Riassunto esame Diritto Costituzionale, prof. D'Atena, libro consigliato Lezioni di Diritto Costituzionale, Crisafulli
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CAPITOLO PRIMO: GLI ORDINAMENTI GIURIDICI
Dire gruppo sociale organizzato significa dire gruppo ordinato, secondo
determinate norme e regole che sono al tempo steso prodotto e condizione
necessaria dell’esistenza stessa del gruppo. Si delineano così i cosiddetti gruppi
allo stato diffuso, costituiti da serie aperte e indeterminate di soggetti
perseguenti fini uguali e paralleli e operanti attraverso comportamenti
uniformi, secondo certe regole tradizionalmente accolte e osservate. Queste
forme di generica aggregazione solo eventualmente presentano i caratteri di
veri gruppi sociali propriamente organizzati: anche se in qualche modo
ordinate non sempre e non tutte sono ancora ordinamenti, non costituiscono
cioè veri enti sociali. Affinché si abbia un ordinamento sociale si richiede:
• Una certa stabilità, oggettivamente rilevabile, del gruppo e della sua
organizzazione. Ne segue che gli ordinamenti hanno una loro
dimensione temporale durevole in ciò distinguendosi da un ordine
sociale momentaneo;
• Si richiede inoltre qualcosa di più, con riferimento all’elemento
morfologico dell’organizzazione. Si vuole alludere all’idea di un vincolo
associativo più stretto e compatto, tale da dar vita ad un fenomeno
sociale realmente unitario.
Bisogna quindi che l’appartenenza al gruppo sia stabilmente predeterminata;
bisogna poi che il gruppo abbia una sua organizzazione nel senso di
distribuzione ordinata di compiti e mansioni con connessa predisposizione di
mezzi materiali per il loro assolvimento. La collettività così diventa un ente che
non si risolve in mero aggregato di soggetti, ma tutti li sovrasta e in qualche
modo li trascende.
L’ordine sociale appare come ordine esistenziale: c’è una determinata
organizzazione perché è storicamente riscontrabile lo svolgersi di un complesso
di attività umane secondo un ordine particolare. Ma quest’ordine esistenziale
non è se non la proiezione di un ordine deontologico, ossia normativo: non è
per una necessità di tipo naturalistico che quei rapporti sociali si atteggiano e si
svolgono in un determinato modo, ma per una necessità di tipo deontologico.
L’ordine c’è perché e in quanto deve esserci, configurandosi come un ordine
imposto che si è tenuti ad osservare e mantenere. Come il mondo della natura
ci si disegna ordinato secondo le leggi (naturali), così egualmente l’intero
mondo della pratica ci si rivela governato da leggi che sono in gran parte, ma
non tutte, leggi della vita di relazione ossia leggi sociali. Non si deve
concordare con la teoria imperativistica, piuttosto appare preferibile la tesi che
considera le norme giuridiche come giudizi su contegni umani, cui conferiscono
una specifica rilevanza, con il ricollegarvi conseguenze giuridiche determinate.
Astratte valutazioni di fatti astrattamente tipizzati: giudizi e valutazioni
vincolanti per tutti coloro che sottostanno all’ordinamento.
Ogni gruppo sociale, in tutto o in parte autorganizzantesi, è un ordinamento
nel duplice senso di complesso di soggetti tra loro ordinati e di sistema
regolatore della vita di relazione in cui il gruppo consiste e che in esso
ulteriormente si svolge. Ordinamenti siffatti sono per ciò stesso ordinamenti
giuridici e giuridiche sono le regole o norme che producono e nelle quali si
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manifesta il loro ordine interno. Accogliamo così l’insegnamento delle dottrine
che riconoscono la pluralità degli ordinamenti giuridici e quindi la socialità del
diritto (ubi homo ibi societas, ubi societas ibi ius) in contrapposto alla
concezione tradizionale della statalità del diritto, che circoscrive il campo della
giuridicità ai soli ordinamenti statali.
I caratteri differenziali delle norme giuridiche dalle altre norme di condotta:
• Secondo un’antica tradizione di pensiero che si vuole far risalire a
Thomasius, quel che essenzialmente distingue il diritto dalla morale è il
carattere della esteriorità, che significa: a) che la norma giuridica, a
differenza della legge morale, si configura come esterna al soggetto e
contrapposta alla sua volontà; b) che la norma giuridica ha per suo
primo e naturale oggetto l’azione, in quanto compiuta, “mai il volere un
fatto o un avvenimento” (Esposito) e anche quando ha riguardo ai
motivi del volere e in genere agli stati psichici dl soggetto, li assume in
quanto oggettivati nell’azione ed esteriormente riconoscibili, e
comunque sempre come elementi e contrassegni dell’azione, suscettibili
di caratterizzarla in uno o in altro modo. In termini kantiani: il diritto si
contenta di un’azione conforme al dovere, mentre la norma morale deve
essere ubbidita per se stessa con l’adesione interiore del soggetto.
• Non è possibile fondare il criterio differenziatore neanche sui caratteri
della generalità e dell’astrattezza.
• Criterio differenziatore che nonostante le critiche trova ancora largo
credito in dottrina è quello della coercibilità, o meglio della sanzione.
Le norme giuridiche sarebbero cioè suscettibili di attuazione forzata
(coercibili) e comunque garantite dalla predisposizione per l’ipotesi di
trasgressione, di una conseguenza sfavorevole (sanzione) la minaccia
della quale si traduce a sua volta in una forma di coazione psicologica.
Ma anche nei moderni ordinamenti statali non tutte le singole norme
sono coercibili o puntualmente sanzionate. D’altro lato forme di
sanzione o anche di vera e propria coercibilità materiale, si rinvengono
del pari in ordinamenti sociali non riconducibili al tipo degli ordinamenti
statali: sanzione è anche l’autotutela degli ordinamenti primitivi,
sanzioni mondane e ultramondane accompagnano di solito i precetti
delle varie religioni positive; sanzioni molteplici ci si presentano ed
operano nei partiti politici, nelle associazione sindacali, sportive e in altri
gruppi associativi e persino nelle associazioni a delinquere. Sanzione e
coazione non sono dunque contrassegni differenziali di certe norme
soltanto, ma possibili contenuti di norme la cui struttura rimane identica
a quella di ogni altra.
• Stando all’assunto la bilateralità dovrebbe intendersi come simmetrica
corrispondenza tra l’obbligo di un soggetto e il diritto di un altro,
sempre e necessariamente risultante dalla norma giuridica. La quale si
caratterizzerebbe dunque perché istitutiva di una tale regolarità o
interdipendenza di comportamenti: la necessità di agire (o non agire) di
una parte essendo in funzione di una possibilità di agire (o non agire) o
dei pretendere dell’altra; mentre la legge morale, anche nel valutare le
nostre azioni nei confronti degli altri, si esaurisce nel porre doveri a
ciascuno, senza attribuire in relazione ad essi facoltà o pretese di sorta.
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La facile e fondata critica è che questa tesi non farebbe che
assolutizzare un particolare fenomeno di un particolare e limitato
settore dell’esperienza giuridica, quale è appunto il rapporto giuridico
nel diritto privato, se non addirittura lo schema del rapporto obbligatorio
civilistico. Non tutta l’esperienza di un ordinamento statale è
riconducibile al rapporto come connessione tra diritto e obbligo, non
tutte le norme che formano un ordinamento si concreano
nell’attribuzione di diritti e obblighi e meno ancora nella simultanea
attribuzione di un diritto e di un obbligo reciprocamente interdipendenti.
Qualunque carattere si voglia ritenere qualificante la giuridicità di una norma, il
risultato cui si perviene non va oltre la distinzione tra norme sociali e norme
non sociali, senza che sia possibile ricavare alcun criterio suscettibile di
delimitare entro il genus delle norme sociali una categoria di norme definibili,
esse soltanto, giuridiche. Tutt’al più è possibile su questo terreno restringere la
nozione di ordinamento giuridico a quelli pervenuti alla fase organica, nei quali
sia ravvisabile, cioè, un’organizzazione differenziata e articolata.
Fin qui abbiamo dato per pacifica e scontata la premessa che ogni ordinamento
sociale e quindi giuridico si presenti sotto il duplice aspetto e di ordinamento di
soggetti e di ordinamento normativo e che dunque il diritto, in senso oggettivo,
sia norma o complesso di norme, sistema regolatore di una convivenza
associata. Dobbiamo adesso dar conto dell’opposta concezione, sostenuta da
Romano, del diritto come istituzione, intesa quest’ultima come ente o corpo
sociale più o meno stabilmente organizzato. Romano fa consistere il diritto nel
fatto stesso della istituzione. Qui è la grossa novità apportata da questa
famosa dottrina, laddove la tesi della pluralità degli ordinamenti giuridici, lungi
dal costituirne una particolare caratteristica è comune ad altre concezioni
moventi dal più consueto modo di intendere il diritto come norma o complesso
di norme. Il vero punto differenziale della dottrina del Romano sta nel concetto
che il diritto non è, o non è anzitutto ed essenzialmente, fenomeno normativo,
ma modo d’essere della realtà sociale: Sein e non Sollen, ordine esistenziale e
non ordine deontologico, le norme rappresentando soltanto delle
manifestazioni secondarie e derivate. Onde l’equazione diritto = istituzione.
La concezione del diritto come istituzione ha fortemente contribuito a
rafforzare le dottrine pluralistiche. E’ da ascriversi tra gli sviluppi interessanti
della concezione pluralistica la problematica dei cosiddetti ordinamenti interni:
attributo questo da intendersi in relazione ad un ordinamento maggiore e
superiore (l’ordinamento statale) al quale i primi sarebbero subordinati,
restandone però distinti. La formula degli ordinamenti interni vuole alludere
per antonomasia ad una particolare figura di ordinamenti, che sarebbero
interni rispetto all’organizzazione centralizzata, detentrice dell’autorità nei
moderni ordinamenti statali: questa stessa organizzazione, complessivamente
considerata, o anche singole sue parti o articolazioni, guardate dal di dentro,
darebbero vita ad altrettanti ordinamenti, in sé giuridici, sebbene privi di
rilevanza nell’ordinamento generale. La figura degli ordinamenti interni sarà
riscontrabile solo dove l’entità organizzatoria sia in grado di autoregolarsi, sia
pur parzialmente, attraverso fonti proprie. La teoria degli ordinamenti interni
sbocca nella conclusione che le norme interne (quanto alla fonte oltre che
quanto all’oggetto) non sono direttamente rilevanti come norme
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nell’ordinamento generale, non entrano cioè a far parte del diritto oggettivo
dello Stato allo stesso modo come non fanno diritto le norme dell’ordinamento
privato. Gli ordinamenti interni non si amalgamano e fondono con
l’ordinamento generale. Sotto ogni altro profilo è inammissibile parlare degli
ordinamenti interni come ordinamenti separati da quello generale dello Stato:
si tratta invece di articolazioni differenziate dell’ordinamento complessivo e
perciò tutt’al più di ordinamenti speciali nell’ambito dei quali si producono
norme e possono esplicarsi attività che non rilevano direttamente
nell’ordinamento generale.
Il concetto della pluralità degli ordinamenti giuridici trova il suo correttivo e il
suo limite nel canone della relatività dei valori giuridici: un medesimo fatto,
uno stesso comportamento possono ricadere nell’ambito di ordinamenti diversi
ed essere da ciascuno di questi valutati in modo e con effetti diversi, anche
contrastanti. Quel che è lecito per il diritto italiano può essere illecito per il
diritto di un altro Stato o per il diritto della Chiesa. Per le scienze giuridiche
dogmatiche che quel che conta unicamente sono le valutazioni disposte
dall’ordinamento considerato. Anche l’idoneità di un fatto è suscettibile di
essere riconosciuta o negata da norme (le norme sulle fonti) dell’ordinamento
dato.
Il canone della relatività dei valori giuridici storicamente si concretizza nel
riconoscimento che ogni ordinamento esplicitamente o implicitamente dispone
delle proprie fonti, come strumenti cioè idonei a porre norme costitutive del
proprio diritto. Ci si imbatte così nella problematica delle fonti del diritto (forme
e modi di produzione del diritto). La determinazione dei fatti suscettibili di
essere considerati, in sede di teoria generale, normativi, e quindi fonte di
diritto, ci rimanda ai concetti di diritto oggettivo e di norma giuridica. Se si
dilata la figura della norma giuridica comprendendovi anche il precetto del caso
singolo, il genus dei fatti normativi si allarga a sua volta. Mettendo invece
l’accento sull’attitudine delle norme a formare ordinamento, e cioè ad
oggettivarsi distaccandosi dai fatti di loro creazione, per porsi come regole
stabili per il futuro, dovranno considerarsi normativi i soli fatti che esprimano
norme generali, nel senso della ripetibilità nell’ordine temporale, intesa come
possibilità di indefinita applicazione. Ma da un lato una parte soltanto dei fatti
qualificabili in sede di logica astratta normativi sono dal singolo ordinamento
riconosciuti come proprie fonti; dall’altro lato è anche possibile che un
determinato ordinamento assuma tra le proprie fonti fatti che teoricamente
non sono normativi. Nel quadro di un ordinamento dato le fonti sono anzitutto,
fatti assunti ad oggetto di valutazione da parte di altre norme, che ne
determinano i contrassegni e attribuiscono ad essi idoneità a creare diritto
(sono cioè fatti e atti giuridici, perché regolati da norme giuridiche, delle quali
costituiscono la fattispecie, al realizzarsi della quale è riconnessa la
conseguenza dell’esserci le norme da essi prodotte). In conclusione, sotto il
profilo dommatico e cioè alla stregua di un ordinamento dato, per accertare se
determinate norme esistano come norme di diritto oggettivo, è necessario
previamente accertare se siano state poste da fatti legittimati dalla costituzione
quali fonti del diritto stesso. Fonti e norme si determinano cioè in base ad un
criterio formale e legalistico: sono o non sono tali a seconda che così risulti
disposto dalle norme costituzionali vigenti.
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CAPITOLO SECONDO: STATO E COSTITUZIONE
All’osservazione empirica il fenomeno Stato si presenta come un gruppo sociale
indipendente a base territoriale fissa, stabilmente ordinato attorno ad un
centro di potere suo proprio che, mentre non dipende a sua volta da alcuna
autorità, si afferma al tempo stesso nell’ambito spaziale-temporale del gruppo,
come superiore ad ogni altro possibile potere, indipendenza e preminenza del
potere statale e indipendenza del gruppo complessivo si implicano a vicenda e
implicano altresì che l’ordine normativo del gruppo sia originario, vale a dire
incondizionato, autolegittimantesi e virtualmente illimitato. Queste attestazioni
si rispecchiano nella definizione dello Stato come ente territoriale sovrano;
dove con il riferimento alla nozione di sovranità si ha riguardo di solito così
all’indipendenza della comunità ordinata a Stato, come all’originarietà del
suo ordinamento normativo, come infine all’indipendenza, verso l’esterno, e
alla supremazia verso l’interno, dell’autorità che ne costituisce il centro
unitario di potere. Di qui la tradizionale configurazione dei cosiddetti elementi
costitutivi dello Stato: popolo, territorio, sovranità:
L’elemento popolo null’altro significa che l’esserci collettività. L’essere
collettività ordinantesi e ordinata accomuna il fenomeno statale ad ogni altro
della vita associata. Lo Stato è invece sicuramente l’unico tipo di ordinamento
ad un tempo territoriale e sovrano.
La descrizione e le definizioni dello Stato fin qui accennate hanno specifico
riguardo allo Stato modernamente inteso, corrispondendo ad una fase storica
della quale si può convenzionalmente assumere come punto di partenza la
pace di Westfalia (1648): poiché questa ebbe a segnare la cessazione anche de
iure, di ogni superstite vincolo di subordinazione delle grandi monarchie
nazionali rispetto all’Impero e alla Chiesa di Roma e perciò la divisione del
mondo civile in una pluralità di Stati, tra loro giuridicamente pari e
reciprocamene indipendenti.
I gruppi politici sono a fini generali, nel senso di virtualmente illimitati,
insuscettibili di una rigida predeterminazione: essi perciò non cambiano natura
con il cambiare dei fini. Gli ordinamenti politici sono detti anche generali
essendo in grado di determinare un ordine totale (e al limite totalitario) della
convivenza, regolando le più svariate espressioni della vita individuale e
associata, sino ad avvolgere integralmente dalla nascita alla morte, coloro che
ne fanno parte.
Analisi del fenomeno statale:
• Il popolo: è gruppo politico nel senso di gruppo a fini generali. Ma con
ciò stesso si viene a richiamare la nozione di sovranità, perché senza
pienezza di autodeterminazione, non sarebbe concretamente possibile la
libera scelta dei fini da perseguire. E si affaccia anche il riferimento al
territorio perché secondo autorevoli dottrine politici sarebbero tutti gli
enti territoriali proprio perché ed in quanto territoriali. Soltanto la
comune, stabile e generale sottoposizione ad un potere effettivo e
indipendente costituisce una qualsiasi collettività umana in popolo
propriamente detto: non bastando il manifestarsi di interessi comuni, né
la presenza di fattori unificanti poiché tutte queste circostanze possono
ricorrere senza che ci sia l’unità statale o possono trascenderne l’ambito.
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DESCRIZIONE APPUNTO
Riassunto per l'esame di Diritto Costituzionale, basato su appunti personali e studio autonomo del testo Lezioni di Diritto Costituzionale, Crisafulli consigliato dal docente D'Atena. Tra gli argomenti trattati vi è il concetto di gruppo sociale organizzato e di gruppo ordinato secondo determinate norme e regole, prodotto e condizione necessaria dell’esistenza stessa del gruppo.
I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher nadia_87 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Diritto costituzionale e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Tor Vergata - Uniroma2 o del prof D'Atena Antonio.
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