Diritto del lavoro della Comunità europea, Roccella, Treu - Appunti
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La legittimità dei trattamenti preferenziali a favore delle donne ha suscitato reazioni
contrastanti negli ordinamenti europei. All'inizio alcuni di questi hanno negato la
legittimità in nome del principio di eguaglianza formale. Ma la maggior parte
dell'opinione (anche in Italia) ha criticato tale orientamento. La possibilità di sostenere
misure promozionali specifiche del lavoro delle donne è stata giustificata in quanto tali
misure sono finalizzate all'obiettivo della parità non più solo di trattamento, ma di
opportunità.
Nell'ambito di questo orientamento di fondo, si sono rivelati alquanto controversi i limiti
di legittimità di simili misure e più in genere delle azioni positive: in particolare i limiti di
azioni che non siano solamente volontarie e temporanee, ma assumano carattere
restrittivo delle politiche dell'impiego perseguite dalle imprese.
La Corte di Giustizia è stata a lungo silente in proposito. Tale silenzio è stato interrotto
negli anni 90, con una serie di pronunce ed iniziative, peraltro oggetto di valutazioni non
del tutto univoche.
L'elaborazione della Corte ha preso avvio col notissimo caso Kalanke, nel quale è stata
ritenuta incompatibile con la parità una normativa nazionale che accordava
automaticamente, a parità di qualificazione dei candidati ritenuti idonei per un'assunzione
o una promozione, la preferenza a quelli di sesso femminile nei settori ove le donne erano
rappresentate in modo insufficiente (cioè occupavano meno della metà dei posti in
organico nelle specifiche categorie e mansioni). Secondo la Corte questa normativa
avrebbe indebitamente sostituito all'obiettivo della promozione delle pari opportunità.
La situazione si è modificata anche a seguito della nuova formulazione dell'art. 119
accolta dal Trattato di Amsterdam. Il nuovo art. 141.4 TCE ha infatti consacrato le azioni
positive, stabilendo che "allo scopo di assicurare l'effettiva e completa parità tra uomini e
donne nella vita lavorativa, il principio della parità di trattamento non osta a che uno
Stato membro mantenga o adotti misure che prevedano vantaggi specifici diretti a
facilitare l'esercizio di un'attività professionale da parte del sesso sottorappresentato
ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali". Tale innovazione
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normativa è ulteriormente sottolineata nel nuovo art.137, che affida alla Comunità il
compito di sostenere e completare l'azione degli Stati membri anche nel settore della
"parità tra uomini e donne per quanto riguarda le opportunità sul mercato del lavoro e il
trattamento sul lavoro" infine il principio della parità tra uomini e donne trova esplicita
enunciazione nell'art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, il quale
prevede in particolare che il principio stesso "non osta al mantenimento o all'adozione di
misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato".
In parallelo con queste innovazioni anche l'orientamento della Corte si è andato
modificando: nella pronuncia Marschall, riguardante un caso, analogo a Kalanke, di
preferenza nelle assunzioni o nelle promozione, la Corte è pervenuta a conclusioni
diverse, giudicando compatibile col diritto comunitario la norma sottopostale perché
sanciva la preferenza delle candidate non in assoluto, ma a condizione che non
prevalessero "motivi inerenti alla persona di un candidato di sesso maschile".
Una normativa preferenziale a favore delle donne, in sostanza, è legittima se la priorità
non è assoluta ma se ammette variazioni e deroghe riferite a qualità personali dei
candidati, come è stato ribadito più tardi dalla Corte, trovandosi ad esaminare una
normativa nazionale complessa e articolata come quella vigente nella Land tedesco
dell'Assia.
Profondamente diversa dalle questioni interpretative che hanno impegnato la Corte di
Giustizia è quella affrontata successivamente dalla sentenza Lommers, ove è stata presa
in considerazione la scelta di un ministero olandese di mettere a disposizione dei figli
soltanto dei dipendenti di sesso femminile, salvo comprovati casi di necessità, un certo
numero di posti in asili nido: scelta tramite cui tale ministero si proponeva di arginare la
situazione di rilevante sottorappresentazione delle donne esistenti al suo interno, in un
contesto caratterizzato dall'insufficienza di strutture di accoglienza adeguate e
finanziariamente insostenibili per i figli dei lavoratori. Proprio facendo leva su questi due
presupposti, la Corte ha giudicato la regola conforme al principio comunitario di parità di
trattamento, richiedendo comunque di interpretare la deroga alla stessa, anche a favore
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dei dipendenti di sesso maschile, in modo tale da consentire ai lavoratori che provvedono
da soli alla custodia dei loro figli di accedere al beneficio in oggetto alle stesse condizioni
delle lavoratrici.
Meritevole di essere ricordata è anche la sentenza di condanna dell'Italia per la disparità
di trattamento presenti nel regime pensionistico gestito dall' Inpdap, da cui è respinta
l'idea che le azioni positive possono essere ridotte a semplici strumenti di compensazione
degli svantaggi patiti dalle lavoratrici: secondo la Corte "La fissazione, ai fini del
pensionamento, di una condizione d'età diversa a seconda del sesso non è tale da
compensare gli svantaggi ai quali sono esposte le carriere dei dipendenti pubblici di sesso
femminile, aiutando queste donne nella loro vita professionale e ponendo rimedio ai
problemi che esse possono incontrare durante la loro carriera".
14. Profili problematici.
L'attuazione giudiziale della disciplina antidiscriminatoria presenta aspetti di particolare
importanza. In presenza della generica richiesta di introdurre negli ordinamenti nazionali
le "misure necessarie per permettere a tutti coloro che si ritengono lesi" da
discriminazioni basate sul sesso "di far valere i propri diritti per via giudiziaria", la Corte
di Giustizia ha affermato il fondamentale principio della tutela giurisdizionale effettiva,
con significative implicazioni sul piano dell'accesso al giudizio e soprattutto su quello
sanzionatorio. La Corte, in particolare, si è preoccupata di ribadire più volte che l'
effettività del principio di parità presuppone "sanzioni adeguate" a fronte della sua
violazione; ed ha precisato che esse devono essere "idonee a risarcire il soggetto
discriminato del danno" e rappresentare un'efficace strumento di deterrenza.
Incidenza di tali indicazioni è indebolita dal fatto che la scelta circa la tipologia
sanzionatoria viene lasciata di massima ai giudici nazionali, in base alla regola generale
secondo cui le direttive obbligano gli Stati membri solo quanto al risultato e non quanto
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agli strumenti. Gli ordinamenti nazionali hanno tendenzialmente privilegiato sanzioni
tradizionali come la nullità ed il risarcimento dei danni, rispetto a quelle più complesse in
grado di ristabilire le condizioni di parità lese dagli atti discriminatori. A partire da
controversie sull'applicazione di sanzioni di tipo tradizionale, la Corte ha affermato che
qualora uno Stato opti per una sanzione rientrante in un regime di responsabilità civile,
qualunque infrazione al divieto di discriminazione comporta la responsabilità dell'autore
dell'atto, senza che rilevino le esimenti previste dal diritto nazionale: quale, nel caso
particolare, la condizione che si trovi la colpa del datore di lavoro. L'adeguatezza della
sanzione va valutata in relazione all'obiettivo di riparare la specifica violazione della
parità.
Le indicazioni giurisprudenziali in tema di sanzioni, codificate dal legislatore
comunitario del 2002, si ritrovano oggi all'interno della direttiva N° 2006/54 che richiede
l' effettività, la proporzionalità e la dissuasività dei rimedi contro le discriminazioni, siano
essi i rimedi in forma specifica, cioè di carattere restitutorio-ripristinatorio, oppure rimedi
per equivalente monetario, cioè di carattere risarcitorio.
Sul riconoscimento, a favore delle "associazioni, organizzazioni o altre persone
giuridiche" di titolari di un legittimo interesse all'osservanza dei divieti di
discriminazione, del diritto di agire, "via giurisdizionale o amministrativa, per conto o a
sostegno della persona che si ritiene lesa e con il suo consenso"; nonché sull'obbligo degli
Stati membri di designare uno o più organismi per la promozione, l'analisi e il controllo
della parità di trattamento tra uomini e donne, dotati almeno delle competenze minime
indicate dalla direttiva.
Dal testo della direttiva N° 97/80 sull'onere della prova nei casi di discriminazione
sessuale (ormai abrogata) deriva invece la norma della direttiva 2006/54 (art. 19) volta ad
agevolare l'assolvimento del compito, di provare l'illegittima disparità subita. Essa
impone agli stati membri di adottare i provvedimenti necessari "affinché spetti alla parte
convenuta provare l'insussistenza della violazione del principio della parità di trattamento
ove chi si ritiene leso dalla mancata osservanza nei propri confronti di tale principio abbia
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prodotto dinanzi ad un organo giurisdizionale [...] competente elementi di fatto in base ai
quali si possa presumere che ci sia stata discriminazione diretta o indiretta" (ad esempio,
dati statistici atti a dimostrare la sottorappresentazione delle donne in certe posizioni o
negli avanzamenti di carriera).
L'origine della previsione è giurisprudenziale. I primi interventi per favorire l'effettività
del principio di parità, si devono alle pronunce della Corte di Giustizia nei casi Danfoss
ed Enderby: nei quali la Corte ha sostenuto che, in presenza di un sistema classificatorio
pregiudizievole nei confronti delle donne e "non trasparente", cioè non razionalmente
giustificato, è il datore di lavoro a dover provare la motivazione non discriminatoria del
sistema stesso. Tale posizione ammette un'inversione parziale dell'onere probatorio, la
quale opera solo love si adducano elementi presuntivi di discriminazione.
Successivamente alla codificazione legislativa della regola sull'alleggerimento dell'onere
della prova, i giudici comunitari hanno più volte colto l'occasione di precisarne la portata:
pronunciandosi con riguardo non solo a discriminazione di genere, ma anche a qualcuna
delle discriminazioni vietate dalle direttive ex art. 13 TCE, nelle quali tale regola è stata
puntualmente inserita.
Un ruolo particolare dell'applicazione del principio comunitario di parità tra lavoratori e
lavoratrici riveste la contrattazione collettiva, fermo restando comunque che, secondo
quanto indicato dalla Corte di Giustizia i contratti collettivi non sono strumento
sufficiente per l'attuazione del suddetto principio, qualora siano privi di efficacia
generale, come accade in diversi paesi. Già in origine la direttiva N° 76/207, con la
disposizione riprodotta ora nella direttiva di ' rifusione' del 2006, richiedeva che anche le
clausole contrattuali venissero assoggettate al giudizio di parità, quali che ne fossero gli
effetti giuridici, anche se limitati come in Italia ai contraenti, o inesistenti come di regola
in Gran Bretagna. Il Regno Unito è stato così dichiarato inadempiente alle prescrizioni
della direttiva per non avere previsto meccanismi specifici per l'annullamento delle
clausole contrarie alla parità.
La nullità delle clausole contrattuali discriminatorie implica, che le retribuzioni da queste
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fissate siano sostituite da quelle più alte stabilite per gli uomini. Più di recente, poi, la
Corte di Giustizia ha esteso ad ogni disposizione legislativa o di contratto collettivo in
contrasto con la direttiva N° 76/207 la soluzione della parificazione verso l'alto dei
trattamenti illegittimamente negati al gruppo di lavoratori sfavorito.
L'applicazione del principio di eguaglianza, anche nella sua accezione di parità di
opportunità, trova forme di sostegno potenzialmente rilevanti tramite le varie politiche di
intervento comunitarie, quali previste nei programmi di azione periodicamente attivati
dalla Commissione.
Tali misure trovano ormai fondamento esplicito nell'art. 137 TCE, che affida alla
Comunità il compito di sostenere l'azione degli Stati diretta a promuovere la parità nei
suoi vari aspetti.
15. La parità nella sicurezza sociale.
La sicurezza sociale è l'area di applicazione più tardiva e controversa del principio
comunitario di parità tra uomini e donne. La direttiva del 76 ne escludeva l'applicazione
alle prestazioni previdenziali; cosicché esso si afferma più tardi, con modalità e tempi
diversi per i vari regimi legali di previdenza e per i fondi privati sostitutivi ed integrativi
dei regimi pubblici.
Ciò avviene con la direttiva N° 79/7, completata dall' ormai abrogata direttiva N° 86/378
sulla parità di trattamento nei regimi professionali di sicurezza sociale (modificata con la
direttiva N°96/97, in seguito alla sentenza Barber) e dalla direttiva N°86/613 sulla parità
di trattamento fra lavoratori che esercitano un'attività autonoma. In forza della normativa
del 79 il principio di parità si applica ai regimi previdenziali legali contro i rischi di
malattia, invalidità, vecchiaia, infortuni sul lavoro e malattie professionali,
disoccupazione ed ai relativi regimi complementari, integrativi o sostitutivi; non si
applica invece agli assegni familiari e alle prestazioni ai superstiti. Riguardo alle modalità
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di attuazione della direttiva, essa in conformità alla sentenza Barber, attribuisce a tutte le
misure nazionali di recezione effetto retroattivo alla data della sentenza stessa.
Il termine per l'entrata in vigore della direttiva N°79/7 è sei anni. A partire dal dicembre
del 1984, in mancanza di provvedimenti nazionali di attuazione, la direttiva ha potuto
essere fatta valere per escludere disparità di trattamento in materia, e quindi per
riconoscere alle donne il diritto di essere soggette allo stesso regime degli uomini
trovantisi nella stessa situazione.
La Corte ha ritenuto escluse dall'ambito oggettivo di applicazione della direttiva diverse
forme di sostegno al reddito.
L'ambito di applicazione della direttiva N°79/7 si estende a tutti i lavoratori, anche
autonomi, ai pensionati ed ai lavoratori la cui attività si è interrotta per malattia,
infortunio, disoccupazione involontaria. Secondo la Corte di Giustizia la direttiva si
applica altresì a coloro che abbiano interrotto il lavoro per occuparsi di un parente
invalido, ma non alle persone che non sono mai state disponibili sul mercato del lavoro o
che non lo sono più per motivi diversi da quelli previsti nella direttiva.
La direttiva N° 79/7 prevede all'art. 7.1 una serie di possibili eccezioni al principio di
parità, in particolare consentendo agli Stati membri di escludere dal suo campo di
applicazione: la fissazione del limite d'età per la pensione di vecchiaia e le conseguenze
relative in ordine ad altre prestazioni (lett. a); i vantaggi accordati ai fini pensionistici di
vecchiaia a persone che hanno provveduto all'educazione dei figli, compresi i diritti alle
prestazioni a seguito di interruzione del lavoro per gli stessi motivi, come ad esempio i
contributi figurativi (lett. b); la concessione di diritti a prestazioni di vecchiaia o
invalidità in base a diritti derivati dal coniuge (lett. c); la concessione di maggiorazioni
delle prestazioni previdenziali per il coniuge a carico (lett. d).
La Corte ha ritenuto che le eccezioni al principio di parità, di cui alla lett. a) dell'art. 7.1,
debbano essere interpretate restrittivamente. Inoltre la deroga non si applica - e quindi
prevalga integralmente il principio di parità - nel caso di prestazioni economiche quali un
assegno per combustibili invernale erogato agli uomini con almeno 65 anni di età e alle
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donne con almeno 60 anni, che siano beneficiari di pensioni pubbliche subordinatamente
a certi requisiti di reddito. Né si applica nel caso di pensione di vecchiaia anticipata per
inabilità al lavoro e, analogamente, per un assegno diretto a compensare la riduzione
della capacità di guadagno dovuta infortunio o malattia professionale. Di estrema
rilevanza è stata la precisazione fornita dalla Corte sulla riferibilità della deroga prevista
dall'art. 7.1 della direttiva N° 79/7 solo alla fissazione dell'età pensionabile e alle altre
prestazioni conseguenti.
Il coordinamento delle discipline riguardanti i tre profili coinvolti nel pensionamento
(contributi, prestazioni, età pensionabile), spesso regolati in modo discriminatorio dalle
legislazioni nazionali, ha presentato non poche difficoltà.
La Corte ha considerato retribuzione, e quindi ritenuto assoggettati alle disposizioni
dell'art. 119 del Trattato e della direttiva del 75, sia i contributi pensionistici sia le
prestazioni conseguenti ad un sistema pensionistico privato di qualunque genere:
giudicando discriminatori soprattutto schemi pensionistici negoziati a livello aziendale,
quand'anche di natura sostitutiva e complementare (caso Barber).
La decisione Barber ha modificato nell'area delle pensioni private anche le precedenti
opinioni della Corte, che aveva escluso l'età pensionabile dall'operatività del principio di
parità, ritenendola attinente alla normativa previdenziale (non ricompresa nella direttiva
N° 76/207 e neppure nella direttiva N° 86/378). Facendo rientrare invece tutte le
componenti dei sistemi pensionistici di origine negoziale nell'ambito dell'art. 119 (oggi
art. 141), la Corte ha esteso il principio di parità anche all'età pensionabile. Analogo
conclusione vale poi per il regime dei prepensionamenti.
Resta fermo che l'età pensionabile prevista per la previdenza pubblica può rimanere
differenziata temporaneamente per dar modo agli Stati membri di adattare i loro sistemi
legali, anche se ciò comporta oneri maggiori per gli uomini (i quali devono pagare
contributi sociali per un periodo più lungo delle donne per acquisire gli stessi benefici).
La Corte è peraltro giunta di recente a censurare la differente età pensionabile stabilita
per gli uomini e le donne appartenenti ad una categoria eterogenea e quantitativamente
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rilevante come quella dei dipendenti pubblici italiani iscritti al regime pensionistico
gestito dall' Inpdap: infliggendo al nostro paese una condanna che ha già prodotto
modifiche sul piano legislativo.
La gravità delle conseguenze della sentenza Barber sugli equilibri finanziari dei fondi
pensione di molti Stati membri, ha indotto il legislatore sovranazionale a intervenire
normativamente: anzitutto a Maastricht con due aggiunte all'art. 119 (ora art. 141) TCE, e
più tardi con la direttiva N° 96/97, che modificava la direttiva N°86/378. Le regole sui
"regimi professionali di sicurezza sociale" risultanti dalla sovrapposizione delle direttive
del 1986 e del 1996, entrambe abrogate, costituiscono oggi il più corposo gruppo di
disposizioni di carattere settoriale presente nella direttiva 2006/54.
Qui sono dichiarate contrarie al principio di parità nelle disposizioni basate direttamente
o indirettamente sul sesso, riguardanti principali caratteri del regime, come le modalità
dell'adesione, l'età di accesso, la durata utile per ottenere le prestazioni, i livelli delle
prestazioni; i livelli dei contributi. Norme particolari di adeguamento sono previste per i
lavoratori autonomi. Le misure di attuazione della direttiva devono comprendere i periodi
più giorni successivi al 17 maggio 1990 (data della sentenza Barber), salvo il caso in cui
gli interessati abbiano già promosso azione giudiziaria prima di tale data: in questo caso
le misure di attuazione devono avere effetto retroattivo all'8 aprile 1976.
16. L'accorpamento della disciplina sulla parità tra lavoratori e lavoratrici: la
direttiva N° 2006/54.
La direttiva N° 2006/54 trova origine nell'esigenza di far confluire in un unico ed
organico testo le diverse discipline comunitarie in tema di parità tra uomini e donne nel
lavoro, estendendo contestualmente le recenti innovazioni intervenute in materia agli
ambiti che ne erano rimasti esclusi. L'operazione di "rifusione "normativa compiuta dal
legislatore sovranazionale non consiste dunque in un semplice e ordinato assemblaggio di
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prescrizioni già vigenti, ma comporta anche modifiche di sostanza al preesistente regime
giuridico. Una conferma in tal senso si trae dalla disposizione finale che, nello stabilire il
termine ultimo per il recepimento della direttiva in esame (il 15 agosto 2008, prorogabile
peraltro di un ulteriore anno qualora risulti necessario per tenere conto delle particolari
difficoltà incontrate da qualche Stato membro), precisa che comunque l'obbligo di
attuazione della stessa "si limita alle disposizioni che rappresentano un cambiamento
sostanziale rispetto alle direttive precedenti".
Le direttive sostituite dalla nuova disciplina e abrogate (dal 15 agosto 2009) sono quattro:
- La N° 75/117 sulla parità retributiva,
- La N° 76/207 (come modificato nel 2002) sulla parità nelle condizioni di lavoro,
- La N° 86/378 (come modificata nel 1996) sulla parità nei regimi professionali di
sicurezza sociale,
- La N° 97/80 sull'onere della prova delle discriminazioni.
È restata fuori dalla ' rifusione' la direttiva N° 79/7 sulla parità nei regimi pubblici
obbligatori di sicurezza sociale. Estranea ad un testo unico concernente solo
l'occupazione dell'impiego delle persone è rimasta inoltre, comprensibilmente, la direttiva
N° 2004/113 del 13 dicembre 2004, volta all'attuazione del principio di parità di
trattamento tra uomini e donne nell'accesso e nella fornitura di beni e servizi.
All'interno della direttiva N° 2006/54 si trova, oltre ad un gruppo di disposizioni
particolari articolato nei tre sottogruppi riguardanti la parità retributiva, la parità nei
regimi professionali di sicurezza sociale e la parità nelle condizioni di lavoro, un insieme
di disposizioni valevoli in tutti gli ambiti considerati dalla direttiva, grazie alle quali si
realizzano le innovazioni di contenuto di cui si è detto, a partire da quelle inerenti al
piano definitorio.
Le nozioni di discriminazione diretta e di discriminazione indiretta in base al sesso, che
erano state introdotte dalla direttiva N° 2002/73 con esclusivo riferimento al campo
d'applicazione della direttiva N°76/207, divengono formalmente valide per tutti gli ambiti
considerati dalla direttiva del 2006; con l'abrogazione della direttiva N° 97/80 è
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finalmente venuta meno la confusa situazione determinatasi nel 2002 a causa della
coesistenza di due distinte definizioni comunitarie di discriminazione indiretta tra
lavoratori e lavoratrici. Di valenza generale diventano anche le nozioni di molestia e
molestia sessuale, rispetto alle quali si afferma che, esse al pari dell'ordine di
discriminare, risultano comprese nella discriminazione (costituendone dunque una
particolare manifestazione) e non più, come in precedenza, che "sono considerate
discriminazioni" (cioè equiparate alle stesse).
Tra le altre disposizioni proviene dalla direttiva N° 97/80 solo quella sull'alleggerimento
dell'onere della prova gravante sulla parte che denuncia la discriminazione, che risulta
estesa anche all'ambito dei regimi professionali di sicurezza sociale.
Tutte le restanti disposizioni costituiscono invece la riproposizione di acquisizioni
risalenti alla direttiva N° 2002/73. Una specifica segnalazione meritano le disposizioni
che stabiliscono l'obbligo degli Stati membri di sollecitare la prevenzione delle
discriminazioni e quello di integrare la dimensione di genere nelle attività normative,
amministrative e politiche.
17. La tutela contro le discriminazioni non di genere: le direttive N° 2000/43 e N°
2000/78.
Le direttive N° 2000/43 e 2000/78 trovano fondamento nell'art. 13 del Trattato, nella
forma forgiata dal processo riformatore di Amsterdam e attribuisce al Consiglio il potere
di fare "i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la
razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l'età o le
tendenze sessuali", compiendo una scelta di espansione del principio di parità di
trattamento, successivamente confermata dalla Carta dei diritti approvata a Nizza. La
prima di tali direttive è volta a contrastare l'illegittima penalizzazione delle persone in
base alla loro razza od origine etnica, mentre le caratteristiche soggettive tutelate dalla
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seconda sono la fede religiosa o le convinzioni ideologiche d'altra natura, lo stato di
disabilità, l'età e l'orientamento sessuale.
Il carattere tassativo dell'elencazione effettuata dalla direttiva quadro N° 2000/78 non
comporta tuttavia l'interpretazione restrittiva dell'ambito di applicazione soggettiva della
stessa: la direttiva 2000/78 "si applica non in relazione ad una determinata categoria di
persone, bensì sulla scorta dei motivi indicati".
Le due direttive presentano contenuti ampiamente convergenti.
Particolarmente ampio è il campo di applicazione della direttiva N° 2000/43, che esorbita
dalla sfera lavoristica e previdenziale, stabilendo regole valevoli a 360 gradi, cioè anche
per gli aspetti attinenti alle prestazioni sociali, all'istruzione, all'accesso e alla fornitura di
beni e servizi. La direttiva N° 2000/78, invece, "concerne l'occupazione e le condizioni di
lavoro" e "non si applica ai pagamenti di qualsiasi genere, effettuati da regimi statali o da
regimi assimilabili, ivi inclusi i regimi statali di sicurezza sociale o di protezione sociale";
è attualmente in atto il tentativo di estendere al di fuori dell'ambito lavorativo anche la
tutela antidiscriminatoria disegnata nella direttiva N° 2000/78 (in tal senso va infatti la
proposta di direttiva presentata dalla Commissione il 2 luglio 2008). Entrambe le direttive
non riguardano le discriminazioni basate sulla nazionalità.
Le nozioni di discriminazione diretta e indiretta sono esplicitate (all'art. 2) in termini
simili a quelle tradizionalmente enunciati nella discriminazione di genere, salvo gli
aggiustamenti resi necessari dall'eterogeneità delle situazioni considerate. Nella prima
sentenza resa in sede di interpretazione della direttiva N° 2000/43 la Corte di Giustizia ha
sensibilmente rafforzato la portata del divieto di discriminazione diretta fondata sulla
razza, sostenendo la ricorrenza e la giustiziabilità della fattispecie illegittima
indipendentemente dagli effetti lesivi da essa prodotti o non prodotti.
Entrambe le direttive del 2000 includono nella protezione antidiscriminatoria anche le
molestie, fornendone una definizione generale e rimettendo agli ordinamenti nazionali
una più precisa definizione.
L'art. 4 della direttiva N° 2000/43 consente agli Stati membri di stabilire il carattere non
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discriminatorio di "una differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata alla
razza o all'origine [...] laddove, per la natura di un'attività lavorativa o per il contesto in
cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e
determinante nello svolgimento dell'attività lavorativa, purché l'obiettivo sia legittimo e il
requisito proporzionato".
L'art. 4 della direttiva N° 2000/78 fa salve le differenze di trattamento basate sulla
religione e le convinzioni personali nelle organizzazioni di tendenza.
L'art. 5 della stessa direttiva prescrive l'adozione di "soluzioni ragionevoli" a favore dei
disabili, cioè di "provvedimenti appropriati" del datore di lavoro determinati "in funzione
delle esigenze delle situazioni concrete", per consentire ai portatori di handicap
opportunità di lavoro e di formazione, a condizione che tali provvedimenti non
comportino per il datore "un onere finanziario sproporzionato", la sproporzione peraltro
non ha luogo quando "l'onere è compensato in modo sufficiente" da provvidenze statali.
Stabilendo una vistosa eccezione alla generale ingiustificabilità delle discriminazioni
dirette, l'art. 6 prevede poi che le "disparità di trattamento collegata all'età" non
costituiscono discriminazione ove siano "oggettivamente e ragionevolmente giustificate"
secondo il diritto nazionale "da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di
politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il
conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari". La norma fa riferimenti
particolari a:
a) la definizione di condizioni speciali di accesso al lavoro e alla formazione
professionale, di occupazione e di lavoro, "comprese le condizioni di licenziamento e di
retribuzione ", per i giovani e gli anziani, onde favorirne "l'inserimento professionale o
assicurare la protezione degli stessi";
b) la fissazione di condizioni minime di età e di esperienza professionale;
c) la fissazione di un'età massima per l'assunzione basata su condizioni di formazione
richieste per il lavoro o sulla necessità di un ragionevole periodo di tempo prima del
pensionamento. 30
Un'importante sentenza emessa nel caso Mangold, la Corte di Giustizia ha censurato per
contrarietà all'art. 6 della direttiva la scelta compiuta dal legislatore tedesco di consentire
senza alcuna restrizione la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato a lavoratori
che abbiano raggiunto l'età di 52 anni, ritenendo non conforme al principio di
proporzionalità il mezzo adottato per perseguire il legittimo obiettivo di sostegno
dell'occupazione dei lavoratori anziani. In due successive occasioni, invece, la Corte ha
dovuto pronunciarsi sulla portata del suddetto art. 6 a partire da controversie sollevate
con riguardo a discipline nazionali che, in termini assai diversi, prevedono la cessazione
obbligatoria del rapporto di lavoro al compimento dell'età (di 65 anni) utile per il
pensionamento. Col risultato di ribadire che il divieto di discriminazioni basate sull'età
non deve affatto considerarsi innocuo: benché ai sensi dell'art. 6.1 della direttiva quadro
non costituiscono discriminazioni le disparità di trattamento fondate sull'età
"oggettivamente e ragionevolmente" giustificate, gli Stati membri sono tenuti a
dimostrare la legittimità dell'obbiettivo perseguito, e invocato quale giustificazione, "in
funzione dell'osservanza di un'elevata soglia probatoria.
D'altronde è proprio questo divieto ad aver assorbito gran parte dell'opera interpretativa
compiuta dalla Corte di Giustizia in relazione alle discriminazioni non di genere.
Ambedue le direttive sanciscono la legittimità delle azioni positive, fornendo così un
appiglio comunitario alle iniziative promozionali eventualmente intraprese nel silenzio
della legislazione nazionale.
Entrambe le direttive sanciscono il proprio carattere di norme minime e prevedono negli
Stati membri debbano prendere disposizioni atte a promuoverne le effettività. Inoltre esse
ribadiscono il principio della parziale inversione dell'onere della prova, nonché il diritto
delle persone che si ritengono rese di accedere a procedure giurisdizionali o
amministrative appropriate, anche tramite associazioni interessate. Le direttive inoltre
affidano agli ordinamenti nazionali la predisposizione di norme atte a proteggere da
provvedimenti sfavorevoli le persone, lese da trattamenti discriminatori, che facciano
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