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LA CESSAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO

L’estinzione del rapporto di lavoro può avvenire:

a) Per recesso del datore di lavoro (licenziamento) o per recesso del lavoratore (dimissioni).

b) Per risoluzione consensuale.

c) Per scadenza del termine nei contratti di lavoro a tempo determinato.

d) Per altre particolari circostanze specificatamente previste dalla legge.

e) Per morte del lavoratore.

f) Si discute se possano configurare autonoma causa di risoluzione, disciplinata dalle regole generali

del diritto contrattuale, la impossibilità sopravvenuta delle prestazioni e la forza maggiore.

L’art 2118 del cc del 1942 secondo cui ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo

indeterminato, senza fornire alcuna motivazione (recesso ad nutum). Ai sensi ella disciplina codicistica

l’unico vincolo per il recedente è, ancora oggi, di dare alla controparte regolare preavviso con conseguente

differimento della cessazione del rapporto di lavoro per un determinato periodo di tempo. Tuttavia nel

caso di dimissioni per giusta causa, quindi per gravi comportamenti del datore, il lavoratore non ha obbligo

di preavviso e, anzi ha diritto ad un’indennità sostitutiva del preavviso. L’obbligo di preavviso viene meno in

caso di recesso per giusta causa ai sensi dell’art 2119. La durata del preavviso è lasciata alla contrattazione

collettiva. L’art 2119 cc esclude che il fallimento o la liquidazione coatta amministrativa integrino una giusta

causa di licenziamento. Il legislatore ha puntualizzato che il trasferimento di per sé non integra causa di

giustificazione del licenziamento e si è procurato di garantire la continuità occupazionale dei dipendenti

ceduti. La L. n. 604/1966 canonizzò il principio della giustificazione obiettiva del potere di recesso,

dichiarando illegittimo il licenziamento non sorretto da giusta causa o da giustificato motivo. L’art 8

prevede per questi fatti un regime sanzionatorio ritenuto compromissorio o moderato: riassunzione del

lavoratore o, a scelta del datore, pagamento di una penale risarcitoria ragguagliata ad un numero di

mensilità di retribuzione che variano a seconda delle dimensioni dell’impresa, dell’anzianità del lavoratore.

Soltanto per i licenziamenti di rappresaglia viene utilizzata la nullità. Un decisivo passo in avanti sul piano di

una tutela effettiva della stabilità del posto di lavoro è stato compiuto con l’art 18 St. Lav., che ha

comportato il passaggio da un regime di stabilità meramente obbligatoria ad un regime di stabilità reale 25

nelle imprese che superano determinate soglie occupazionali. Inizialmente il licenziamento non assistito da

giusta causa o da giustificato motivo, doveva ordinare la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro

senza alcuna possibilità alternativa di tipo di risarcimento. Oltre alla reintegrazione il giudice condannava il

datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore. L’art 18 modificato dalla L. n. 108/1990 ha

ridotto al minimo i casi di recesso ad nutum. Solo per alcune categorie di lavoratori permane un regime di

libera recedibilità. Questo art è stato oggetto di profonde innovazioni da parte della L. 28 giugno 2012, n.92

(riforma Fornero), in cambio di un irrigidimento della flessibilità in entrata, è giunta per la prima volta dopo

anni di tentativi all’aumento di una flessibilità in uscita. Per quanto riguarda i contesti di illegittimità, l’art.

18 è stato diviso in ben 4 tipologie: la reintegra piena, conservata per il solo licenziamento discriminatorio o

nullo; la reintegra con indennità limitata a 12 mesi; l’indennitaria “forte” con risarcimento da un minimo di

12 mesi a un massimo di 24; l’indennitaria “ridotta” con un risarcimento da un minimo di 6 mesi fino a un

massimo di 12.

Nel contesto del c.d. Jobs Act, da parte del D. Lgs. 4 marzo 2015, n. 23. ha introdotto un nuovo regime

sanzionatorio del licenziamento illegittimo (c.d. Contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele

crescenti), applicabile ai soli lavoratori “con qualifica di quadri, operai e impiegati assunti dalla data di

entrata in vigore del D. Lgs. n. 23/2015. Il Contratto a tutele crescenti, non è un contratto ma una nuova

disciplina delle conseguenze del licenziamento illegittimo, caratterizzata dalla previsione di una tutela solo

indennitaria per i licenziamenti economici e dal mantenimento della tutela reintegratoria nelle sole ipotesi

di licenziamenti discriminatori o nulli e in specifiche fattispecie di licenziamenti disciplinari.

La disciplina codicistica del recesso dal rapporto di lavoro mantiene inalterato il proprio rilievo qualora il

recesso sia intimato dal lavoratore (dimissioni). La normativa del recesso del lavoratore a tempo

indeterminato resta ispirata al principio della libera recedibilità.

Le dimissioni devono essere rese con una libera e genuina espressione del consenso. Le dimissioni sono

annullabili nell’ipotesi in cui siano viziate da errore o violenza o dolo. Le dimissioni possono anche essere

annullate con il consenso di entrambe le parti, con conseguente prosecuzione del rapporto di lavoro.

L’art. 2119 cod. civ. autorizza ciascuna delle parti a recedere per giusta causa dal contratto “qualora si

verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria del rapporto”. In tale ipotesi, la parte

recedente non è tenuta a dare preavviso.

La definizione del giustificato motivo, soggettivo o oggettivo, è contenuta nell’art. 3 della L. n. 604/1966. Il

giustificato motivo soggettivo di licenziamento si realizza quando il prestatore di lavoro incorre in un

“notevole inadempimento degli obblighi contrattuali” che legittima il licenziamento con preavviso, sì da

differenziarsi dalla giusta causa che, come visto, esclude il preavviso in quanto non consente la prosecuzione

neppure provvisoria del rapporto di lavoro. La differenza tra giusta causa e giustificato motivo soggettivo è

soltanto quantitativa.

La nozione di giustificato motivo oggettivo comprende tutte le ipotesi in cui il licenziamento individuale del

lavoratore non sia giustificato da una condotta colpevole di quest’ultimo.

La fattispecie del licenziamento discriminatorio trae origine dal coordinamento delle previsioni contenute

nell’art 4, l. n. 604/1966 e nell’art 15 St. Lav. Un regime sanzionatorio più efficace è stato introdotto dall’art

3 della l. n: 108/1990 che ribadisce la nullità dei licenziamenti discriminatori, indipendentemente dalla

motivazione adottata e nel contempo considera applicabile la sanzione reintegratoria qualunque siano i

livelli occupazionali dell’impresa o dell’unità produttiva. In applicazione della disciplina generale del negozio

giuridico deve ritenersi nullo anche il licenziamento sorretto da motivo illecito determinante. La riscrittura

dell’art 18 St. Lav. Operata dalla riforma Fornero prevede ora la tutela reintegratoria, a prescindere dal

requisito dimensionale dell’impresa, per i casi di nullità del licenziamento discriminatorio. Il potere di

recesso del datore non solo è vincolato a taluni presupposti causali, ma incontra anche limiti temporali. La

ragione di fondo è legata alla tutela dei diritti fondamentali del lavoratore quale individuo e cittadino. Le

ipotesi principali di limitazione temporanea (art 2110) sono la malattia, infortunio, gravidanza, puerperio.

Nel periodo di sospensione del rapporto di lavoro con diritto alla conservazione del posto (periodo d

comporto) il datore non può esercitare neanche l’ordinaria facoltà di recesso. La previsione d’irrecidibilità

durante il periodo di sospensione dal lavoro non esclude, però, la possibilità del licenziamento per giusta

causa, ma solo del recesso ad nutum e di quello per giustificato motivo. L’unico fatto oggettivo ritenuto

capace di estinzione durante il comporto è la cessazione dell’attività aziendale. È considerato inefficace il 26

licenziamento che viene intimato nel corso del periodo di comporto. L’irrecedibilità è stabilita dal

legislatore anche nei periodi che precedono e seguono immediatamente il matrimonio della lavoratrice.

Un divieto generale di licenziamento è contemplato anche per la lavoratrice madre e per il lavoratore padre

Il divieto di licenziamento per matrimonio e maternità e paternità non si applica nel caso:

1) Di colpa grave costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto

2) Di cessazione dell’attività dell’azienda

3) Di ultimazione della prestazione per la quale si era assunti

4) Di esito negativo della prova

Il licenziamento non disciplinare deve essere compiuto per iscritto al lavoratore. La comunicazione del

licenziamento dal 18 luglio 2012, deve necessariamente contenere l’indicazione dei motivi che lo hanno

determinato. Solo per i lavoratori domestici, per i lavoratori ultrasessantenni in possesso dei requisiti

pensionistici, per i lavoratori in prova permane un principio di libera forma, nel senso che il licenziamento

può essere intimato oralmente e senza motivazione, previsto tuttavia ricorrentemente dalla contrattazione

collettiva. L’onere della forma scritta è rispettato anche nel caso in cui il datore di lavoro offra in consegna la

lettera di licenziamento al dipendente che rifiuti di riceverla, dovendo in questo caso il datore fornire la

prova. L’atto si reputa altresì conosciuto nel momento in cui giunge all’indirizzo del destinatario, salva la

prova dell’impossibilità incolpevole di effettiva conoscenza. La riforma del 2012 ha previsto, in caso di

licenziamento per giustificato motivo oggettivo disposto da datore di lavoro avente i requisiti dimensionali

richiesti per l’applicazione dell’art. 18 St. lav. consistente nell’esperimento di un tentativo di conciliazione in

sede amministrativa. Il datore deve far precedere l’intimazione del licenziamento per giustificato motivo

oggettivo da una comunicazione con cui dichiara l’intenzione di procedere al licenziamento. Nel termine di 7

giorni dal ricevimento della comunicazione è compito della Direzione trasmettere la convocazione al datore

e al lavoratore. La procedura deve concludersi entro 20 giorni dalla trasmissione della convocazione da parte

della Direzione territoriale del lavoro a meno che la parti, di comune avviso, non ritengano di proseguire il

confronto per il raggiungimento di un accordo.

Se la conciliazione ha esito positivo e si raggiunge l’accordo per la risoluzione consensuale del rapporto, trova

applicazione la nuova disciplina sugli ammortizzatori sociali ed in particolare l’Assicurazione sociale per

l’impiego (ASpI, ora NASpI): in tal caso può essere previsto l’affidamento del lavoratore ad un’Agenzia di

collocamento o di ric

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I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher shwepmag di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Diritto del lavoro e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università Cattolica del "Sacro Cuore" o del prof Occhino Antonella.