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La nullità, diversamente dal passato, non è assoluta, viste le ipotesi consentite di mobilità verso il basso, per

effetto dello jus variandi, della contrattazione collettiva e degli accordi individuati stipulati nelle forme e

nelle sedi individuate dal legislatore.

Capitolo 7: Diligenza, obbedienza, fedeltà, luogo e durata del lavoro

Diligenza, obbedienza e fedeltà

La diligenza come misura della prestazione

Le parti del rapporto di lavoro hanno precisi doveri nell’esecuzione dello stesso. Per quanto concerne il

lavoratore, la sua obbligazione principale consiste nello svolgimento delle mansioni assegnate in base alle

direttive ricevute secondo l’orario di lavoro concordato e nel luogo indicato dal datore di lavoro. Accanto a

questa obbligazione il codice civile pone ulteriori obblighi in campo al prestatore di lavoro che sono:

diligenza ed obbedienza.

La diligenza, cui si riferisce l’art. 2104 Cod. Civ. come l’art. 1176 cod. civ., per le obbligazioni in genere,

rappresenta il a)criterio di misura della prestazione dovuta dal lavoratore in quanto oggetto del’obbligazione

lavorativa è la prestazione diligente e b)un indice dell’adempimento della stessa.

Il primo parametro per indicare la diligenza richiesta al lavoratore è la natura della prestazione dovuta; ciò

impone il riferimento alla qualità del lavoro prestato, risultante dalle mansioni, dalle qualifiche o dai profili

professionali che la definiscono.

Si tratta di un giudizio di conformità della concreta prestazione svolta al modello astratto della prestazione

dovuta, che non si ferma al parametro della natura della prestazione, ma che viene esteso a due ulteriori

criteri (parametri):

- L’interesse superiore della produzione nazionale. Questo riferimento deve in realtà ritenersi abrogato con

la caduta de regime corporativo. Non pare discutibile infatti il suo stretto collegamento all’ideologia

corporativa e la sua incompatibilità con la libertà di iniziativa economica radicato nell’attuale ordinamento

costituzionale; né si può dire che valga a sostituirlo il criterio dell’utilità scoiale di cui all’art. 41 Cost.

- L’interesse dell’impresa. Il richiamo all’interesse dell’impresa fa sì che la diligenza del prestatore sia

valutata non soltanto con riferimento alle concrete modalità di svolgimento dell’attività allo stesso

assegnata, ma anche con riguardo alla complessiva attività da svolgere nell’organizzazione e alla

possibilità di utilizzare utilmente in questa la prestazione del singolo lavoratore.

Secondo la Suprema Corte, al fine di valutare l’esecuzione diligente della prestazione da parte del lavoratore,

assumono rilievo anche tutti quei comportamenti (es. dovere di custodia, non danneggiamento degli

strumenti) necessari alla migliore esecuzione delle mansioni affidate: l’obbligo di diligenza si sostanzia non

solo nell’esecuzione della prestazione lavorativa secondo la particolare natura di essa, ma anche

nell’esecuzione dei comportamenti accessori che si rendono necessari in relazione all’interesse del datore di

lavoro ad un’utile prestazione.

Il dovere di obbedienza

L’altra posizione del lavoratore cui fa riferimento l’art. 2104, viene definita come dovere, oppure obbligo di

obbedienza. Esso non costituisce un obbligo a sé, ma la conseguenza della posizione di soggezione giuridica

del lavoratore a fronte del diritto prestativo, noto come potere direttivo di cui è titolare il datore di lavoro.

In particolare l’obbedienza implica l’osservanza delle disposizioni impartite dall’imprenditore e dai

collaboratori di questo dai quali il lavoratore dipende per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro. L’effetto

che si produce in capo al lavoratore è l’obbligo di eseguire tali disposizioni con il fine di rendere la

prestazione di lavoro ragionevolmente integrabile nell’organizzazione dell’impresa.

Il dovere di obbedienza rappresenterebbe, insieme all’obbligo di diligenza, un criterio normativo per

valutare la correttezza dell’adempimento del prestatore.

Obbligo di diligenza e dovere di obbedienza hanno come funzione comune quella di delimitazione del

comportamento dovuto da lavoratore subordinato.

Il dovere di obbedienza, per la sua stretta correlazione al potere direttivo datoriale, risente direttamente dei

limiti legali e contrattuali posti all’esercizio di quest’ultimo. Lo Statuto dei lavoratori ha contribuito a favore

di un processo di spersonalizzazione del rapporto di lavoro tale da ridimensionare gli aspetti di soggezione

giuridica del prestatore. L’inserimento del lavoratore nell’impresa, non può più implicare un allargamento

della sua posizione debitoria a comportamenti che non siano ragionevolmente richiesti da esigenze

organizzative.

Il prestatore di lavoro potrà così legittimamente rifiutare l’esecuzione di disposizioni datoriali, se

(illegittime, in quanto) contrastanti con i limiti in parola, assumendosi il rischio di essere reputato

inadempiente qualora venisse accertata in giudizio la legittimità dell’ordine disatteso.

Inoltre, sul dovere di obbedienza influiscono anche le modifiche introdotte nell’organizzazione dell’impresa

in seguito alla evoluzione dei rapporti tra le parti collettive verificatasi negli ultimi decenni prevalentemente

con il sostegno legislativo. Si tratta di una razionalizzazione dell’esercizio discrezionale dei poteri, di un

allentamento della concezione esclusivamente gerarchica dell’organizzazione aziendale evidente.

L’obbligo di fedeltà: concorrenza e riservatezza

L’art. 2105, nonostante l’ambiziosa rubrica “obbligo di fedeltà”, non impone al lavoratore un obbligo di

fedeltà in senso proprio, ma configura specifici comportamenti omissivi, che vanno ad integrare quello di

prestazione.

L’art. 2105 prevede in capo al solo lavoratore due obblighi: obbligo di non concorrenza ed obbligo di

riservatezza che, secondo una operazione interpretativa sono specificazioni delle generali direttive della

correttezza e buona fede. Ambedue sono di contenuto negativo (obbligo di non fare) e finalizzati alla tutela

di un interesse del datore di lavoro distinto da quello primario alla prestazione di lavoro: l’interesse alla

capacità di concorrenza dell’impresa e alla sua posizione di mercato.

Gli obblighi previsti dall’art.2105 vengono a configurare obblighi accessori rispetto alla prestazione

principale di lavoro, ascrivibili alla categoria dei così detti obblighi di protezione, aventi la funzione di

proteggere gli interessi che le parti potrebbero vedere pregiudicati dall’instaurarsi di un rapporto obbligatorio

che espone le proprie sere giuridiche al periodo che l’attività della controparte può arrecare.

Si tratta di obblighi che si affiancano al rapporto obbligatorio principale, pertanto il rispetto dell’obbligo di

non concorrenza e riservatezza può essere richiesto anche in assenza di prestazione lavorativa.

Gli obblighi di non concorrenza e riservatezza sarebbero solo un richiamo esemplificativo di tutti quei

comportamenti ulteriori che per la loro natura e le loro conseguenze contrastano con le finalità e gli interessi

dell’impresa.

Il primo obbligo esplicitamente normato dall’art. 2105, quello di non concorrenza, implica l’astensione del

lavoratore da ogni attività in concorrenza che può essere esercitata tanto per conto proprio (con l’esercizio

dunque di una attività in concorrenza, imprenditoriale o anche solo in forma di prestazione d’opera), quanto

per conto di terzi (svolta cioè alle dipendenze o comunque in collaborazione di un’impresa concorrente a

quella del proprio datore di lavoro.

È un obbligo che impone al lavoratore l’astensione da un novero di comportamenti certamente più ampi di

quelli di cui al divieto di concorrenza sleale (art.2598). Infatti, nel divieto dell’art.2105 sono comprese anche

condotte concorrenziali perfettamente “leali” del lavoratore.

Rientrano nelle condotte vietate anche quelle che appaiono anche solo potenzialmente produttive di danni.

L’obbligo di non concorrenza ha vigore solo per la durata del rapporto di lavoro. La violazione di tale

obbligo è causa di inadempimento contrattuale e come tale disciplinarmente sanzionabile anche con il

licenziamento del lavoratore che si sia reso colpevole della sua violazione.

È possibile estendere il divieto di concorrenza ad un periodo successivo alla cessazione del rapporto,

stipulando un così detto patto di non concorrenza, di cui l’art. 2125 Cod. Civ. stabilisce i requisiti

essenziali che sono dettati da una parte al fine di non impedire completamente al lavoratore di poter esplicare

un’attività professionale dopo la cessazione del rapporto, e dall’altra al fine di garantire che la parziale

limitazione di libertà che il lavoratore accetta firmando il patto abbia un corrispettivo.

L’articolo prevede un limite di durata massima del vincolo (3 anni in generale, 5 per i dirigenti); il patto deve

avere la forma scritta ad substantiam e prevedere una delimitazione dell’ambito territoriale della sua validità

e dell’oggetto stesso; il patto inoltre prevede un corrispettivo a compenso della ridotta possibilità del

lavoratore di utilizzare le proprie capacità personali.

In caso di violazione del patto di non concorrenza da parte dell’ ex prestatore di lavoro, fermo restando il

risarcimento spettante al datore di lavoro danneggiato, è possibile chiedere l’emanazione di un

provvedimento giudiziale, che ordini al lavoratore la cessazione dell’attività concorrenziale illegittima.

L’altro obbligo, è quello di riservatezza. Sotto tutela del segreto aziendale sono comprese:

- Notizie di carattere organizzativo e produttivo

- Informazioni apprese dal dipendente non solo in ragione dello svolgimento delle mansioni proprie

ma anche in occasione del suo inserimento nell’impresa.

Un diffuso orientamento dottrinale e giurisprudenziale, tende ad escludere dal divieto le così dette notizie

soggettive (competenze e conoscenze professionali acquisite dal lavoratore nello svolgimento della propria

prestazione lavorativa), le quali andrebbero ad integrare il patrimonio professionale del dipendente dallo

stesso legittimamente utilizzabile.

Escluso dal divieto è da ritenersi inoltre l’utilizzo o la divulgazione di notizie non pregiudizievole per

l’impresa, per cui unicamente la propalazione o utilizzo di una notizia che possa arrecare anche solo

potenzialmente un danno alla posizione sul mercato dell’impresa rappresenta una condotta illecita.

Tale obbligo, come quello di non concorrenza, per il suo fondamento

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A.A. 2017-2018
141 pagine
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SSD Scienze giuridiche IUS/07 Diritto del lavoro

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher LeleAlbo di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Diritto del lavoro e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università Cattolica del "Sacro Cuore" o del prof Occhino Antonella.