Diritto del lavoro - pubblica amministrazione
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ESTRATTO DOCUMENTO
Contro la mancata approvazione delle graduatorie è ammesso ricorso al Giudice Amministrativo per lesione
dell’interesse legittimo all’assunzione a seguito del procedimento di selezione; ma si può esperire ricorso
anche al Giudice del Lavoro per far valere il diritto all’assunzione facendo disapplicare il provvedimento
amministrativo di mancata approvazione delle graduatorie (sempre che su tale provvedimento non si sia già
pronunciato il giudice amministrativo).
In ogni caso la violazione delle norme imperative sul reclutamento non può far trasformare un contratto di
lavoro a tempo determinato o di formazione in un contratto a tempo indeterminato. Il lavoratore avrà diritto al
risarcimento del danno e la P.A. si potrà rivalere nei confronti del dirigente quando questi ha operato con dolo
o colpa grave. La P.A. potrà rivalersi nei confronti del dirigente anche quando questi abbia assegnato
dipendenti a mansioni superiori fuori dai limiti previsti. Il dirigente inoltre dovrà rispondere per le differenze
retributive pagate in più che sono state erogate al dipendente che ha svolto mansioni superiori.
7. L’APPLICAZIONE DELL’ART. 2126 C.C.
con Art. 2126 c.c. Prestazione di fatto con violazione con violazione di legge
La nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la
nullità derivi dall’illiceità dell’oggetto o della causa.
Se il lavoratore è stato prestato violazioni di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, questi ha in ogni caso diritto alla retribuzione.
Nel caso in cui il lavoratore abbia lavorato sulla base si un contratto invalido, ha diritto alla tutela dell’art. 2126
del c.c. che esclude gli effetti della nullità e dell’annullamento per il periodo di lavoro e di conseguenza ha
diritto ugualmente alla retribuzione.
Nel capo I, titolo II del libro V del Codice Civile è disciplinato il rapporto di lavoro con la P.A.
Perché possa esserci tutela dell’art. 2126 c.c. è necessario che il rapporto sia assimilabile al classico rapporto
di lavoro subordinato con la P.A. .
L’art. 2126 c.c. regolamenta il rapporto dalla data di inizio della prestazione invalida sino alla sua fine
8. LA GIURISDIZIONE DEL GIUDICE DEL LAVORO
Le controversie per i rapporti di lavoro iniziati dopo il 01/07/1998 sono di competenza del Giudice del Lavoro, il
quale, può emettere anche sentenze di condanna proprio in quanto nei rapporti di lavoro la P.A. agisce uti
privatus (in proprio). Inoltre può disapplicare (sempre che non sia intervenuta una sentenza del Giudice
Amm.vo) i provvedimenti amm.vi quando dall’illegittimità di questi derivano ripercussioni negative sui rapporti
di lavoro.
Restano di competenza del Giudice Amm.vo le controversie in materia di procedure concorsuali per
l’assunzione dei dipendenti della P.A. e le controversie relative ai rapporti di lavoro non privatizzati.
Le procedure selettive riservate ai dipendenti rientrano nella giurisdizione del Giudice del Lavoro, che
assumono la natura di procedura di promozione.
Parte della dottrina non condivide quest’ultima attribuzione al Giudice del Lavoro delle controversie per le
procedure selettive, infatti sostiene che tali controversie debbano essere di competenza del Giudice Amm.vo
in quanto ad esso debbano competere non solo le controversie che si riferiscono all’assunzione del lavoratore
ma anche tutti quei casi in cui ci siano delle selezioni e valutazioni per promuovere un dipendente all’interno
dell’ente. CAPITOLO TREDICESIMO - LA TUTELA DEI DIRITTI
1. I DIRITTI DERIVANTI DA NORME INDEROGABILI
Le NORME IDEROGABILI generano:
- norme assolutamente indisponibili e sono ATTI NULLI (come per es. il diritto ai contributi INPS);
- norme relativamente indisponibili sono ANNULLABILI.
Sia per il lavoro dipendente che parasubordinato è prevista l’inderogabilità in peius (cioè non si potranno mai
applicare norme sfavorevoli al lavoratore).
Secondo l’art. 2113 c.c. le rinunce e le transazioni che hanno ad oggetto diritti derivanti da norme inderogabili,
comprese quelle dei CCNL non sono valide.
I diritti che ne sono oggetto devono avere il carattere patrimoniale ed essere già entrati nella sfera giuridica del
lavoratore (cioè devono essere retribuzioni o somme di denaro già maturate).
I diritti primari sono il diritto alle ferie, ai riposi, all’integrità fisica e morale, alla retribuzione finalizzata a
garantire un’esistenza libera e dignitosa.
Per far riferimento al carattere patrimoniale dobbiamo prendere in considerazione i diritti secondari (cioè che
derivano dalla lesione dei diritti primari di cui sopra). Tali diritti secondari sono di natura risarcitoria.
Non può considerarsi “rinuncia” quella che ha ad oggetto un diritto futuro come per esempio la rinuncia ad una
retribuzione futura, non ancora maturata. In questo caso la rinuncia è da considerarsi NULLA.
Al contrario viene considerata oggetto di rinuncia o di una transazione il diritto alle retribuzioni arretrate, che
sono già entrate nel patrimonio del lavoratore nel momento della scadenza (normalmente mensile), il diritto al
risarcimento del danno per mancato godimento delle ferie, ai riposi, ecc.
Quindi si può dire che l’art. 2113 c.c. si riferisce alle violazioni delle norme inderogabili e non ai diritti derivanti
da norme inderogabili. 1.1.
1.2. L’INVALIDITA’ DELLE RINUNCE E DELLE TRANSAZIONI
L’art. 2113 c.c. si limita ad affermare che l’invalidità delle rinunce e delle transazioni è assimilabile
all’annullamento o nullità relativa in quanto le rinunce o transazioni invalide devono essere impugnate nel
termine di 6 mesi, pena la decadenza. Termine incompatibile con il regime di imprescrittibilità della nullità
assoluta. (art. 1422 c.c.). Si è discusso se il titolo dell’invalidità deve considerare l’indisponibilità soggettiva o
oggettiva.
Per indisponibilità soggettiva s’intende l’incapacità del lavoratore di esercitare liberamente il potere negoziale
di “rinunciare” o “transigere” (visto lo stato di soggezione nei confronti del datore).
Se si considera che tale invalidità riguarda non solo le rinunce e le transazione relative al periodo di lavoro ma
anche quelle se si verificano dopo tale periodo (quindi quando non c’è più la soggezione di cui sopra) si
comprende che l’indisponibilità soggettiva non è alla base dell’invalidità.
La ragione dell’invalidità è l’indisponibilità oggettiva che è una diramazione dalla quale derivano diritti oggettivi
delle rinunce e transazioni. L’indisponibilità soggettiva è comunque importante se si considera che non
vengono considerate invalide le rinunce e le transazioni che avvengono in sede di conciliazione, che può
essere tentata da funzionari (anche ispettivi) della DPL. L’impugnativa può avvenire con qualsiasi atto scritto
ed assume il valore di revoca o annullamento della rinuncia e della transazione da parte del lavoratore, il quale
(entro i termini di prescrizione) può far valere i propri diritti e considerare l’atto di rinuncia o transazione come
se non fosse mai esistito.
1.2 I NEGOZI DISPOSITIVI E QUELLI DI ACCERTAMENTO
La RINUNCIA consiste nella REMISSIONE DEL DEBITO da parte del lavoratore a favore del datore ed è
efficace dal momento stesso in cui il lavoratore lo comunica al datore.
La TRANSAZIONE consiste nelle reciproche concessioni, tra cui vi può essere anche la rinuncia del
lavoratore per dirimere una lite presente o futura sia in sede giudiziaria che extragiudiziaria.
Per rinunciare occorre l’animus rinunciandi che si ha quando il lavoratore è consapevole dei diritti ai quali sta
rinunciando (tali diritti devono essere citati nell’atto). La quietanza liberatoria è una semplice ricevuta della
somma percepita a tacitazione ed a saldo di ogni diritto. In realtà è valida solo la dichiarazione di quanto
percepito perché le eventuali pretese future salvo onere della prova sono sempre valide.
L’art. 2113 c.c. si riferisce non soltanto alle rinunce ed alle transazioni ma anche ad ogni atto dispositivo del
lavoratore a favore del datore. Per es. l’aver eseguito mansioni inferiori rispetto a quelle effettivamente svolte
comporta la preclusione di far valere i diritti collegati con lo svolgimento delle mansioni superiori. Il termine
.
previsto per l’impugnazioni delle confessioni e di 6 mesi dall’estinzione del rapporto
2. LIMITI DI CEDIBILITA’, PIGNORABILITA’ SEQUESTRABILITA’ ED I PRIVILEGI
I negozi dispositivi nei confronti dei terzi consistono nella cessione del credito della retribuzione al quale si
collega l’istituto del pignoramento e del sequestro conservativo.
La cessione, e con essa il pignoramento e il sequestro conservativo, sono previsti soltanto per:
1) Per i crediti alimentari fino ad 1/3 del credito al netto delle ritenute;
2) Per tutti i debiti verso lo Stato e gli Enti, aziende ed imprese da cui dipende il dipendente debitore nei
limiti di 1/5 l netto delle ritenute;
3) Per i Tributi allo Stato, alle Province, ai Comuni nel limite di 1/5 al netto delle ritenute. Nel caso di
concorso di cause riportate al punto 2 e 3 la Finanziaria del 2005 ha stabilito che non si può superare
in totale 1/5 ed una quota superiore alla metà se concorre anche il punto 1.
E’ questa la ragione per la quale a garanzia dei crediti alimentari la misura del pignoramento e del sequestro
conservativo viene determinata dal Giudice, anche al di sopra del limite del 5% (art. 545 c.p.c.).
Sono garantiti dal privilegio su mobili i crediti retributivi, il TFR ed altre indennità collegate, il risarcimento danni
per omessi versamenti di contributi in subordine solo a quelli per ragioni di giustizia.
I privilegi rappresentano una deroga alla par condicio creditorum sia nelle procedure esecutive che in quelle
concorsuali. Non rientrano nei crediti concorsuali quelli nei confronti dell’amministrazione concorsuale che
assumono il valore di crediti prededucibili potendo essere fatti valere direttamente (senza concorrenza con gli
altri crediti) nel caso di insufficienza dell’attivo realizzato dall’amministrazione concorsuale.
3.
4. LA PRESCRIZIONE DEI CREDITI DI LAVORO
L’art. 2946 c.c. (I DIRITTI SI PRESCRIVONO DOPO 10 ANNI SALVO DIVERSAMENTE DISPOSTO DALLA
LEGGE) pur facendo riferimento all’effetto estintivo della prescrizione, in realtà produce l’effetto acquisitivo,
ossia per far valere la prescrizione al fine di opporsi all’esercizio del diritto dell’altra parte.
La prescrizione dei crediti retributivi, compreso il TFR, è di 5 anni. Per l’interruzione della prescrizione è
necessaria la messa in mora stragiudiziari, il deposito del ricorso presso la cancelleria del giudice adito e la
notificazione dell’atto al convenuto. Durante il rapporto di lavoro non si prescrive il diritto ai ratei retributivi,
prescrizione che contrasterebbe con la tutela costituzionale del diritto alla retribuzione. L’imprescrittibilità
temporanea è stata ristretta da successive sentenze della Corte in caso di mancanza di stabilità effettiva,
quale è considerata soltanto quella del pubblico impiego. Si preclude l’applicazione anche nel rapporto con i
dirigenti, ai quali non si estende la legislazione sulla stabilità del posto di lavoro. Per i diritti non retribuiti non è
intervenuta la Corte di Cassazione e quindi si applica la prescrizione normale cioè 10 anni.
La prescrizione presuntiva si riferisce alla sola obbligazione pecuniaria soddisfatta nel tempo in cui si è
verificata e conclusa, senza obbligo di conservare le ricevute. Si tratta di una presunzione mista (non
presunzione assoluta) in quanto è ammessa la prova contraria che consiste nella confessione del datore che
ammette di non aver pagato. Anche alla prescrizione presuntiva dei soli crediti retributivi si applicherà il regime
dell’imprescrittibilità temporanea che snatura la funzione della prescrizione presuntiva.
Il datore è tenuto a conservare le ricevute per tutta la durata del rapporto, alla scadenza del quale la
prescrizione comincia a decorrere, e poi per la durata della prescrizione che è quella di 1 anno per i ratei a
scadenza inferiore al mese e di 3 anni per i ratei a scadenza superiore.
5. GLI ISTITUTI DI RISOLUZIONE STRAGIUDIZIARIA
Gli strumenti di risoluzione stragiudiziaria delle controversie di lavoro sono la CONCILIAZIONE e
l’ARBITRATO.
La CONCILIAZIONE consiste in una transazione promossa dalle parti ed approvata dal conciliatore ed
accettata dalle parti; l’esito finale della conciliazione non è quindi vincolante per le parti, che potrebbero, se
non trovano un accordo, rifiutarsi di aderire alla proposta formulata dal conciliatore.
All’ARBITRO viene conferito il compito di emettere una decisione (detta LODO) con il quale sulla base del
contraddittorio tra le parti e della fase istruttoria, si stabilisce quale delle due parti ha ragione e quale ha torto.
L’ARBITRATO può essere RITUALE (secondo diritto) cioè vengono predeterminate (ai sensi dell’art. 816 del
c.p.c.) le norme procedurali alle quali gli arbitri si devono attenere per garantire adeguatamente ad entrambe
le parti il diritto di difesa. L’arbitrato rituale si conclude con il decreto del giudice che conferisce al LODO
ARBITRALE la stessa natura di una SENTENZA. L’ARBITRATO IRRITUALE dove l’arbitro agisce secondo
equità. Alla base dell’arbitrato vi può essere la CLAUSOLA COMPROMISSORIA con la quale vengono
devolute all’arbitro le controversie relative all’applicazione del contratto.
Il COMPROMESSO con il quale qualsiasi controversia potrebbe essere affidata ad arbitri che vengono
comunque nominati con il compromesso.
6. IL TENTATIVO OBBLIGATORIO ED I TIPI DI CONCILIAZIONE
In materia di lavoro il tentativo di conciliazione è quasi una prassi obbligatoria prima di procedere al ricorso al
Giudice. Decorsi inutilmente 60 giorni per il settore privato e 90 giorni per quello pubblico si riscontra il
fallimento del tentativo di conciliazione e quindi si può procedere al ricorso. Se non si è tentata la
conciliazione, in sede di ricorso, il Giudice potrebbe rimandare le parti al tentativo di conciliazione concedendo
i famosi 60 e 90 giorni. In caso di mancata conciliazione la parte ha 180 giorni per riassumere il giudizio.
La conciliazione può avvenire dinanzi alla Commissione Amministrativa istituita presso le DPL o presso i
Collegi previsti dai contratti o dinanzi ad un funzionario di un sindacato. Non viene considerata conciliazione
quella promossa proprio da un funzionario della DPL (detta conciliazione monocratica). Tale tentativo viene
promosso d’ufficio ed in caso di esito positivo proseguono gli accertamenti. Nel caso di conciliazione sindacale
è obbligatorio che le parti firmino il verbale nuovamente dinanzi al direttore della DPL che ne accerti
l’autenticità. Solo in questo caso la conciliazione è inoppugnabile.
7. L’ARBITRATO RITUALE ED IRRITUALE NELLE CONTROVERSIE DI LAVORO
L’Arbitrato Rituale può essere previsto solo dai CCNL o dalla legge, sempre che sia facoltativo.
L’Arbitrato Irrituale prescinde dal tentativo di conciliazione e non si conclude con l’esecutività del lodo
mediante decreto del giudice del lavoro.
Il nuovo art. 808 ter del c.p.c. si riferisce all’arbitrato irrituale che in materia di lavoro può essere soltanto
determinato dalla legge o dai CCNL. Trattasi di arbitrato irrituale il cui lodo non si trasforma in un
provvedimento giudiziario, come succede invece per l’arbitrato rituale, è, in astratto, amettere che una legge
ne stabilisca l’obbligatorietà senza incorrere nella violazione dell’art. 24 e 102 della Costituzione.
Il Lodo irrituale è annulabile dal giudice del lavoro:
1) Se il CCNL è invalido, e se gli arbitri hanno pronunciato su conclusioni eccessivamente fuori dai limiti
del contratto, sempre che, tali eccezioni, siano state evidenziate nel procedimento arbitrale.
2) Se gli arbitri non sono stati nominati con le forme e nei modi stabiliti dal CCNL;
3) Se il lodo è stato pronunciato da chi è legalmente incapace;
4) Se gli arbitri non si siano tenuti alle regole di condizioni di validità del lodo imposte dai CCNL;
5) Se non è stato osservato nel procedimento arbitrale il principio del contraddittorio.
Il lodo arbitrale irrituale può essere dichiarato nullo quando abbia violato una norma inderogabile di legge o di
CCNL.
L’arbitrato irrituale speciale deve essere previsto dai CCNL e solo dopo il tentativo di conciliazione.
L’arbitrato irrituale (come quello rituale) si conclude con il decreto del giudice del lavoro.
Le parti possono ritenere l’arbitrato invalido per i seguenti vizi:
- Vizi di volontà della parte che aderiscono all’arbitrato;
- Contrasto con norme imperative di legge e di CCNL.
Nei suddetti casi possono impugnarlo nel termine di 30 gg dalla notificazione del lodo, dinanzi al tribunale.
E’ possibile chiedere al giudice del Tribunale di avallare il lodo per renderlo esecutivo nei casi di seguito
previsti:
- Quando il giudice ne accerti la validità;
- Quando l’impugnativa non avviene nei 30 giorni;
- Quando le parti hanno dichiarato per iscritto di accettare il lodo.
8. I PRINCIPI DEL PROCESSO DEL LAVORO
Il processo del lavoro è ispirato a principi particolari che sono stati introdotti con la legge 533/1973, alla quale
si è richiamata di recente anche la riforma del processo civile.
L’atto introduttivo è il RICORSO che è la richiesta al giudice della fissazione dell’udienza che deve essere
notificata, insieme al ricorso, alla parte convenuta.
Il giudice di I° grado è il Tribunale, come giudice unico, presso sezioni specializzate;
in II° grado c’è la Corte d’Appello, presso sezione specializzata;
infine anche il ricorso in Cassazione avviene presso sezioni specializzate.
I principi informatori sono:
- Il PRINCIPIO DELL’IMMEDIATEZZA in base al quale le parti devono far vale ogni richiesta o eccezione e
devono indicare gli elementi di prova al momento del ricorso. Per chi inizia il ricorso, di solito il lavoratore, ciò
può avvenire in sede di costituzione del giudizio; per il datore invece deve avvenire 10 giorni prima
dell’udienza.
- Il PRINCIPIO DELLA CONCENTRAZIONE che avrebbe dovuto significare lo svolgimento del processo in
un’unica seduta, mentre è prassi effettuare dei rinvii.
- Il PRINCIPIO DELL’ORALITA’dovrebbe prevedere il solo colloquio del giudice con le parti ed i testimoni,
mentre è prassi accettare delle note autorizzate con molte distorsioni, anche relativamente all’audizione delle
parti e dei testi.
L’APPELLO è ispirato al principio del processo civile, che prevede l’esibizione di nuove prove e nuovi motivi,
e, se autorizzati, anche documenti già esistenti.
Il processo in cassazione risponde al giudizio di legittimità secondo le regole generali, anche se il ricorso viene
presentato in sezioni specializzate. Il diritto di sciopero.
1. il diritto di sciopero e l’art.40 della Costituzione.
Col termine sciopero dal punto di vista lessicale s’intende un’astensione organizzata dal lavoro di un gruppo di
lavoratori subordinati appartenenti sia al settore pubblico che al privato a sostegno di una rivendicazione per la
tutela di interessi comuni sia economici che sociali. Lo sciopero costituisce un fenomeno della realtà sociale
che si concretizza come strumento per tutelare i propri interessi dapprima con coalizioni occasionali e
successivamente con più stabili organizzazioni sindacali. Nel tempo questo strumento di rivendicazione
sociale ha sviluppato processi che hanno determinato l’evoluzione delle norme giuridiche che regolamentano il
rapporto di lavoro in ogni sua forma. Dal punto di vista descrittivo lo sciopero non si presenta sotto un profilo
unitario, ma dall’esperienza sindacale si manifesta con una pluralità di manifestazioni e di forme.
Dal punto di vista giuridico, invece, si assiste ad una pluralità di atteggiamenti del diritto positivo che riconosce
lo sciopero come diritto superando la concezione dello stato liberale che ammetteva lo sciopero come libertà
di fatto senza specifiche garanzie e la concezione dello stato autoritario, che considerava lo sciopero come
reato. Tale atteggiamento consente di distinguere lo sciopero “delitto”, lo sciopero “libertà”, lo sciopero “diritto”.
Lo sciopero “diritto” va considerato con riferimento ai rapporti tra lavoratori scioperanti e datori di lavoro, non è
necessariamente un rapporto di lavoro subordinato. Lo sciopero “libertà”, invece, va riferito ai rapporti tra
lavoratori scioperanti e Stato, nel senso che lo Stato non può vietare o punire l’astensione al lavoro.
Il ns. ordinamento è pervenuto al riconoscimento dello sciopero come “diritto”. L’art.40 della Costituzione
riconosce infatti nello sciopero uno dei diritti fondamentali che caratterizzano i rapporti economici-sociali il cui
diritto si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano. Il costituente così ha inteso riconoscere non solo la
libertà di sciopero nei confronti dello Stato, ma anche un diritto soggettivo di sciopero dei lavoratori con la
possibilità, per questi, di astenersi dal lavoro senza essere destinatari di sanzioni civili per la mera
sospensione delle obbligazioni contrattuali. In tal modo la Costituzione ha espressamente riconosciuto la
laicità dei conflitti di lavoro, alla base dei quali si colloca l’esigenza di affermare un interesse collettivo di un
gruppo organizzato di lavoratori. Non a caso l’art.39 Costit. garantisce la libertà di organizzazione e
l’autonomia sindacale.
Reato sino al 1889, lo sciopero non fu più perseguito con il codice penale Zanardelli, purché fosse organizzato
senza coercizione e pacificamente, esclusivamente come strumento di lotta sindacale.
Nella costituzione lo sciopero si rivela come un importante strumento per rimuovere qualsiasi ostacolo di
ordine economico e sociale che impediscono lo sviluppo della personalità umana.
Poiché l’art..40 della Costituzione,<il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano>,
entrato in vigore nel 1948 era privo di leggi speciali si consentì per qualche tempo la sopravvivenza della
disciplina penale del 1930. Più volte la Corte Costituzionale si è pronunciata sull’argomento invitando il
legislatore a disciplinare nel futuro la materia anche con una pluralità di interventi legislativi. Infatti, il
Costituente ha rimesso al legislatore ordinario il compito di determinare le concrete modalità attuative degli
scioperi, attraverso una <riserva di legge>.
Si è discusso se tale riserva sia “assoluta” o “relativa” (La Costituzione italiana prevede che determinate
materie possano essere disciplinate solo da una legge; altre volte “relativa” il legislatore dispone che alcune
materie non possono essere disciplinate con altre fonti che dispongano ulteriori profili regolativi). Si ritiene per
lo più che si tratti di una riserva di legge “relativa” tanto è vero che la norma rinvia per la disciplina dello
sciopero ad una pluralità di leggi che tengano conto dei diversi contesti all’interno dei quali può manifestarsi il
conflitto.
2. le interpretazioni dell’art.40 della Costituzione.
Sulla natura del diritto di sciopero si è svolto in dottrina un ampio dibattito e numerose sono state le soluzioni
proposte. Una prima opinione ha ravvisato nel diritto allo sciopero, art.40 Costit., un diritto potestativo,
sostenendo che la norma attribuisca ai lavoratori il potere di modificare col semplice esercizio del loro diritto
una situazione giuridica di cui è parte anche un altro soggetto. L’esercizio dello sciopero non potrebbe essere
impedito dal datore di lavoro ma anzi deve essere subito (soggezione). Questa opinione è apparsa però legata
ad una nozione restrittiva dello sciopero in funzioni di pretese economico-contrattuali rientranti nella
disponibilità diretta e materiale del datore di lavoro, con la conseguenza che la legittimità dell’astensione dal
lavoro dovrebbe essere negata ogni qual volta ci si trovi di fronte a rivendicazioni diverse da quelle che
impegnino il datore di lavoro escludendo dalla garanzia costituzionale tutta una serie di scioperi, come quelli di
solidarietà, quelli politici, che vengono qualificati come illeciti civili e penali. Inoltre, chi ritiene che lo sciopero
corrisponda all’esercizio di un mero diritto potestativo valorizza l’ipotesi di un negozio unilaterale autorizzativo
puro e semplice da assegnarsi ad organizzazioni sindacali sminuendo così il potere dei gruppi occasionali.
Questa dottrina è stata criticata sotto più aspetti in quanto si presenta inadeguata ogni qual volta lo sciopero
travalichi il suo carattere di diritto strumentale ad un interesse economico-contrattuale. Si è dubitato che la
proclamazione configuri una vera e propria autorizzazione dal momento in cui lo stesso lavoratore la richiede,
al contrario, invece, la valutazione dell’astensione è affidata alla collettività nel momento in cui riconosce i
diritti dei lavoratori, liberi di dare la propria adesione. Un’altra opinione ha sostenuto che lo sciopero è un diritto
di eguaglianza per tutelare le parti più deboli. Comunque resta difficile ristabilire l’equilibrio economico tra i
lavoratori attraverso l’esercizio dello sciopero in quanto è lo stesso ordinamento giuridico che ammette
trattamenti economici differenziati (art.36 Costit.) consentendo lo sciopero a tutte le categorie di lavoratori.
Secondo l’art.40 Costit. la libertà di sciopero è garantita a tutti i lavoratori, nei limiti derivanti dalla necessità di
tutelare altri interessi come per es.: la pubblica sicurezza.
3. Anche se l’art.40 concede la libertà di sciopero a tutti, per rivendicazioni non esclusivamente di
carattere economico-professionale, questo dev’essere letto come strumento di sviluppo della
personalità umana dei lavoratori da esercitare attraverso le associazioni di categoria (sindacati). Con
tale ricostruzione si vuole superare la concezione restrittiva dello sciopero come diritto potestativo ed
aprire la strada ad una definizione più vasta delle forme di autotutela. Lo sciopero a differenza di taluni
diritti assoluti, come per es.:proprietà che è inerente al patrimonio della persona, è esercitabile solo da
chi si trovi alle dipendenze di un datore di lavoro. Il diritto allo sciopero non è detto che venga
rivendicato esclusivamente dalla persona interessata (lavoratore) ma molte volte viene rivendicato da
persone che non hanno un interesse diretto attraverso associazioni di categoria, sindacati. Rientrano
nelle competenze di questi ultimi problemi di svariata natura, che non sono solo economici-
professionali, come per esempio la sicurezza del lavoratore.
Negli anni immediatamente successivi alla promulgazione della Costituzione si è ritenuto che lo sciopero
rifletta una struttura dicotomica nella quale sarebbe possibile ravvisare due distinti poteri giuridici, il primo
affidato al sindacato, depositario dell’interesse collettivo, il secondo affidato al singolo lavoratore che
concretamente decida di astenersi dal lavoro. Diversi orientamenti si sono affermati circa il potere di
proclamazione dello sciopero esercitato dal sindacato e quello dell’astensione individuale dal lavoro come
diritto potestativo del singolo scioperante esercitato nei confronti di un'altra persona senza alcuna
cooperazione di quest'ultima. Altri ancora ritengono, di dover qualificare lo sciopero come diritto di titolarità
individuale che possa essere esercitato solo collettivamente. Contrariamente ad un indirizzo minoritario che
accreditava l’idea che lo sciopero fosse un diritto attribuito dall’art.40 Costit. direttamente al sindacato e da
attuarsi per la tutela di un interesse professionale distinto da quello dei singoli lavoratori, mantiene ferma
l’impostazione della titolarità dello sciopero come diritto individuale, sia pur subordinandolo ad un atto di
competenza sindacale. La proclamazione dovrebbe essere volta a rendere nota la situazione di conflitto non
solo ai lavoratori interessati all’astensione, ma anche al datore di lavoro, cui dovrebbe comunicarsi pure il
preavviso per consentirgli di organizzare in anticipo i rimedi necessari per evitare danni all’integrità
dell’azienda nonchè per invitarlo a cercare una pacifica conciliazione. Queste ricostruzioni ormai remote nelle
quali si riteneva possibile una legge sindacale organica di attuazione degli art.39 e 40 della Costituzione sono
state disattese dalla successiva dottrina. In una realtà sindacale sempre più variegata e composita nella quale
le iniziative di autotutela possono essere assunte anche da coalizioni spontanee ed occasionali di lavoratori,
l’affermata struttura dicotomica dello sciopero è risultata inconciliabile. In tale contesto, si è consolidata la
convinzione che lo sciopero sia un diritto la cui titolarità spetti ai singoli lavoratori sebbene debba essere
esercitato in forma collettiva nonostante il riconoscimento della titolarità individuale. Lo stesso art.40 Costit.
avendo utilizzato una formulazione impersonale non sembra aver inteso in alcun modo <sindacalizzare> il
conflitto.
La questione della titolarità dello sciopero si è riproposta nel dibattito dottrinale che ha preceduto l’emanazione
della legge 12 giugno 1990, n.146, regolativi dei conflitti nei servizi pubblici essenziali, dubitandosi del
consolidato fondamento individualistico del diritto. In questo contesto è importante la funzione del sindacato
che, grazie ai codici di autoregolamentazione e alle leggi speciali, è in grado di gestire e controllare le
astensioni di un numero consistente di lavoratori soprattutto nei settori pubblici essenziali al fine di proteggere
l’interesse generale.
4. l’esercizio collettivo dello sciopero.
L’esercizio dello sciopero si concreta in un comportamento individuale relativo ad una volontaria interruzione
della prestazione lavorativa per la quale l’ordinamento esclude un inadempimento contrattuale, per cui
l’attuazione di uno sciopero pur non richiedendo una proclamazione formale, salva la particolare disciplina dei
servizi pubblici essenziali, implica comunque il rilievo di un interesse superindividuale. La deliberazione
collettiva dell’astensione può competere sia ad una associazione sindacale, sia ad un gruppo spontaneo di
lavoratori. La stessa legge 146/90 ha riconosciuto la possibilità di indire uno sciopero ad una qualsiasi
organizzazione di lavoratori nei limiti previsti per le imprese che erogano servizi pubblici essenziali. Quando lo
sciopero venga promosso da coalizioni occasionali o da gruppi spontanei di lavoratori la verifica sulla
fondatezza delle rivendicazioni appare assolutamente necessaria.
È fuori discussione che, tanto nell’area dei servizi pubblici che in quella dei settori industriali la garanzia dello
sciopero debba essere legata all’affermazione ed alla realizzazione di interessi collettivi dei lavoratori e che
un’astensione eventualmente attuata per interessi individuali risulti estranea all’esercizio del diritto
costituzionalmente garantito dall’art.40.
5. i soggetti dello sciopero.
I soggetti attivi dello sciopero sono di solito i lavoratori subordinati a prescindere dalla qualifica e dalla natura
del loro rapporto.
Anche i pubblici dipendenti possono essere soggetti attivi dello sciopero, la legge tuttavia, inibisce l’esercizio
dello sciopero a talune categorie del pubblico impiego come i militari e gli appartenenti alle forze di polizia in
considerazione dell’esigenza di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica. Tuttavia la legge 121/1981 ha
ammesso una sindacalizzazione condizionata del personale di Polizia di Stato precisando espressamente
all’art.84 che questi soggetti non esercitano il diritto di sciopero durante il servizio.
Dopo un lungo processo interpretativo, la legge 146/90 ha previsto particolari limiti agli scioperi nei pubblici
servizi essenziali, si tratta di limiti di natura obiettiva e non subiettiva avendo tale legge disposto l’abrogazione
degli art.330 e 333 del Codice Penale che contemplavano il reato di abbandono individuale e collettivo nei
pubblici impieghi.
L’abrogazione delle norme penali direttamente incriminatici dello sciopero dei pubblici dipendenti non esclude
la sopravvivenza di interessi penalmente tutelati in altre disposizioni del Codice Penale, come per es.l’art.340
c.p. che punisce l’interruzione di un ufficio o servizio pubblico o di pubblica necessità.
Questioni particolari si pongono per quei soggetti che pur non essendo lavoratori subordinati si trovano in
situazioni analoghe come per es.: i gestori degli impianti di distribuzione carburante, oppure i medici
convenzionati, in questi casi si tratta di lavoro parasubordinato nei quali il prestatore si impegna ad effettuare
la prestazione convenuta. In tali rapporti lo sciopero viene ritenuto un possibile strumento di pressione
utilizzabile per la tutela degli interessi professionali delle richiamate categorie. La Corte Costituzionale con
sent.n.222/1975 ha dichiarato l’illegittimita dell’art.506 del c.p. che puniva la serrata dei piccoli imprenditori
senza dipendenti per contrasto con l’art.40 Costit. perché non si tratterebbe di serrata in quanto non esiste un
rapporto di lavoro ma si tratterebbe piuttosto di uno sciopero di lavoratori autonomi. la Corte Costituzionale si
è pronunciata anche su altre forme di lavoro come quello autonomo, nello specifico con sent.n.171/96 si è
affrontata l’astensione delle udienze degli avvocati ravvisando nell’astensione di questi ultimi solo una
manifestazione incisiva nella dinamica associativa volta alla tutela di questa forma di lavoro autonomo.
Pertanto la protesta collettiva degli avvocati e più in genere dei lavoratori autonomi pur non ricadendo sotto la
specifica protezione dell’art.40 Cost. si collega a giudizio della Corte Costituzionale ad un’area connessa alla
libertà di associazione che è oggetto di salvaguardia costituzionale ed è specificamente più estesa rispetto allo
sciopero.
6. gli scopi dello sciopero.
Si possono avere nella pratica una vasta gamma di scioperi.
In origine lo sciopero più diffuso è stato quello per fini contrattuali volto ad ottenere, verso il datore di lavoro,
condizioni economiche-giuridiche più favorevoli. La Corte Costituzionale ha affrontato la questione della
legittimità degli scioperi per fini non contrattuali affermando la validità dello sciopero di solidarietà che ricorre
quando i prestatori si astengono dal lavoro per appoggiare uno sciopero gia intrapreso da altre categorie di
lavoratori esprimendo in tal modo la solidarietà con altri. In tali ordini di idee può farsi rientrare anche lo
sciopero di protesta che si esercita quando i lavoratori scioperano per ritorsione contro gli atteggiamenti dei
datori di lavoro nei confronti di un singolo o più prestatori diversi dagli scioperanti. Altre forme di sciopero sono
state legittimate dalla Corte Costituzionale che in varie sentenze successive al 1967 ha legittimato lo sciopero
politico-economico affermando che vi sarebbero due qualificazioni giuridiche dello sciopero tutelate
dall’ordinamento costituzionale. Da un lato il diritto di sciopero con finalità non strettamente economiche per il
quale opera la tutela piena dell’art.40 Cost. dall’altro la libertà di sciopero che riguarda lo sciopero politico puro
penalmente lecito in quanto possibile manifestazione di libertà e opinione dei lavoratori ma civilmente
sanzionabile quale inadempimento contrattuale nei riguardi del datore di lavoro estraneo alla pretesa.
Quando questa forma di sciopero viene esercitata in difesa dell’ordine costituzionale non è previsto preavviso,
come riportato dalla legge 146/90 semprechè lo stesso sciopero non vada ad influire sugli organi istituzionali
dello Stato.
7. forme e limiti di sciopero.
Lo sciopero può assumere in concreto forme diverse in relazione alla durata, alla dimensione ed alla
estensione della sospensione del lavoro, anche perché nell’esperienza sindacale italiana non è diffusa la
pratica dello sciopero ad oltranza, quanto piuttosto il ricorso ad astensioni di breve durata al fine di rendere
sopportabili dagli interessati i sacrifici economici imposti dalla perdita della retribuzione.
Le forme articolate più diffuse sono gli scioperi a scacchiera e a singhiozzo.
Nel primo caso, lo sciopero viene effettuato a scaglioni fra i vari reparti di uno stesso stabilimento della stessa
impresa, mentre il lavoro prosegue in altri reparti. Nel secondo caso l’astensione viene frazionata nel tempo,
concretandosi in una serie di sospensioni dal lavoro intercalate da periodi di ripresa più o meno lunghi
dell’attività produttiva. Non di rado, poi, può aversi la combinazione di scioperi a scacchiera ed a singhiozzo
con l’intento di incidere negativamente sul collegamento funzionale delle varie fasi di lavorazione e sui reparti
aziendali.
Negli scioperi articolati, viene a mancare la circostanza della contestualità dell’astensione dal lavoro dei
soggetti aderenti allo sciopero, che il requisito della totalità richiederebbe, esponendosi il datore di lavoro alle
pretese retributive di quei lavoratori formalmente disponibili a prestare la propria opera ma concretamente
impossibilitati a causa dello sciopero negli altri reparti. Non a caso si è dubitato della legittimità di tali forme
articolate di sciopero, anche se la giurisprudenza, dopo iniziali resistenze, è disposta ora a far rientrare tali
manifestazioni astensive nell’ampia fattispecie dell’art.40 Cost.
Con riferimento alle forme di attuazione degli scioperi, si è sollevata la questione del limite del danno ingiusto
arrecato da uno sciopero all’organizzazione aziendale. Esso dovrebbe essere valutato con un criterio di
proporzionalità rispetto alle retribuzioni perdute dai lavoratori e comunque non risultare maggiore di quello
inerente alla pura e semplice sospensione dell’attività lavorativa. A sostegno di tale tesi si richiamano principi
del diritto dei contratti opposti allo sciopero (cd.limiti interni), quali le regole della correttezza e della buona
fede nelle quali trova una specifica tutela l’interesse del datore alla conservazione della propria organizzazione
sindacale. In molti casi di inadempimenti irregolari o parziali si ravvisa un motivo legittimo dell’imprenditore di
rifiutare la prestazione offerta dai lavoratori (art.1181 c.c.), con esclusione altresì della mora accipiendi
(art.1206 c.c.).
Il richiamo ai principi di buona fede e correttezza, è apparso tuttavia, a taluno, inammissibile ove si consideri
che lo sciopero non rappresenta un momento di esecuzione del contratto ma la sospensione dei suoi effetti
tale da escludere in un comportamento conflittuale collettivo, l’invocabilità degli obblighi individuali
nell’attuazione del rapporto obbligatorio. Non a caso altri autori, al fine di determinare una delimitazione
dell’esercizio dello sciopero, hanno ritenuto più corretto invocare i principi regolatori della responsabilità
DESCRIZIONE APPUNTO
Appunti di Diritto del lavoro sulla pubblica amministrazione con riferimento ai seguenti argomenti trattati: rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione, le categorie della privatizzazione dei rapporti con le amministrazioni pubbliche, oggetto della privatizzazione, inquadramento, materie escluse e ipotesi di disciplina speciale.
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