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o MOBBING E DIRITTO ALLA PROFESSIONALITA’
I comportamenti vessatori di colleghi o superiori del lavoratore, comunque riconducibili a
responsabilità del datore di lavoro, hanno acquisito progressivo rilievo in una diversa e ulteriore
prospettiva: il mobbing.
Nelle aziende accade spesso che un dipendente è oggetto ripetuto di soprusi da parte dei superiori
o dei colleghi e, in particolare, vengono poste in essere nei suoi confronti pratiche dirette ad
isolarlo dall’ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui effetto è di
intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore, menomandone la capacità lavorativa e la
fiducia in se stesso e provocando la catastrofe emotiva, la depressione e talora persino il suicidio.
Un legame tra mobbing e molestia esiste, ed è rappresentato dal diritto fondamentale violato: la
dignità, e a sua volta il legame tra molestia e discriminazione pure sussiste.
Nel mobbing sono irrilevanti le ragioni del comportamento vessatorio, in via di principio; ciò non
esclude che quando il comportamento sia connesso a quelle caratteristiche identitarie del
lavoratore sulla cui base sono vietate le molestie, il mobbing sia qualificato (e sanzionato) come
molestia (o discriminazione), con tutte le conseguenze che ne possono derivare sul piano
probatorio.
Il mobbing è generalmente definito come quel comportamento, reiterato nel tempo, da parte di
una o più persone, colleghi o superiori della vittima, teso a respingere dal contesto lavorativo il
soggetto “mobbizzato” che, a causa di tale comportamento in un certo arco di tempo, subisce
delle conseguenze negative anche di ordine fisico.
Il mobbing si compone di:
Un elemento oggettivo consiste in ripetuti soprusi posti in essere da parte dei colleghi o
di superiori e, in particolare, in pratiche, che possono essere di per sé legittime sebbene
biasimevoli, dirette a danneggiare il lavoratore e a determinare l’isolamento all’interno del
contesto lavorativo;
Un elemento psicologico il quale consiste oltre che nel dolo generico anche nel dolo
specifico di nuocere psicologicamente al lavoratore, al fine di emarginarlo.
di tale condotta vessatoria deve essere chiamato a rispondere il datore di lavoro, essendo questi
tenuto a garantire l’integrità psicofisica dei propri dipendenti.
Alcune forme di mobbing, o alcuni strumenti utilizzati per vessare i lavoratori, sono già oggi
illegittimi, senza che sia necessaria una nuova legge a sancirne l’illegittimità.
Il caso tipico è quello del demansionamento del lavoratore. A quest’ultimo è riconosciuto il diritto
inderogabile alla professionalità, sancito e regolato dall’art. 13 St. lav.
Il mobbing può anche non toccare la professionalità (demansionamento). Il mobbing interessa il
maltrattamento della persona, che offende la dignità della persona. Il diritto alla professionalità è
un’altra cosa.
Posso avere un buon trattamento professionale ma non personale, o viceversa, averli entrambi o
nessuno dei due. È possibile che a livello statistico ci sia una sovrapposizione dei due
maltrattamenti, è che spesso capitano insieme (ma sono e restano due cose diverse).
I DIRITTI SINDACALI 105
Dando concreta attuazione all’art. 39, comma 1, Cost., lo Statuto dei lavoratori conferisce al
singolo lavoratore una serie di diritti di libertà e di attività sindacale, che aprono uno spazio di
“agibilità” sindacale all’interno del luogo di lavoro.
Secondo l’art. 28, comma 1, St. lav., si è in presenza di Che differenza c’è tra libertà
una condotta antisindacale ogniqualvolta il datore di sindacale e un diritto sindacale?
lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad Un conto è avere la libertà di fare
impedire o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività qualcosa, se non c’è un divieto io
sindacale nonché del diritto di sciopero. sono libero di fare quello che
Comportamento “diretto” non vuole dire voglio, diverso è se si ha un diritto,
intenzionalmente diretto a ledere i beni protetti, ma in questo caso vuol dire che c’è una
oggettivamente idoneo a produrre la lesione di tali beni, legge che prevede quella
senza che sia necessario accertare la presenza di uno determinata cosa.
specifico intento lesivo.
Il ricorso al Tribunale deve essere proposto dagli organismi locali delle associazioni sindacali
nazionali che vi abbiano interesse, sono questi dunque i soggetti ai quali la legge ha conferito la
legittimazione (esclusiva) ad agire in giudizio. A rispondere della condotta contestata sarà in ogni
caso il datore di lavoro (anche se il comportamento antisindacale sia stato posto in essere da un
suo dipendente).
I “beni protetti” dall’art. 28 sono la libertà, l’attività sindacale, il diritto di sciopero: diritti che
spettano sia ai lavoratori, come singoli e come affiliati ad un’organizzazione sindacale, sia
all’organizzazione sindacale in quanto tale. Poiché legittimato ad agire è solo il sindacato,
l’interesse ad agire è necessariamente un interesse collettivo, perciò riferibile al sindacato e non al
singolo lavoratore.
Ogni atto o comportamento idoneo a colpire o impedire o limitare la libertà e l’attività sindacale
lede l’interesse collettivo di cui è portatore il sindacato, anche quando si concretizza nella lesione
diretta e immediata di un interesse individuale del singolo lavoratore.
Dal punto di vista sostanziale, la condotta antisindacale può essere plurioffensiva, nel senso che
può determinare contemporaneamente la lesione sia dell’interesse collettivo di cui è portatore il
sindacato, sia dell’interesse individuale del lavoratore colpito. Dal punto di vista processuale
l’interesse giuridicamente rilevante è però il solo interesse collettivo.
o DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE SINDACALE
Il primo dei diritti sindacali è quello alla libertà di affiliazione. L’art. 15 St. lav. (atti discriminatori)
sancisce anzitutto la nullità di qualsiasi patto o atto diretto a subordinare l’occupazione di un
lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad un’associazione sindacale, ovvero cessi
di farne parte.
Il seconda comma dello stesso articolo sancisce inoltre la nullità di qualsiasi atto o patto diretto a
licenziare un lavoratore, discriminarlo nell’assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti,
nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della partecipazione ad uno
sciopero.
La discriminazione di carattere sindacale può avvenire, da parte del datore di lavoro, non solo
privando il prestatore di lavoro di particolari benefici o arrecandogli comunque danno, bensì,
molto più sottilmente, attribuendo particolari benefici ai lavoratori che tengano un determinato
comportamento e condizionandoli, così, nell’esercizio della libertà sindacale. Proprio per questo
motivo l’art. 16 St. lav. vieta al datore di lavoro di concedere trattamenti economici collettivi di
maggior favore aventi carattere discriminatorio per ragioni sindacali.
Il trattamento economico ha carattere collettivo quando sia diretto ad avvantaggiare non il singolo
lavoratore ma alcuni lavoratori individuati o un gruppo individuabile di essi.
106
o ATTIVITA’ DI PROSELITISMO E CONTRIBUTI SINDACALI
Con attività di proselitismo e di collettaggio si intendono le attività che i singoli lavoratori svolgono
a favore delle loro organizzazioni sindacali, e per questo l’art. 26 è considerato una disposizione di
sostegno non delle RSA (o della RSU), ma di qualunque sindacato, che può essere beneficiario
dell’attività svolta dai lavoratori a suo favore, senza che per svolgerla debbano o possano in alcun
modo intervenire le RSA o la RSU, e neppure il sindacato beneficiario.
Il diritto di proselitismo è il diritto di fare proseliti (cioè comunicazioni orali); fare proseliti vuol
dire fare dei seguaci e condividere un’idea. Tale diritto non ha limiti; tuttavia, è necessario
rispettare il normale andamento aziendale.
L’attività di proselitismo e collettaggio sindacale tutelata dall’art. 26 incontra il limite del normale
svolgimento dell’attività aziendale, espressamente sancito dallo Statuto dei lavoratori solo per
queste attività e non per altre. Lo svolgimento dell’attività di proselitismo e di collettaggio da parte
dell’attivista sindacale deve evitare turbative all’attività degli altri lavoratori e all’organizzazione.
o DIRITTO DI ASSEMBLEA
L’assemblea ha la funzione di consentire ai lavoratori di partecipare all’elaborazione delle politiche
contrattuali e delle decisioni sindacali. La partecipazione non è limitata ai soli lavoratori iscritti al
soggetto sindacale che ha convocato l’assemblea, ma è aperta a tutti i lavoratori occupati
nell’unità produttiva, compresi quelli il cui rapporto di lavoro è sospeso; sono titolari del diritto
anche i lavoratori somministrati, i lavoratori intermittenti nei periodi di effettivo lavoro, i soci di
cooperativa con rapporto di lavoro subordinato. Se l’assemblea tratta dei temi in cui è coinvolto il
manager può andare mentre in caso contrario non può partecipare.
Il diritto di assemblea viene sancito dall’art. 20 St. lav.: ogni rappresentanza sindacale
“privilegiata” può convocare un’assemblea nei locali, e il datore è obbligato a dare un locale
adeguato. Ogni lavoratore può partecipare a queste assemblee per 10 ore lavorative retribuite
all’anno.
Una volta che un dipendente raggiunge il monte di 10 ore, è possibile adottare un escamotage:
dopo le 10 ore il lavoratore può andare alle assemblee fuori orario e fuori dall’azienda, tuttavia è
permesso partecipare anche alle assemblee fuori orario ma all’interno dell’azienda. Vi è un
ulteriore precisazione però, perché anche qualora il lavoratore è disposto a rinunciare alla
retribuzione egli non potrà partecipare all’assemblea.
È possibile tuttavia, invocare l’assemblea durante uno Secondo la Cassazione, il monte ore
sciopero; cosicché chi aderisce allo sciopero potrà (dieci ore retribuite) è attribuito non ai
partecipare all’assemblea (sciopero bianco = sciopero singoli lavoratori, ma alla “generailtà”
effettuato all’interno dei locali dell’azienda). dei lavoratori e quindi alle RSA o alla
La partecipazione dei lavoratori è proporzionale a quante RSU che