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Norme sulla parità di trattamento tra uomini e donne
Stati membri di designare uno o più organismi per la promozione, l'analisi e il controllo della parità di trattamento tra uomini e donne, dotati almeno delle competenze minime indicate dalla direttiva.
Dal testo della direttiva N° 97/80 sull'onere della prova nei casi di discriminazione sessuale (ormai abrogata) deriva invece la norma della direttiva 2006/54 (art. 19) volta ad agevolare l'assolvimento del compito, di provare l'illegittima disparità subita. Essa impone agli stati membri di adottare i provvedimenti necessari "affinché spetti alla parte convenuta provare l'insussistenza della violazione del principio della parità di trattamento ove chi si ritiene leso dalla mancata osservanza nei propri confronti di tale principio abbia prodotto dinanzi ad un organo giurisdizionale [...] competente elementi di fatto in base ai quali si possa presumere che ci sia stata discriminazione diretta o indiretta" (ad esempio, dati).
statistici atti a dimostrare la sottorappresentazione delle donne in certe posizioni o negli avanzamenti di carriera). L'origine della previsione è giurisprudenziale. I primi interventi per favorire l'effettività del principio di parità, si devono alle pronunce della Corte di Giustizia nei casi Danfossed Enderby: nei quali la Corte ha sostenuto che, in presenza di un sistema classificatorio pregiudizievole nei confronti delle donne e "non trasparente", cioè non razionalmente giustificato, è il datore di lavoro a dover provare la motivazione non discriminatoria del sistema stesso. Tale posizione ammette un'inversione parziale dell'onere probatorio, la quale opera solo se si adducano elementi presuntivi di discriminazione. Successivamente alla codificazione legislativa della regola sull'alleggerimento dell'onere della prova, i giudici comunitari hanno più volte colto l'occasione di precisarne la.La portata del testo fornito è relativa all'applicazione del principio di parità tra lavoratori e lavoratrici, in particolare riguardo alle discriminazioni vietate dalle direttive ex art. 13 TCE. Si sottolinea che la contrattazione collettiva svolge un ruolo importante nell'applicazione di tale principio, ma i contratti collettivi da soli non sono sufficienti per garantire l'effettiva parità, a meno che non siano dotati di efficacia generale. La direttiva N° 76/207 richiedeva che anche le clausole contrattuali fossero sottoposte al giudizio di parità, indipendentemente dai loro effetti giuridici.Unito è stato così dichiarato inadempiente alle prescrizioni della direttiva per non avere previsto meccanismi specifici per l'annullamento delle clausole contrarie alla parità. La nullità delle clausole contrattuali discriminatorie implica che le retribuzioni da queste fissate siano sostituite da quelle più alte stabilite per gli uomini. Più di recente, poi, la Corte di Giustizia ha esteso ad ogni disposizione legislativa o di contratto collettivo in contrasto con la direttiva N° 76/207 la soluzione della parificazione verso l'alto dei trattamenti illegittimamente negati al gruppo di lavoratori sfavorito. L'applicazione del principio di eguaglianza, anche nella sua accezione di parità di opportunità, trova forme di sostegno potenzialmente rilevanti tramite le varie politiche di intervento comunitarie, quali previste nei programmi di azione periodicamente attivati dalla Commissione. Tali misure trovano ormai fondamento.esplicito nell'art. 137 TCE, che affida alla Comunità il compito di sostenere l'azione degli Stati diretta a promuovere la parità nei suoi vari aspetti.
15. La parità nella sicurezza sociale.
La sicurezza sociale è l'area di applicazione più tardiva e controversa del principio comunitario di parità tra uomini e donne. La direttiva del 76 ne escludeva l'applicazione alle prestazioni previdenziali; cosicché esso si afferma più tardi, con modalità e tempi diversi per i vari regimi legali di previdenza e per i fondi privati sostitutivi ed integrativi dei regimi pubblici.
Ciò avviene con la direttiva N° 79/7, completata dall'ormai abrogata direttiva N° 86/378 sulla parità di trattamento nei regimi professionali di sicurezza sociale (modificata con la direttiva N°96/97, in seguito alla sentenza Barber) e dalla direttiva N°86/613 sulla parità di trattamento fra lavoratori che
esercitano un'attività autonoma. In forza della normativa del 79 il principio di parità si applica ai regimi previdenziali legali contro i rischi di malattia, invalidità, vecchiaia, infortuni sul lavoro e malattie professionali, disoccupazione ed ai relativi regimi complementari, integrativi o sostitutivi; non si applica invece agli assegni familiari e alle prestazioni ai superstiti. Riguardo alle modalità di attuazione della direttiva, essa in conformità alla sentenza Barber, attribuisce a tutte le misure nazionali di recezione effetto retroattivo alla data della sentenza stessa. Il termine per l'entrata in vigore della direttiva N°79/7 è sei anni. A partire dal dicembre del 1984, in mancanza di provvedimenti nazionali di attuazione, la direttiva ha potuto essere fatta valere per escludere disparità di trattamento in materia, e quindi per riconoscere alle donne il diritto di essere soggette allo stesso regime degli
uomini trovantisi nella stessa situazione. La Corte ha ritenuto escluse dall'ambito oggettivo di applicazione della direttiva diverse forme di sostegno al reddito. L'ambito di applicazione della direttiva N°79/7 si estende a tutti i lavoratori, anche autonomi, ai pensionati ed ai lavoratori la cui attività si è interrotta per malattia, infortunio, disoccupazione involontaria. Secondo la Corte di Giustizia la direttiva si applica altresì a coloro che abbiano interrotto il lavoro per occuparsi di un parente invalido, ma non alle persone che non sono mai state disponibili sul mercato del lavoro o che non lo sono più per motivi diversi da quelli previsti nella direttiva. La direttiva N° 79/7 prevede all'art. 7.1 una serie di possibili eccezioni al principio di parità, in particolare consentendo agli Stati membri di escludere dal suo campo di applicazione: la fissazione del limite d'età per la pensione di vecchiaia e leconseguenze relative in ordine ad altre prestazioni (lett. a); i vantaggi accordati ai fini pensionistici di vecchiaia a persone che hanno provveduto all'educazione dei figli, compresi i diritti alle prestazioni a seguito di interruzione del lavoro per gli stessi motivi, come ad esempio i contributi figurativi (lett. b); la concessione di diritti a prestazioni di vecchiaia o invalidità in base a diritti derivati dal coniuge (lett. c); la concessione di maggiorazioni delle prestazioni previdenziali per il coniuge a carico (lett. d).
La Corte ha ritenuto che le eccezioni al principio di parità, di cui alla lett. a) dell'art. 7.1, debbano essere interpretate restrittivamente. Inoltre la deroga non si applica - e quindi prevale integralmente il principio di parità - nel caso di prestazioni economiche quali un assegno per combustibili invernale erogato agli uomini con almeno 65 anni di età e alle donne con almeno 60 anni, che siano beneficiari di pensioni.
pubbliche subordinatamente a certi requisiti di reddito. Né si applica nel caso di pensione di vecchiaia anticipata per inabilità al lavoro e, analogamente, per un assegno diretto a compensare la riduzione della capacità di guadagno dovuta infortunio o malattia professionale. Di estrema rilevanza è stata la precisazione fornita dalla Corte sulla riferibilità della deroga prevista dall'art. 7.1 della direttiva N° 79/7 solo alla fissazione dell'età pensionabile e alle altre prestazioni conseguenti. Il coordinamento delle discipline riguardanti i tre profili coinvolti nel pensionamento (contributi, prestazioni, età pensionabile), spesso regolati in modo discriminatorio dalle legislazioni nazionali, ha presentato non poche difficoltà. La Corte ha considerato retribuzione, e quindi ritenuto assoggettati alle disposizioni dell'art. 119 del Trattato e della direttiva del 75, sia i contributi pensionistici sia le prestazioni.conseguenti ad un sistema pensionistico privato di qualunque genere: giudicando discriminatori soprattutto schemi pensionistici negoziati a livello aziendale, quand'anche di natura sostitutiva e complementare (caso Barber). La decisione Barber ha modificato nell'area delle pensioni private anche le precedenti opinioni della Corte, che aveva escluso l'età pensionabile dall'operatività del principio di parità, ritenendola attinente alla normativa previdenziale (non ricompresa nella direttiva N° 76/207 e neppure nella direttiva N° 86/378). Facendo rientrare invece tutte le componenti dei sistemi pensionistici di origine negoziale nell'ambito dell'art. 119 (oggi art. 141), la Corte ha esteso il principio di parità anche all'età pensionabile. Analogo conclusione vale poi per il regime dei prepensionamenti. Resta fermo che l'età pensionabile prevista per la previdenza pubblica può rimanere differenziata.
temporaneamente per dar modo agli Stati membri di adattare i loro sistemi legali, anche se ciò comporta oneri maggiori per gli uomini (i quali devono pagare contributi sociali per un periodo più lungo delle donne per acquisire gli stessi benefici). La Corte è peraltro giunta di recente a censurare la differente età pensionabile stabilita per gli uomini e le donne appartenenti ad una categoria eterogenea e quantitativamente rilevante come quella dei dipendenti pubblici italiani iscritti al regime pensionistico gestito dall' Inpdap: infliggendo al nostro paese una condanna che ha già prodotto modifiche sul piano legislativo. La gravità delle conseguenze della sentenza Barber sugli equilibri finanziari dei fondi pensione di molti Stati membri, ha indotto il legislatore sovranazionale a intervenire normativamente: anzitutto a Maastricht con due aggiunte all'art. 119 (ora art. 141) TCE, e più tardi con la direttiva N° 96/97, chemodificava la direttiva N°86/378. Le regole sui "regimi professionali di sicurezza sociale" risultanti dalla sovrapposizione delle direttive