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3) MATRIMONIO CELEBRATO DAVANTI AD UN MINISTRO DI UN CULTO
ACATTOLICO
Al fine di attenuare la disparità di trattamento tra cattolici e acattolici, la legge
24 Giugno 1929, n.1159, ammise che anche il matrimonio celebrato davanti ad
un ministro di un culto diverso da quello cattolico produca gli stessi effetti civili
del matrimonio celebrato davanti all’ufficiale dello stato civile (art.83 c.c.).
il matrimonio celebrato davanti ad un ministro di un culto acattolico
produce gli
stessi effetti del matrimonio civile
Ciò significa che tale tipologia di matrimonio è integralmente regolata dal
codice civile, anche per quanto riguarda i requisiti di validità. L’unica differenza
con il matrimonio civile, risiede nel fatto che la celebrazione avviene in modo
diverso, cioè (in seguito ad autorizzazione dell’ufficiale dello stato civile)
davanti ad un ministro di culto cui appartengono i nubendi.
Ovviamente, proprio perché è equiparato al matrimonio civile, la trascrizione
nei registri dello stato civile ha efficacia costitutiva, pertanto il matrimonio
celebrato davanti ad un ministro di un culto acattolico deve essere trascritto
perché produca effetti civili (mentre non viene ammessa una trascrizione
tardiva).
Mentre per gli appartenenti alle confessioni che non hanno stipulato intese con
lo Stato italiano (come ad esempio il musulmanesimo), permane il regime
matrimoniale così come articolato nel 1929 (equiparandolo dal punto di vista
degli effetti al matrimonio civile); gli appartenenti alle confessioni che hanno
stipulato intese con lo Stato italiano (come la Chiesa Evangelica Luterana, o la
Tavola Valdese) vige la disciplina sancita in tali leggi, che tendenzialmente
ricalcano il modello concordatario (riconoscendo efficacia civile al matrimonio
celebrato secondo le norme religiose, a condizione che l’atto sia trascritto nei
registri dello stato civile).
MATRIMONIO: IL REGIME DEL VINCOLO
Diritti e doveri personali dei coniugi
Il vecchio codice civile, quello del 1865, era improntato sulla supremazia del
marito (capo della famiglia titolare di una potestà maritale nei confronti della
moglie) nonostante già l’articolo 29 della Cost. sanciva che il matrimonio “è
ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”.
Nel 1975, grazie alla riforma, vengono sostituiti (integralmente) gli articoli
143-148 c.c. e viene affermato come primo e fondamentale principio
regolatore dei rapporti coniugali quello per cui “con il matrimonio il marito e la
moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri” (art.143,
comma 1 c.c.).
Vediamo ora i singoli obblighi (non di carattere economico) dei singoli
coniugi:
_ Secondo la cosiddetta “regola dell’accordo”, in armonia con il principio di
uguaglianza tra i coniugi, essi devono concordare tra loro (art.144 c.c.)
“l’indirizzo della vita familiare” e la residenza della famiglia, che va fissata su
accordo tra le parti e secondo le loro esigenze (non è più una decisione
arbitraria del marito).
Secondo il primo comma dell’articolo 145 c.c., inoltre, è previsto che se i
coniugi sono in disaccordo sulla fissazione della residenza o altri affari
essenziali, possono rivolgersi al giudice per trovare una soluzione concordata e
il secondo comma dello stesso articolo afferma che tale richiesta di arbitrato
giudiziario deve essere richiesta espressamente da entrambi i coniugi; da qui si
capisce perché tale norma è poco utilizzata, è praticamente impossibile che
entrambi i coniugi siano d’accordo nell’attribuire al giudice tale funzione
arbitrale.
_ Una sorta di eccezione alla rigida regola dell’uguaglianza tra i coniugi è
l’articolo 143-bis c.c. che prevede l’aggiunta del cognome del marito a quello
della moglie, così come i figli nati all’interno del matrimonio assumono, in base
ad una regola consuetudinaria di origini remote, il cognome paterno. Tale
eccezione viene però giustificata dall’art. 29 Cost. che accetta limiti al principio
della parità tra i coniugi se necessari per garantire l’unità familiare (e proprio la
Corte Cost. ha affermato che tale regola serve proprio a questo scopo).
_ Secondo l’art. 143, comma 2 c.c. dal matrimonio derivano l’obbligo reciproco
alla fedeltà, all’assistenza, alla collaborazione e alla coabitazione. Vediamo ogni
singolo obbligo:
- nonostante il diritto penale non prevede più reati di infedeltà (come
adulterio e concubinato) e l’adulterio non è neppure più causa autonoma
di separazione per colpa come stabiliva Codice Civile prima della riforma,
la fedeltà costituisce un vero e proprio obbligo giuridico, pure se sfornito
di apposita specifica sanzione e può essere valutato come il presupposto
per l’eventuale applicazione del nuovo capoverso dell’art. 151 c.c.
(l’imputazione ad un coniuge della responsabilità della separazione).
Come si viola secondo il legislatore l’obbligo di fedeltà? La violazione di
tale obbligo si percepisce non solo quando uno dei due coniugi intrattiene
rapporti sessuali con persone diverse dal coniuge, ma pure stabilite con
terzi rapporti che, per la loro intensità o per le modalità di svolgimento,
risultino incompatibili con la posizione prioritaria che dovrebbe essere
riservata al coniuge.
- L’assistenza, che dopo la riforma è divenuta morale e materiale, viene
generalmente intesa come corrispondente al mutuum adiutorium dei
canonisti(sostegno morale nei confronti dell’altro coniuge, che il diritto
canonico ritiene uno dei fini essenziali del matrimonio) e anche il
l’obbligo a fornire assistenza può essere causa di addebito della
separazione.
- La collaborazione nell’interesse della famiglia significa che, da un lato, il
governo del gruppo familiare deve essere il risultato di una consultazione
e di un dialogo continuo tra i coniugi e, dall’altro, che questi devono
essere pronti a sacrificare eventuali interessi meramente individuali per
dedicarsi alle esigenze obbiettive della famiglia.
Il concetto, del resto, è ribadito nel nuovo art. 144 c.c., nel quale si
afferma che i coniugi devono concordare l’indirizzo della vita familiare
avendo presenti le esigenze di entrambi e quelle preminenti della
famiglia stessa.
- Infine vi è l’obbligo reciproco della coabitazione (presupposto è che i
coniugi abbiano fissato di comune accordo la residenza della famiglia,
secondo l’art.144) e la sua interruzione non costituisce violazione dei
doveri coniugali solo se dipende da giusta causa e cioè tutte le volte in
cui la coabitazione sia diventata intollerabile o eccessivamente penosa e
quando è stata proposta la domanda di separazione o di annullamento o
di divorzio (art. 146, comma 2 c.c.). l’abbandono ingiustificato della
residenza familiare può invece dar luogo a sanzioni a carico del coniuge
allontanatosi (art. 146, comma 1 e 3 c.c.).
Tutti gli obblighi sopra elencati sono di carattere personale ed insuscettibili
di coercizione: tuttavia il giudice, nel pronunciare la separazione, può
dichiarare, ove gli sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la
separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri
che derivano dal matrimonio (art. 151, comma 2, c.c.), dichiarazione di
responsabilità che comporta conseguenze sfavorevoli per il coniuge che ne
sia colpito. Inoltre parte della dottrina e della giurisprudenza ritiene
l’inadempimento di tali doveri un presupposto per condannare il coniuge
responsabile della violazione al risarcimento nei confronti dell’altro.
Di recente il legislatore ha avvertito la necessità di intensificare la protezione
delle posizioni soggettive all’interno della famiglia (esigenza che è sintomo di
un non pieno raggiungimento del rispetto e dell’uguaglianza che dovrebbe
sussistere all’interno della famiglia), con l’introduzione di specifiche misure
preventive e sanzionatorie contro la violenza nelle relazioni familiari
(legge del 4 Aprile 2001, n.154) e sono previste sia sanzioni penali che di
carattere civilistico. Gli artt. 342bis e 342ter, racchiusi nel titolo
IXbis, regolano gli ordini di protezione che il giudice può adottare
quando la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di
grave pregiudizio alla integrità fisica o morale o alla libertà dell’altro
coniuge. Proprio secondo l’art. 342ter (contenuto degli
ordini di protezione) il giudice può prescrivere al destinatario
dell’ordine il divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati
dalla vittima della violenza, ovvero può disporre l’intervento dei
servizi sociali o altre istituzioni che possano fornire sostegno alla
vittima della violenza e imporre, a carico del responsabile, l’obbligo di
pagare un assegno periodico a favore dei familiari qualora questi,
per effetto del provvedimento di allontanamento, rimangono
senza mezzi adeguati.
Vi sono poi anche obblighi di contribuzione economica in capo ai
coniugi (art. 143, comma 2 c.c.): la riforma del 1975 ha infatti stabilito che
essi sono entrambi tenuti, in relazione alle proprie sostanze e alla propria
capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della
famiglia (prima della riforma vi era l’obbligo in capo al marito di proteggere e
assicurare il mantenimento della moglie, indipendentemente dalle sue
condizioni economiche).
La separazione personale dei coniugi
DIVORZIO ≠ SEPARAZIONE PERSONALE DEI CONIUGI = la separazione
personale dei coniugi giuridicamente non comporta la cessazione
degli effetti del matrimonio (quindi i coniugi non possono contrarre
nuove nozze), ma semplicemente cessa l’obbligo di convivenza e gli
altri obblighi (di assistenza, di collaborazione, di sostegno economico)
vengono ad essere diversamente regolati.
Tale strumento è utilizzato per ovviare l’intollerabilità della prosecuzione della
convivenza e solitamente è un rimedio transitorio che tende tradizionalmente
ad una auspicata riconciliazione, anche in via di mero fatto, con la ripresa della
convivenza (art. 157 c.c.), oppure allo scioglimento del matrimonio.
La separazione dei coniugi può esser di due tipi:
a) Separazione di fatto = interruzione della convivenza che, su base
volontaristica, si forma e si realizza senza che vi sia stata pronunciata
separazione giudiziale o accordo omologato al Tribunale. Tale separazione
non è voluta per cause indipendenti alla volontà dei coniugi (ad esempio
la degenza in ospedale di uno di essi), ma sulla base di un previo accordo
informale