protocolli, attraverso i quali l’individuo acquisisce un rilievo senza precedenti
(diritto d’azione processuale non è più sottoposto al limite dell’accettazione da parte degli Stati per
cui quest’ultimo può adire direttamente la Corte; è stato negato il potere di decisione al Consiglio
dei ministri). È stata poi introdotta la possibilità di un riesame del caso solo in ipotesi eccezionali,
con la presenza del giudice nazionale, di fronte alla sezione allargata della Corte (che non è organo
autonomo ma una delle formazioni giudicanti della Corte). Il riesame non ha come fine la garanzia
dell’interesse del ricorrente ad un doppio esame della controversia, ma l’interesse superiore alla
corretta interpretazione e applicazione del diritto. Inoltre assicura una maggiore rappresentatività
del collegio (composizione più ampia, presidenti delle varie sezioni e giudice nazionale).
CAPITOLO 6:
IL NUOVO PROCESSO DI FORMAZIONE DELLE NORME INTERNAZIONALI E LA
VERTICALIZZAZIONE DEL SISTEMA NORMATIVO
Nella moderna Comunità internazionale, a seguito dell’accessione all’indipendenza degli Stati nati
dal processo di decolonizzazione, sono emersi interessi, valutazioni sociali, morali e giuridiche
nuove difficoltà di creare nuove consuetudini.
Elementi indicatori della crisi della consuetudine sono:
1. sempre più frequente ricorso ad accordi internazionali, che disciplinano anche relazioni
interindividuali, oltrechè interstatali, salvo il limite del dominio riservato;
2. obiezione e obiezione permanente: l’obiezione, per essere rilevante, deve provenire da un
gruppo di Stati: in questo modo può giungere a bloccare la formazione e a modificare il
contenuto della norma oggetto di contestazione. Lo stesso effetto non può essere ottenuto
dall’obiezione di un solo Stato o di alcuni Stati isolati, anche se tale obiezione fosse
costantemente ripetuta nel tempo.
Gli strumenti utili per reagire a tale crisi sono:
1. le consuetudini istantanee: in alcuni casi la diuturnitas si riscontra dopo un arco temporale
limitato a partire dalle prime manifestazioni rilevanti della prassi;
2. la codificazione del diritto internazionale: utilizzata per far fronte al carattere di vaghezza di
contenuto del diritto consuetudinario. La codificazione si ottiene attraverso gli accordi
internazionali, che però necessitano del consenso degli Stati che lo negoziano e che non
possono vincolare tutti gli Stati ma solo quelli che lo hanno ratificato o vi hanno aderito.
Infatti nella codificazione viene fornita un’interpretazione da parte degli organi, vengono
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specificate le norme, vengono poste in essere mediazioni. Quindi l’accordo di dolcificazione
non può mai essere un’esatta riproduzione del diritto consuetudinario. Solo ove sia possibile
dimostrare l’esatta coincidenza tra accordo e diritto consuetudinario all’accordo potrà essere
riconosciuta portata generale. Tuttavia l’accordo, essendo scritto, non può seguire il
continuo divenire del diritto internazionale generale che vie e si modifica attraverso la prassi
quotidiana degli Stati;
3. ricorso ai principi generali del diritto riconosciuti dalle Nazioni civili. Principi generali
sono: - elementi caratterizzanti un ordinamento, solitamente in un rapporto di astrazione con
specifiche norme concrete; e – elementi comuni ad una pluralità di ordinamenti. Nel primo
senso i principi si confondo con le consuetudini o tendono a sfumare nel diritto cogente; nel
secondo senso, secondo lo Statuto della Corte, sono principi generali riconosciuti dalle
Nazioni civili quelli accettati in foro domestico da tutti gli Stati. I principi hanno un ruolo
supplettivo: vi si fa riferimento solo nel caso in cui manchino norme consuetudinarie tipiche
o disposizioni convenzionali. Questi principi, poi, devono considerarsi come propri
dell’ordinamento internazionale fatti propri dall’ordinamento internazionale a partire da una
loro comune matrice interna. In sostanza si tratta di norme consuetudinarie che presentano
una peculiare configurazione degli elementi oggettivo (uniforme previsione e applicazione
dei principi nella maggior parte degli ordinamenti statali) e soggettivo (coscienza giuridica
della loro doverosità sul piano delle relazioni internazionali). Sono principi generali di
diritto riconosciuti dalle Nazioni civili:
- principi di giustizia, connaturati all’idea di diritto;
- principi derivanti dalla teoria generale (abuso di diritto e buona fede, certezza del diritto,
legittimo affidamento…);
- principi relativi al contenzioso tra Stati e alla responsabilità (rispetto del diritto di difesa);
- principi sul rispetto dei diritti dell’uomo;
- principi relativi al regime di atti giuridici.
Esistono norme imperative di diritto internazionale generale. A norma dell’art. 53 della
Convenzione di Vienna deve intendersi per norma imperativa del diritto generale “una norma
accettata e riconosciuta dalla Comunità internazionale degli Stati come norma alla quale non può
essere apportata alcuna deroga e che non può essere modificata che da una nuova norma di diritto
generale avente il medesimo carattere”. Questi principi sono fortemente voluti dalla Comunità
internazionale e ciò ha due conseguenze: - assumono rapidamente carattere normativo; e – sono
inderogabili (hanno cioè maggiore forza passiva).
Per le consuetudini ha rilievo la diuturnitas, per i principi cogenti è più importante l’opinio juris.
Principi cogenti coevi alla Comunità internazionale sono il principio di sovranità e quello di
effettività.
I principi più recenti, trasfusi nella Carta delle Nazioni Unite, riguardano: il mantenimento della
pace e della sicurezza (divieto dell’uso della forza); i rapporti economici e sociali (divieto di
comportamenti che pregiudichino l’economia di altri Stati e principio di collaborazione), settore dei
diritti umani e delle libertà fondamentali (rispetto della dignità umana), settore della
decolonizzazione (principio dell’autodeterminazione).
Vi sono poi principi formali che prevedono procedimenti di produzione giuridica (pacta sunt
servanda, consuetudo est servanda).
Ai sensi della Convenzione di Vienna del 1969 gli Stati che concludono accordi configgenti con
norme cogenti incorrono in una situazione di responsabilità internazionali nel momenti in cui danno
esecuzione a tali accordi. La Corte internazionale di giustizia ha ammesso la possibilità di reazione
all’illecito anche da parte degli Stati che non ne abbiano subito lesione diretta, precisando che ogni
Stato è titolare dell’interesse alla protezione degli obblighi erga omnes.
La prevalente dottrina fa coincidere norme di jus cogens e obblighi erga omnes a contenuto
negativo. Conseguentemente in caso di loro violazione, il diritto all’autotutela può essere esercitato
da qualsiasi Stato (titolarità universale del diritto a reagire).
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Al fine di evitare abusi la dottrina è concorde nell’affermare che le reazioni dei singoli Stati
debbano essere gestite in modo collettivo e sottoposte al controllo di organi internazionali, nella
specie, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Il requisito della violazione di una norma
cogente non costituisce il requisito unico degli illeciti ex art. 40 del Progetto della Responsabilità
degli Stati, essendo anche necessaria la gravità della violazione stessa, la quale è tale se denota da
parte dello Stato responsabile una violazione evidente o sistematica dell’esecuzione dell’obbligo.
Ai sensi dell’art. 41, in caso di violazione grave di norme di diritto cogente, è imposto agli Stati
l’obbligo di cooperazione per porre fine, attraverso mezzi leciti, alla violazione; e l’obbligo di non
riconoscere come lecita la situazione creata dalla violazione, né prestare aiuto o assistenza al
mantenimento della situazione. È fatta salva la possibilità di conseguenze supplementari.
CAPITOLO 7:
IL REGIME GIURIDICO DEGLI SPAZI COMUNI:
IL COSIDDETTO PATRIMONIO DELL’UMANITA’
Nel diritto internazionale classico i regimi giuridici diversi da quello della sovranità nazionale si
risolvevano alle ipotesi si terres nullius e di res communes omnium.
1. res nullius: terriotori non sottoposti alla sovranità territoriale di alcuno Stato nei quali ogni
Stato ha libertà di utilizzazione nonché di poterle sottoporre al proprio potere di governo
attraverso l’occupazione (requisiti: che la terra sia nullius, animus possidendi e effettività);
2. res communes omnium: non possono essere soggette alla sovranità di nessuno Stato non
appropriazione nazionale e libertà d’uso. Sono le acque dell’alto mare, mentre per lo spazio
cosmico e l’orbita geostazionaria il principio delle res communes omnium è caratterizzato
da elementi solidaristici tali da garantire la cooperazione interstatale e un equo accesso alle
loro risorse per tutti gli Stati.
L’opposizione dei Paesi in via di sviluppo e la centralità dell’individuo hanno portato alla nascita
del concetto del patrimonio comune dell’umanità. Tale espressione vuole enfatizzare l’importanza
per tutti e l’insostituibilità delle risorse alle quali si riferisce, sottolineando il divieto di
appropriazione ed esigendo uno sforzo congiunto per la conservazione e gestione razionale.
Il patrimonio comune testimonia la necessità e la volontà della Comunità universale di assumere un
atteggiamento di corretta gestione, protezione e conservazione nei confronti del proprio patrimonio,
visto come eredità delle generazioni passate e ricchezza di quelle future.
La maggior parte della dottrina individua gli elementi distintivi del patrimonio comune nel divieto
di appropriazione nazionale, nella riserva a scopi puramente pacifici, nel rispetto dell’equilibrio
ambientale, nell’elaborazione di un sistema tale da garantire alla Comunità il controllo sulle attività
e la distribuzione dei benefici, e nell’internazionalismo istituzionale.
Questi requisiti sono rilevabili solo con riferimento ai fondali marini profondi, ai sensi della
Convenzione NU sui diritti del mare del 1982; mentre con riferimento alla Luna e ai corpi celesti
manca l’internazionalismo istituzionale; rispetto all’Antartide manca l’equa ripartizione dei
benefici; con riferimento ai beni culturali e naturali manca l’elemento della non appropriazione,
visto che sono sottoposti alle giurisdizioni nazionali.
Quanto ai fondali marini, verso la fine del XX secolo, solo le potenze raggiunsero un progress
tecnologico e gli strumenti sofisticati necessari per lo sfruttamento degli abissi oceanici e delle loro
risorse. Ma la concezione del fondale come res communes omnium si presentava come
discriminatoria e ingiusta in quanto privilegiava solo pochi Stati già sviluppati. Viene quindi
emergendo una nuova concezione, quella del patrimonio comune dell’umanità.
I negoziati riguardanti la Convenzione del 1982 si conclusero con l’approvazione di un Accordo
integrativo di attuazione della parte XI e un allegato allo stesso.
L’accordo non contesta la qualificazione di patrimonio comune ma i metodi con cui si intendeva
realizzare il nuovo regime: 10
- sono stati eliminati gli oneri finanziari incombenti sugli Stati, consistenti in prestiti a lungo
termine senza interessi;
- viene mantenuta l’Impresa ma gli Stati non sono più obbligati a contribuire alle prime
operazioni minerarie dell’Impresa;
- viene eliminato il principio dell’obbligatorietà del trasferimento della tecnologia;
- viene stabilito il consensus per l’adozione delle decisioni dell’Assemblea; ove non sia
possibile raggiungere il consensus le decisioni su questioni di procedura sono prese a
maggioranza semplice, quelle su questioni di sostanza a maggioranza qualificata dei 2/3 dei
presenti e dei votanti.
LO SPAZIO COSMICO:
ci si chiede se i mezzi cosmici e le attività svolte da essi debbano essere sottoposti anche al
controllo degli Stati sorvolati o solo al controllo degli Stati che li hanno lanciati e ne utilizzano
l’attività. L’orientamento preferibile è quello della determinazione funzionale, secondo cui le
attività spaziali o cosmiche possono essere sottoposte unicamente alla sovranità degli Stati di lancio,
dato che non presentano alcun collegamento con il territorio dello Stato sorvolato.
L’utilizzazione dello spazio ai fini della navigazione cosmica è regolata dal principio secondo il
quale l’esercizio della libertà da parte di ciascuno Stato non deve ostacolare o limitare l’esercizio
della stessa libertà da parte di ogni altri Stato; mentre l’utilizzazione dello spazio ai fini dello
sfruttamento delle sue risorse è disciplinata dal principio first come first served.
Dichiarazione delle NU afferma alcuni principi: esplorazione e utilizzazione dello spazio cosmico
per il bene dell’intera umanità, libertà di esplorazione dei corpi celesti su basi di eguaglianza tra
Stati, inappropriabilità nazionale dello spazio cosmico e dei corpi celesti. Tali principi non
costituivano norme vincolanti. Numerosi principi divengono norme convenzionali con il trattato
sullo spazio (1967). Il regime è fondato sul principio della libertà di esplorazione e di sfruttamento
dello spazio cosmico. la qualificazione dello spazio cosmico come res communes omnium è stata
fortemente contrastata tra i paesi in via di sviluppo che tentavano di qualificare la luna e i corpi
celesti come patrimonio comune dell’umanità.
Il trattato sulla Luna (1979) non sembra precludere uno sfruttamento commerciale della Luna, ma
nello sfruttamento di tali risorse naturali, speciale considerazione dovrà essere riservata ai bisogni
dei Paesi in via di sviluppo e di quelli che hanno contribuito all’esplorazione della Luna.
Tuttavia le potenze spaziali non hanno ratificato l’accordo e continuano a considerare lo spazio
cosmico come una res communes omnium.
L’utilizzazione dell’orbita geostazionaria:
gli stati equatoriali hanno preteso l’esclusività del segmento dell’orbita situata sul proprio territorio,
in quanto parte integrante del territorio stesso: si tratta di un tentativo teso a modificare il regime del
first come first served a favore delgi Stati meno sviluppati. La prassi dimostra come tali pretese
siano state respinte. D’altronde tale orbita non può che essere parte dello spazio cosmico e pertanto
sottoposta a quei principi di diritto internazionale consuetudinario, codificati nel trattato sullo
spazio del 1967, che ne sanciscono libertà di esplorazione e d’uso.
Quanto ai satelliti e alle bande di frequenza radioelettriche un ruolo fondamentale è stato svolto
dall’UIT: ha riconosciuti a tutti gli Stati uguali diritti nell’utilizzazione delle risorse radioelettriche e
delle posizioni nell’orbita geostazionaria ed ha elaborato dei piani di distribuzione delle frequenza
radioelettriche e delle posizioni orbitali.
IL REGIME GIURIDICO DELL’ANTARTIDE:
gli Stati che si affacciano sul circolo polare antartico hanno rivendicato il settore corrispondente al
proprio territorio come sottoposto alla propria sovranità.
Non può ritenersi che il mantenimento di basi scientifiche sui territorio antartici rivendicati, sotto il
profilo dell’acquisizione materiale del territorio, sia assimilabile ad un insediamento stabile.
Rispetto all’utilizzazione delle risorse economiche dei vari settori non si è mai affermato uno jus
excludendi alios in favore degli Stati rivendicanti.
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Il trattato di Washington (1961) si limita a disciplinare il regime giuridico del territorio antartico: -
uso pacifico dell’Antartide; - libertà di ricerca scientifica; - cooperazione internazionale sul
Continente.
Con la Convenzione di Canberra (1980) sulla regolamentazione dello sfruttamento delle risorse
biologiche viventi, la conservazione delle risorse biologiche antartiche passa da una fase di mera
cooperazione tra Stati ad uno stadio istituzionale, finalizzato ad un uso razionale delle risorse stesse.
L’accordo prevede determinati standards che evitano il depauperamento della fauna ittica e
minimizzano i rischi di modifiche all’ecosistema marino.
Il movimento ambientalista ha proposto di dichiarare l’Antartide una riserva naturale, consacrata
alla pace e alla scienza.
Sulla base di un generale consenso sulla necessità di elaborare misure globali di protezione
dell’habitat naturale, viene adottato a Madrid il Protocollo ambientale al trattato antartico (1998).
Questo impegna le parti contraenti ad adottare le misure indispensabili per la protezione globale
dell’ambiente. Elemento cardine è quello che impone alle parti il divieto di effettuare ogni tipo di
attività che non sia di natura scientifica. Tuttavia manca un meccanismo di responsabilità civile o
internazionale per i danni causati all’ambiente.
CAPITOLO 8:
LA PROTEZIONE INTERNAZIONALE DEL PATRIMONIO MONDIALE CULTURALE E
NATURALE IN TEMPO DI GUERRA E DI PACE
L’interesse comune dell’intera Comunità nei confronti del patrimonio culturale si configura
soprattutto in termini di conservazione e protezione, nonché, con riferimento ai beni mobili, di lotta
al traffico illecito, e non in pretese di appropriazione da parte della Comunità internazionale.
L’internazionalizzazione del patrimonio culturale mondiale avviene attraverso metodi e strumenti
suoi propri che si richiamano alla necessaria cooperazione dello Stato territoriale ed al carattere
solidaristico e complementare della tutela internazionale. La volontà degli Stati di cooperare per
superare i pericoli che incombono su questi beni trova la sua naturale espressione nell’attività
dell’UNESCO e delle altre organizzazioni operanti in materia, come il Consiglio d’Europa.
LA TUTELA DEL PATRIMONIO CULTURALE IN TEMPO DI GUERRA
1. Dichiarazione di Bruxelles (1874) sulle norme e consuetudini di guerra: si estende il
principio della proprietà privata anche ai beni storico-culturali degli Stati.
2. Convenzione dell’Aja del 1899: relativa alle guerre terresti;
3. Convenzione dell’Aja del 1907: relativa alle guerre navali.
Tali Convenzioni sono espressione di un primo concreto interesse della Comunità
internazionale per la protezione dei beni culturali. La maggior parte delle disposizioni
considera quali beni oggetto di protezione quasi esclusivamente quelli mobili.
4. convenzione dell’Aja del 1954: è il primo strumento convenzionale a tutela dei beni
culturali in caso di conflitto armato. Nel preambolo della convenzione si afferma che i danni
causati ai beni culturali, a qualsiasi popolo essi appartengano, costituiscono un danno al
patrimonio culturale dell’intera umanità perché ogni popolo contribuisce alla cultura
mondiale. Con riferimento a questi beni sussiste un obbligo di protezione che si specifica in
comportamenti di salvaguardia e di rispetto. Accanto a tale regime generale di protezione la
Convenzione offre la possibilità di applicare un regime speciale di protezione ad un numero
limitato di beni immobili e rifugi destinati a custodire beni mobili. La protezione può essere
accordata a condizione che non siano usati a fini militari e che siano sufficientemente
distanti dai principali obiettivi militari. Devono essere iscritti nel Registro internazionale dei
beni culturali sotto protezione speciale.
5. i Protocolli aggiuntivi: uno del 1954, destinato ad impedire l’esportazione dei beni culturali
da un territorio di un Paese occupato o ad assicurare la restituzione dei beni culturali alle
autorità competenti di tale Paese; l’altro, del 1999, volto a rafforzare la cooperazione tra gli
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Stati contraenti al fine di garantire una protezione rafforzata. Il secondo protocollo presenta
innovazioni quanto alle condizioni necessarie per la protezione speciale accanto a quelle del
disposto della Convenzione del 1954, che prescrive che tali beni non devono essere usati a
fini militari: il nuovo articolato richiede che si tratti di beni di grande importanza per
l’umanità, già protetti da una normativa nazionale adeguata. Quanto alla deroga
all’immunità per i beni, il Protocollo non elimina la nozione di necessità militare ma la
riferisce solo al regime generale di protezione e le conferisce un contenuto più preciso in
modo da non farne uno strumento di comodo per le forza militari. Quanto ai beni che
godono della protezione speciale, il Protocollo identifica le ipotesi che possono giustificare
l’uso della forza rispetto a tali beni con i casi di utilizzo degli stessi tale da renderli obiettivi
militari.
LA PROTEZIONE DEL PATRIMONIO CULTURALE IN TEMPO DI PACE
Nel secondo dopoguerra il compito di provvedere alla salvaguardia del patrimonio culturale venne
affidata all’UNESCO.
La convenzione di Parigi del 1972 è adottata per realizzare la condivisione di responsabilità,
istituendo un sistema di protezione collettiva del patrimonio di eccezionale valore universale. In
questa Convenzione non viene assicurata la protezione materiale di tutti i beni culturali immobili,
ma solo di quei beni che presentino una determinata valenza, qualificata come universale. Nei
confronti di tali beni tutti gli Stati hanno obblighi positivi ai fini della protezione, alla tutela
dell’integrità fisica, del restauro in caso di deterioramento, nonché degli altri interventi d’urgenza. Il
Comitato del patrimonio mondiale cura la redazione di due liste: una lista del patrimonio mondiale
e una lista del patrimonio mondiale in pericolo.
Ai fini della convenzione sono considerati beni culturali i monumenti, i gruppi di edifici e i siti.
L’iscrizione può essere effettuata solo su domanda dello Stato nell’ambito del cui territorio il bene è
situato e non autoritativamente dal Comitato. Anche l’assistenza internazionale può avvenire solo
su richiesta dello Stato interessato.
Vi è stata l’inclusione nella convenzione di un capitolo dedicato al suivi, ossia al controllo del
permanere delle condizioni necessarie per l’iscrizione attraverso la regolamentazione di periodici
rapporti degli Stati territoriali al Comitato del patrimonio mondiale.
LA TUTELA DEL PATRIMONIO NATURALE MONDIALE
I testi convenzionali sono generalmente concepiti o direttamente in funzione di determinati spazi
(spesso in quanto habitat di alcune specie animali o vegetali), o direttamente in funzione della tutela
di certe specie selvatiche, intervenendo allora la protezione di alcune zone determinate come misura
necessariamente accessoria e quindi dipendente dalla finalità principale.
Ogni sito naturale per poter essere iscritto nella lista del patrimonio mondiale deve presentare il
requisito dell’integrità, che può essere definita come l’intrinseca capacità del sito stesso di
esprimere compiutamente e mantenere nel tempo i valori che lo caratterizzano. Tra le condizioni di
integrità figura la necessità di costituire le realtà più importanti dal punto di vista della diversità
biologica.
Convenzione sulle zone umide di Ramsar del 1971, sulle zone di importanza internazionale in
quanto habitat di uccelli acquatici, istituisce due liste: una elenca le zone umide di riconosciuta
importanza internazionale, l’altra individua tra queste le aree in cui si siano prodotti, si stiano
producendo o è probabile che si producano cambiamenti delle caratteristiche ecologiche.
Le zone inserite nella lista sono designate dallo Stato territoriale e gli Stati contraenti possono
cancellare zone già iscritte o restringerne i confini se necessario per la tutela di urgenti interessi
nazionali.
Nel 1992 è stata adottata una serie di emendamenti che hanno modificato tra l’altro i criteri per
l’iscrizione dei siti culturali e naturali nell’elenco del patrimonio mondiale, inserendo la definizione
di una nuova tipologia di sito, il paesaggio culturale: si tratta di siti che dimostrano in modo
esemplare l’interazione tra uomo e natura. In alcune di queste realtà l’azione dell’uomo è
determinante e domina le caratteristiche naturali per piegarle ai propri scopi (parchi e giardini), ma
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nelle altre tipologie l’opera dell’uomo non è così invasiva: tale è il caso - dei paesaggi culturali
essenzialmente evolutivi, risultato del soddisfacimento di esigenze sociali, economiche,
amministrative e/o religiose in simbiosi con le caratteristiche dell’ambiente culturale e – dei
paesaggi culturali che si caratterizzano per l’associazione dei fenomeni religiosi, artistici o culturali
all’elemento naturale.
CAPITOLO 9:
LA PROTEZIONE INTERNAZIONALE DELL’AMBIENTE UMANO:
LO SVILUPPO SOSTENIBILE
Non sembra rinvenibile né nel diritto internazionale convenzionale, né in quello consuetudinario,
per la protezione dell’ambiente, il principio del patrimonio comune dell’umanità.
Si può affermare l’esistenza nel diritto consuetudinario di una norma che impone agli Stati il divieto
di inquinamento transfrontaliero. Si è affermato il principio che vieta gli usi nocivi del territorio,
alla stregua del quale lo Stato non deve permettere che le attività realizzate sul territorio
pregiudichino l’ambiente di Stati vicini.
A partire dagli anni settanta, il divieto di inquinamento transfrontaliero è venuto progressivamente
estendendosi a tutti i casi in cui una sostanza inquinante fuoriesce dal territorio di uno Stato,
apportando pregiudizi all’ambiente di altri Stati anche non contigui.
A partire dalla Dichiarazione di Stoccolma sull’ambiente umano del 1972 l’obbligo di impedire
pregiudizi ambientali è stato esteso anche agli spazi non soggetti ad alcuna autorità nazionale.
Si è poi venuta precisando ed estendendo la portata degli obblighi che incombono sugli Stati: questi
sono responsabili per le attività dagli stessi posti in essere e per quelle comunque esercitate sotto il
loro controllo: l’illecito dello Stato, oltreche commissivo, può essere omissivo, concretandosi nella
mancata vigilanza su attività svolte da privati senza le dovute cautele.
Si ritiene dalla dottrina maggioritaria che dal divieto di inquinamento non discende un obbligo di
astensione di carattere generale, ma solo obblighi positivi, e precisamente: il dovere degli Stati di
adottare tutte le misure necessarie ai fini dell’eliminazione o dell’attenuazione di ogni rischio di
danno transfrontaliero: gli Stati sono liberi di intraprendere le attività che ritengono opportune ma
sono vincolati al dovere di non nuocere l’ambiente di altri Stati o zone non sottoposte a sovranità.
Il fattore per verificare la legittimità delle utilizzazioni del territorio deve essere quello della
diligenza usata dallo Stato per prevenire il rischio del danno ecologico (attraverso una condotta
preventiva e repressiva).
L’obbligo di prevenzione impone la pianificazione dei possibili rischi che potrebbero derivare dalle
attività poste in essere dallo Stato.
L’assenza di un pregiudizio non può giustificare l’imposizione di una sanzione; l’obbligo di
prevenzione è non un obbligo di risultato, ma di mezzo o condotta la prova dell’adozione dei
criteri di diligenza elimina ogni eventuale forma di responsabilità dello Stato.
Il principio precauzionale prevede che gli Stati non possono invocare l’assenza di certezza
scientifica come pretesto per rinviare misure effettive di prevenzione.
Nella Dichiarazione di Rio si afferma che il principio deve essere applicato tenendo conto delle
possibilità di ciascuno Stato. Il documento afferma anche che le misure necessarie a prevenire il
degrado devono essere efficienti – ossia in grado di evitare il degrado ecologico – in relazione al
loro costo.
È indice di diligenza dello Stato il fatto che questo sottoponga un progetto relativo all’attività che
intende realizzare, ad una procedura di valutazione dell’impatto ambientale, ossia ad un
meccanismo procedurale amministrativo in grado di individuare i possibili effetti e le ripercussioni
negative che potrebbero derivare all’ambiente dall’esecuzione dell’attività. La procedura VIA non
pregiudica la libertà di scelta dello Stato di origine circa la realizzazione del progetto.
Quanto agli obblighi procedurali, sembra non possa rilevarsi nel diritto internazionale generale la
prova dell’esistenza di obblighi di informazione e consultazione preventivi, mentre è da ritenersi
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I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher luca d. di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Diritto internazionale e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università La Sapienza - Uniroma1 o del prof Scienze giuridiche Prof.
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