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Diritto internazionale - Zonderwater Pag. 1
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Estratto del documento

La ragione per cui molti prigionieri italiani finirono a Zonderwater fu la subitanea disfatta

dell’Italia in Africa. Gli inglesi, che gestivano il campo, si trovarono ad avere un’enorme quantità di

detenuti da gestire e da tenere lontani dal conflitto: infatti, i prigionieri rendevano necessari molti

soldati per il loro controllo e potevano costituire una minaccia, qualora si fossero coalizzati. Venne

deciso di inviarli in Sudafrica, dove, grazie alla Convenzione di Ginevra del 1929, di cui il Regno

Unito era parte, poterono essere utilizzati come manodopera a basso costo . Gli articoli 8 e 9 della

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Convenzione erano rispettati, perché i prigionieri furono inviati in una cittadella che era lontana dai

campi di battaglia.

La situazione di Zonderwater, inizialmente non favorevole, migliorò notevolmente dopo le

rivolte interne dei prigionieri e la nomina di Prinsloo, grande amante dello sport, a comandante

generale del campo. Le lamentele dei reclusi erano infatti ascoltate, anche grazie agli interventi

delle Potenze protettrici. Ciò dimostra come l’articolo 42 fosse rispettato dagli ufficiali del campo .

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C. ANNESE, I diavoli di Zonderwater, Milano, 2010, p. 11.

1 C. ANNESE, op. cit., p. 9-12.

2 C. ANNESE, op. cit., p. 12-14.

3 C. ANNESE, op. cit., p. 72-82.

4 Diviso in blocchi, Zonderwater appariva come un luogo molto organizzato, abitato da «una

piccola popolazione del tutto autosufficiente, con un magazzino per la biancheria e le scarpe, e uno

spaccio di generi di prima necessità, dal sapone alla marmellata, dalle lamette da barba all’olio» .

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Veniva così rispettato l’articolo 12 della Convenzione di Ginevra del 1929. Ai detenuti era pure

concesso l’uso del tabacco: ogni settimana i prigionieri ricevevano trentacinque sigarette ciascuno .

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Nel campo avveniva anche la sepoltura dei morti, svolta da prigionieri su ordine del

responsabile dei servizi d’igiene, il maggiore Niemann. «I morti venivano deposti dentro bare di

legno che i POW costruivano staccando massicce assi di noce del Capo dalle panche dei refettori e

sigillandole tra loro con enormi chiodi di ferro» . Le tombe erano anche abbellite. Su richiesta del

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prigioniero addetto alla costruzione delle lapidi (Michele Di Giovanni), fu persino costruita una

cappella per le messe funebri e un altare all’aperto. Ciò dimostra come gli ufficiali di Zonderwater

si fossero attenuti all’articolo 76 della Convenzione .

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Per quanto riguarda l’alimentazione dei prigionieri di Zonderwater, le testimonianze fornite

dagli stessi ci fanno capire come i comandanti del campo fossero rispettosi della Convenzione di

Ginevra del 1929. Poiché inizialmente il cibo era scarso , i detenuti chiesero e ottennero dagli

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ufficiali il permesso di coltivare circa otto ettari di terra, creando degli orti, da cui traevano verdure

e frutta per il proprio consumo. È importante ricordare che, per queste occupazioni, i reclusi

venissero persino pagati. Ciò era consono alle indicazioni dell’articolo 11 . Per di più, il prigioniero

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Cleto Lorè raccontò che, durante i periodi di lavoro, gli veniva riconosciuta una razione di cibo

aumentata proporzionalmente in relazione all’attività che andava a svolgere . Addirittura, ad alcuni

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soggetti rinchiusi a Zonderwater, fu riconosciuta la possibilità di coltivare un appezzamento di

terreno, che si trovava al di fuori del reticolo del campo e che divenne una vera e propria fattoria .

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C. ANNESE, op. cit., p. 14-15.

5 C. ANNESE, op. cit., p. 19.

6 C. ANNESE, op. cit., p. 19.

7 C. ANNESE, op. cit., p. 19-21.

8 C. ANNESE, op. cit., p. 22: «Prima che, a partire dalla metà del 1943, una dietologa dell’esercito

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sudafricano aumentasse lievemente le quantità, il vitto quotidiano di un POW consisteva in due fette e mezzo

di pane, mezzo litro di latte, acqua e caffè, un pugno di granone intero o macinato (che agli italiani sarebbe

venuto a disgusto, per quanto gliene veniva propinato), poca carne o, in alternativa, una decina di grammi di

pesce in polvere, marmellata di pomodori, frutta fresca e frutta secca ma solo due giorni a settimana».

C. ANNESE, op. cit., p. 22-23.

10 C. ANNESE, op. cit., p. 22.

11 C. ANNESE, op. cit., p. 23.

12 Chi poi aveva particolari qualità artistiche o abilità sportive poteva godere di premi,

consistenti in aumenti di cibo. Alla Mostra Generale Arte e Artigianato, coloro che creavano opere

come valigie, quaderni, vasi o giocattoli, prodotti con materiali di recupero, contribuivano ad

accrescere le razioni del vitto dei propri compagni, grazie agli incassi, ricavati dalle vendite. I

giocatori di calcio, invece, ricevevano porzioni maggiori e qualche vestito in più rispetto agli altri

detenuti . Tutto ciò non solo dimostrava la tutela del vitto dei prigionieri, ma rappresentava anche il

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rispetto dell’articolo 17, che favoriva le attività intellettuali e sportive organizzate dai detenuti. In

effetti, lo sport, in particolare il calcio (ma anche il pugilato, il basket e la pallavolo), era oltremodo

sostenuto. Giovanni Vaglietti, regista del Torino, appena giunto in Sudafrica giocò nel campionato

che era stato organizzato nel campo, a condizione che svolgesse un’attività lavorativa. Tutti gli

sportivi di Zonderwater, infatti, non potevano rimanere disoccupati . A Vaglietti fu offerto

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l’impiego di medico nell’ospedale del campo, definito dal War Office inglese il miglior policlinico

della Seconda Guerra Mondiale. Se inizialmente era inadeguato, a partire dal 1942 fu trasformato e

dotato di sale operatorie adeguate, di tremila posti letto e di servizi igienici adatti. Era un ospedale

all’avanguardia, dotato dei reparti principali, con due divisioni deputate all’isolamento dei malati.

Ogni blocco era provvisto di due ambulatori, in cui ogni giorno i prigionieri erano visitati, a

dimostrazione di una totale attenzione agli articoli 14 e 15 della Convenzione del 1929. Non è un

caso che la mortalità a Zonderwater fosse bassissima: in sei anni morirono solo 331 unità (solo lo

0,35% dei prigionieri ivi rinchiusi). Nessuna epidemia e nessun grave contagio si svilupparono nel

campo, poiché l’igiene, nel rispetto dell’articolo 13 della Convenzione di Ginevra, era alta ovunque

e gli italiani erano giovani e di costituzione robusta e, inoltre, avevano uno stile di vita sano . «Tutti

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i prigionieri furono sottoposti a una profilassi meticolosa, anche molto tempo dopo la fine della

guerra, e quanti rientravano dai lavori esterni venivano puntualmente visitati, disinfestati (in due

aree che potevano restituire come nuove fino a 1.000 persone al giorno) e, se necessario, vaccinati

ogni volta» .

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I lavori cui vennero impiegati i prigionieri erano in linea con i dettami della Convenzione di

Ginevra del 1929 relativi agli impieghi proibiti (articoli 31 e 32). La Convenzione vietava, infatti, le

attività che avrebbero potuto arrecare vantaggio alle forze armate della Potenza detentrice. A

Zonderwater, la maggior parte dei detenuti erano stati adoperati, su base volontaria, per la

costruzione di strade e l’abbattimento di alberi per produrre legno pregiato e attrezzi necessari al

C. ANNESE, op. cit., p. 24-25.

13 C. ANNESE, op. cit., p. 25-31.

14 C. ANNESE, op. cit., p. 39-44.

15 C. ANNESE, op. cit., p. 42.

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Dettagli
Publisher
A.A. 2014-2015
5 pagine
SSD Scienze giuridiche IUS/13 Diritto internazionale

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Paolo Valli di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Diritto Internazionale dei Conflitti Armati e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Milano - Bicocca o del prof Giurisprudenza Prof..