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Sezione 2 della Convenzione di Ginevra del 1929, relativo alle disposizioni speciali concernenti
ufficiali e assimilati. I prigionieri della stessa nazionalità non avevano una collocazione attigua,
M. T. GIUSTI, op. cit., p. 38.
4 M. T. GIUSTI, op. cit., p. 39.
5 M. T. GIUSTI, op. cit., p. 37-44.
6 M. T. GIUSTI, op. cit., p. 62.
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benché l'articolo 9 del testo convenzionale indicasse il divieto di internare persone di razze e
nazionalità differenti. Date le condizioni di vita nei campi, vi era un alto tasso di suicidi .
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Fu nei campi di smistamento che la mortalità tra i prigionieri di guerra raggiunse livelli
estremi. A Tambov vi erano tuguri seminterrati, a cui si poteva accedere solo attraverso uno scivolo
molto ripido. In questi bunker non c'era alcuna apertura, che non fosse l'ingresso. Si dormiva per
terra, non c'erano servizi igienici, né cucine. L'acqua era assente, come la luce. I pidocchi
infestavano le vesti dei prigionieri, che sovente si ammalavano di tifo e dissenteria. Perciò, l'articolo
13 della Convenzione di Ginevra del 1929 non era minimamente rispettato. Nemmeno l'articolo 14
trovava il dovuto rispetto, data l'assenza di assistenza medica .
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Anche il cibo rappresentava un enorme problema, cosa che determinava l'inosservanza
dell'articolo 11 del testo convenzionale: «a Tambov, quando pure veniva distribuito, era scarsissimo,
consisteva di un pezzo di pane nero che doveva bastare per tutta la giornata, insieme al tè, al
mattino, della cascia (una specie di semolino) a pranzo, e di una zuppa - una brodaglia senza alcun
nutrimento - alla sera» . Questa situazione determinava scontri e ruberie tra i prigionieri . Le
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giornate trascorrevano nell'attesa di cibo, la quale non finiva mai. Un prigioniero racconta di aver
perso quaranta chili, a causa della denutrizione. Cosicché il pane divenne così prezioso che, con
esso, potevano essere acquistati tabacco e vestiti. In alcuni campi (Tambov, Chrinovaja, Tëmnikov e
Mičurinsk), si praticava il cannibalismo. Furono gli ebrei ungheresi a praticare per primi
l'antropofagia. A Tambov, «i rumeni detenuti nello stesso campo trafficavano carne umana tagliata
dai cadaveri, contro pane» . La situazione era talmente critica che gli ufficiali sovietici cercarono di
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ovviare alla pratica del cannibalismo, attraverso squadre di uomini che usavano mazze ferrate per
ridurre tale piaga. Tuttavia, tali misure furono vane, poiché i prigionieri continuarono a mangiare i
compagni deceduti. Nonostante poi il Governo russo avesse emanato norme per favorire un miglior
nutrimento ai malati e ai detenuti lavoratori, le condizioni rimasero critiche, tanto che i prigionieri
non ricevevano neppure le quantità minime previste. Nel gennaio del 1946, gli stessi ufficiali si
resero protagonisti di uno sciopero della fame. Le condizioni erano migliori per coloro che erano
impegnati a seguire i corsi antifascisti: ad essi, il decreto 0488 garantiva 700 grammi di pane al
giorno, ma la cattiva gestione e le continue ruberie riducevano significativamente tali razioni .
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M. T. GIUSTI, op. cit., p. 59-64.
8 M. T. GIUSTI, op. cit., p. 64-66.
9 M. T. GIUSTI, op. cit., p. 66.
10 M. T. GIUSTI, op. cit., p. 66-67.
11 M. T. GIUSTI, op. cit., p. 79.
12 Alle difficoltà già esposte si aggiungeva il fatto che i campi fossero mal controllati. Per
esempio, il campo di smistamento di Tambov era controllato da squadre di rumeni, i quali
instaurarono una vera e propria tirannia, mirante a proteggere i detenuti della propria nazionalità.
Non a caso, la mortalità tra i prigionieri rumeni fu solo del 21%, mentre tra gli italiani e i tedeschi
sfiorò il 75%. Ogni giorno morivano circa 500 uomini. Anche nel campo di smistamento di
Chrinovaja le condizioni non erano migliori rispetto a quelle di Tambov. I reclusi erano costretti a
dormire nelle scuderie dei cavalli, dove non potevano sdraiarsi. Il cibo era scarso e l'acqua veniva
attinta da un pozzo, dove erano stati gettati dei soldati morti .
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Nei campi i prigionieri erano divisi in base al grado. Gli ufficiali godevano di condizioni più
favorevoli rispetto ai soldati semplici. Nel lager di internamento di Oranki le condizioni erano
pessime: il lazzaretto non aveva lenzuola, né cuscini; a causa della mancanza di medicine e d'igiene,
i morti di tifo e di tubercolosi erano copiosi .
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Molti prigionieri di guerra furono utilizzati nell'economia statale. Alcuni furono inviati nel
campo di lavoro del Gušosdora per essere impiegati nella costruzione di una strada di collegamento
tra Novograd e Lvov. Generalmente, i lavori cui erano impiegati erano il taglio e il trasporto di
legna, la pulizia delle strade ghiacciate, la costruzione di edifici e centrali elettriche, la raccolta di
cotone, il lavoro in miniera e l'agricoltura. Sovente, i reclusi fornivano prestazioni anche per i civili.
Il problema fondamentale era legato alla denutrizione dei detenuti, che dovevano lavorare fino a
dodici ore al giorno, il che rappresentava una notevole violazione dell'articolo 30 della Convenzione
di Ginevra del 1929. Inoltre, non avevano abiti e strumenti adatti ai propri compiti, il che era contro
le indicazioni dell'articolo 12. Per di più, i luoghi di lavoro erano distanti dal campo, cosa che
obbligava i detenuti a lunghi trasferimenti, nonostante l'articolo 33 imponesse la vicinanza tra il
campo di lavoro e il campo d'internamento. Inoltre, i capisquadra, pur di ottenere i supplementi
connessi al raggiungimento della prestazione minima giornaliera, facevano lavorare anche i soldati
malati, esonerando solo coloro che erano gravemente feriti. Il lavoro era gratificato attraverso paghe
maggiorate, ma comunque misere. Tuttavia, il mancato raggiungimento del minimo giornaliero
determinava punizioni, come il pubblico rimprovero, l'assegnazione a lavori più duri, l'arresto o un
trattamento più duro, che erano nettamente in contrasto con gli articoli 2 e 3 della Convenzione .
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Per quanto riguarda l'assistenza sanitaria, occorre precisare che questa fu del tutto assente nel
periodo di prigionia fino al 1943. La mortalità raggiunse cifre spaventose (90%). Dopo tale periodo,
M. T. GIUSTI, op. cit., p. 77-84.
13 M. T. GIUSTI, op. cit., p. 67-70.
14 M. T. GIUSTI, op. cit., p. 71-74.
15 M. T. GIUSTI, op. cit., p. 84-90.
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furono organizzate delle vaccinazioni, ma la mancanza di medicinali determinava comunque il
proliferare di contagi epidemici. Tale situazione rappresentava una violazione degli articoli 14 e 15
della Convenzione di Ginevra del 1929. Nella seconda metà del 1943, furono adottate nuove misure
per ridurre la mortalità dei prigionieri di guerra, ma invano. Nuove soluzioni furono attuate nel
1944, con la creazione di campi di cura, che limitarono la moria, ma non la eliminarono del tutto.
Data la mancanza di medici, furono utilizzati anche gli ufficiali medici prigionieri. Tuttavia, gli
strumenti che si potevano utilizzare erano mezzi di fortuna. Gli elenchi dei malati e le cartelle
cliniche, comunque, erano redatti correttamente .
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Dal punto di vista della questione religiosa, è importante ricordare che Stalin aveva cercato di
trovare un compromesso con la Chiesa ortodossa russa, che riteneva un ottimo alleato e un grande
mezzo di aggregazione. Tuttavia, inizialmente non permise ai cappellani l'accesso ai campi di
prigionia. Perciò, la libertà religiosa, che doveva essere rispettata in base all'articolo 16 della
Convenzione di Ginevra del 1929, non trovò il rispetto dovuto. Più avanti, i cappellani cercarono di
dare conforto ai detenuti, anche se erano limitati nel loro ruolo dal fatto che i russi solevano
trasferirli continuamente da un lager all'altro. Un altro problema era il fatto che furono assegnati
solo ai campi di ufficiali. Nel campo di Oranki, i prigionieri chiesero che fosse celebrata la messa e
il commissario politico del lager diede il proprio consenso. D'altro canto, a Suslonger ciò non fu
permesso; allora, i detenuti furono costretti a celebrare messe segrete, che portavano i russi che le
scoprivano a reazioni violente, come il furto degli oggetti sacri. Verso la fine del 1943, i riti religiosi
furono permessi nei vari lager: a Suzdal', per esempio, fu celebrata la messa di Natale .
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Sebbene l'Unione Sovietica non avesse ratificato la Convenzione dell'Aia del 1907 sulle leggi
e gli usi della guerra terrestre, per quanto riguarda il diritto alla corrispondenza i prigionieri di
guerra italiani poterono godere della possibilità di scrivere alle proprie famiglie, anche se le
cartoline spesso non giungevano a destinazione oppure vi arrivavano con notevole ritardo. Per i
prigionieri tedeschi, le difficoltà erano maggiori: infatti, essi poterono scrivere alle famiglie solo a
partire dal luglio del 1945 e, per di più, la censura limitava molto destinatari e contenuti. Non a
caso, alle famiglie giungevano solo notizie dai toni rassicuranti, perché gli argomenti proibiti erano
cancellati dal censore. Quasi impossibile, poi, fu la corrispondenza per i detenuti cui fu ritardato il
rimpatrio. I ritardi e la negazione dei contatti dei prigionieri con l'esterno era dovuta, in larga parte,
al fatto che la Russia non avesse intenzione di far trapelare alcuna informazione sul numero di
reclusi nel suo territorio. A dimostrazione di questo atteggiamento, che si poveva in netto contrasto
M. T. GIUSTI, op. cit., p. 90-98.
17 M. T. GIUSTI, op. cit., p. 98-106.
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con l'articolo 36 della Convenzione di Ginevra del 1929, al campo di Suzdal' i prigionieri
ricevettero la posta solo una volta .
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Il rimpatrio dei prigionieri italiani detenuti in Russia avvenne a partire dal settembre del 1945.
Per quanto riguarda i soldati, non si trattò di un rimpatrio completo e diretto, ma le operazioni si
trascinarono, a scaglioni, fino al marzo del 1946. In totale, tra il 1945 e il 1946, poterono tornare a
casa 21065 prigionieri di guerra . Gli ufficiali, invece, nell'aprile del 1946 si trovavano ancora in
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terra sovietica. Erano circa 700 e alcuni di loro furono rimandati a casa a sorpresa, cioè senza
alcuna dichiarazione ufficiale. Non tutti però poterono tornare in patria e alcuni, soprattutto gli
ufficiali superiori, dovettero attendere mesi prima di ripartire. In ogni caso, il viaggio di ritorno fu
lungo e difficile: dal lager 160 di Suzdal', gli ufficiali furono portati al campo 186 di Odessa, poi
nell'entroterra e infine sul Mar Nero. Dietro al ritardo nel rimpatrio, secondo alcuni, si celavano
ragioni politiche: infatti, gli ufficiali iniziarono il viaggio per il rimpatrio il 6 giugno 1946, cioè
quattro giorni dopo le votazioni del 2 giugno per l'Assemblea costituente e il referendum; si cercò,
perciò, di evitare che il Pci fosse sfiduciato dai ra