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La libera circolazione delle persone
La libera circolazione delle persone è stata prevista originariamente dal Trattato CEE ed ha trovato applicazione sino al Trattato di Maastricht del 1992 (entrato in vigore il 1 novembre 1993) come legata alla realizzazione del mercato unico. Per quanto riguarda la circolazione delle persone fisiche essa era prevista a favore dei cittadini degli Stati membri solo sotto la forma di una libertà di questi di circolare come lavoratori all'interno della Comunità e come libertà degli stessi di prestare servizi e di stabilirsi nell'intero territorio comunitario. Ciò perché la libera circolazione dei lavoratori e le libertà di prestazione di servizi e di stabilimento, e solo esse, erano originariamente previste come elementi essenziali per l'instaurazione di un mercato unico. Per quanto riguarda i lavoratori
l'articolo 39 del Trattato, al secondo paragrafo, specifica a favore di essi il divieto generale di discriminazione contenuto nell'articolo 12 CE, secondo cui nell'applicazione del Trattato CE è vietata qualsiasi discriminazione effettuata in base alla nazionalità degli Stati membri. Tale paragrafo puntualizza che la libertà di circolazione implica l'abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l'impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro. II. - Il divieto di qualsiasi discriminazione per quanto riguarda le condizioni di lavoro sancito dal secondo paragrafo dell'art. 39 CE L'ampiezza della specificazione, per quanto riguarda i lavoratori, del principio di non discriminazione così contenuta nel secondo paragrafo dell'art. 39 ha consentito alla Corte di giustizia di procedere ad un chiarimento molto importante per quanto riguarda.riguardala materia del lavoro, che non è disciplinata solo da leggi dello Stato e da contratti individuali. L'occasione le è stata fornita da un rinvio pregiudiziale fattole da giudici olandesi nel caso Warlave e Koch. In tale caso era stato impugnato davanti a quei giudici il regolamento dell'Unione Ciclistica Internazionale (UCI) disciplinante i campionati mondiali di gare di mezzofondo nelle quali i ciclisti corrono dietro motociclette. I signori Warlave e Koch avevano impugnato questo regolamento perché esso impediva loro di partecipare a gare in cui fungevano da allenatori di atleti aventi la nazionalità di uno Stato membro diversa dalla loro. I giudici olandesi avevano chiesto alla Corte se il principio di non discriminazione basato sulla cittadinanza degli Stati membri [attualmente sancito dall'art. 12 CE] dovesse essere rispettato anche da un tale regolamento; la Corte, ha così risposto alla richiesta fattale con la sentenza che hareso il 12 dicembre 1974: "l'abolizione fra gli Stati membri degli ostacoli alla libera circolazione delle persone [edella libera prestazione dei servizi] sarebbe compromessa se oltre alle limitazioni stabilite da norme statali non si eliminassero anche quelle poste da associazioni o organismi non di diritto pubblico nell'esercizio della loro autonomia giuridica. Inoltre, poiché nei vari Paesi membri la prestazione del lavoro è disciplinata talvolta da norme emanate dallo Stato, talvolta da contratti o atti di natura privatistica [come è il Regolamento UCI], se il divieto sancito dal diritto comunitario avesse valore unicamente per gli atti della pubblica autorità, potrebbe scaturirne una difformità di applicazione" (punti 16-19), cioè un'applicazione non uniforme di tale divieto.
COMMENTO: Questa affermazione è importante perché il mercato unico richiede l'uniforme applicazione del diritto comunitario.
È per far fronte a questa esigenza che l'art. 234 prevede che i giudici nazionali quando si trovano di fronte a problemi di interpretazione del diritto comunitario possano o debbano chiedere alla Corte una sentenza pregiudiziale e siano tenuti a seguire l'interpretazione data al diritto comunitario da tale sentenza.
Questa posizione la Corte ha ribadito in una sentenza pregiudiziale che ha reso il 6 giugno 2000 su richiesta di un giudice italiano in relazione ad una causa promossa davanti a questo da un cittadino italiano di lingua tedesca, il sig. Angonese. Il sig. Angonese si era candidato ad un concorso per un posto di lavoro presso la Cassa di risparmio di Bolzano e aveva visto la sua candidatura respinta in quanto non era in possesso di un attestato di bilinguismo (italiano/tedesco) rilasciabile unicamente dalla Provincia di Bolzano. Nel procedimento italiano il sig. Angonese aveva sostenuto che il rigetto della sua candidatura era in contrasto con la libera circolazione.
Dei lavoratori, sancita dall'attuale articolo 39, aveva sostenuto che la richiesta dell'attestato prevista dal bando determinava una discriminazione basata sulla nazionalità in quanto favoriva i cittadini di altri Stati membri che avrebbero potuto ottenere difficilmente l'attestato richiesto perché questo poteva essere rilasciato solo dalla Provincia di Bolzano a seguito di un esame che si svolgeva unicamente in questa provincia.
La banca convenuta in giudizio in Italia eccepiva che il requisito del possesso dell'attestato in questione era previsto dal contratto nazionale collettivo di lavoro delle Casse di risparmio. Con ciò voleva precisare che essa non aveva inteso dare luogo ad una discriminazione ma solo applicare una regola impostale da quel contratto collettivo.
La Corte di giustizia ha considerato che l'argomento avanzato dalla banca non escludesse l'incompatibilità con il diritto comunitario del comportamento lamentato dal sig.
Angonese; ha ribadito che il divieto di discriminazioni basate sulla cittadinanza riguarda non solo gli atti dell'autorità pubblica, ma anche le norme di qualsiasi natura dirette a disciplinare collettivamente il lavoro subordinato e le prestazioni di servizi (punti 29 e 31). Sulla base di tali premesse di carattere generale la Corte ha ritenuto fondata la doglianza circa il carattere discriminatorio della norma del contratto collettivo applicato dalla Cassa di Risparmio di Bolzano: lo ha fatto anche perché ha rilevato che la maggioranza dei residenti nella provincia di Bolzano sono cittadini italiani e, di conseguenza, "l'obbligo di ottenere l'attestato richiesto sfavorisce i cittadini degli altri Stati membri rispetto a questi ultimi". I cittadini di altri Stati membri non vi è dubbio che incontrino difficoltà a sostenere un esame a Bolzano molto maggiori rispetto a cittadini italiani residenti in quella provincia. È interessantenotare che mentre nella sentenza Walrave la Corte ha ritenuto incompatibile con il principio di discriminazione sancito dall'art. 39 un atto risultante dall'esercizio dell'autonomia privata (il regolamento UCI) dante luogo direttamente ad una tale discriminazione, nella sentenza Angonese essa ha ritenuto incompatibile con tale disposizione CE anche una disposizione contenuta in un contratto collettivo che dava luogo ad una discriminazione indiretta rendendo difficoltosa la partecipazione ad un concorso per un posto in banca di persone non residenti nella provincia di Bolzano. III. - L'arricchimento che la Corte di giustizia ha apportato al disposto del terzo paragrafo dell'art. 39 CE per quanto riguarda il diritto del lavoratore al soggiorno ed al ricongiungimento familiare. Il paragrafo 3 dell'articolo 39 CE precisa che la libertà di circolazione dei lavoratori importa il diritto: a) di rispondere ad offerte di lavoro effettive; b) di spostarsi.liberamente a tal fine nel territorio degli Stati membri;reso il 12 maggio 1998 nella causa Martinez Sala, ha attribuito a tale carta un carattere "puramente dichiarativo"; ha puntualizzato che "il diritto di soggiorno è acquisito dal lavoratore in forza delle disposizioni del diritto comunitario indipendentemente dal rilascio, da parte della competente autorità dello Stato membro, di un permesso di soggiorno" (punti 53 e seguenti). Questo è importante perché prima di tale sentenza i cittadini di uno Stato membro, compresi quelli qualificabili come lavoratori, se trovati in un altro Stato membro sprovvisti di carta di soggiorno venivano sottoposti a sanzione.
Non meno rilevante è l'integrazione, rispetto a quanto direttamente previsto dal paragrafo 3 dell'articolo 39, che la Corte ha introdotto nell'applicazione concreta del diritto comunitario pronunciandosi il 17 aprile 1986, nella causa Reed. Nel caso la Corte si è pronunciata con una sentenza pregiudiziale su richiesta
della Hoge Raadolandese. Di fronte alla Hoge Raad una cittadina britannica che svolgeva attività lavorativa nei Paesi Bassi, a fini di ricongiungimento familiare, aveva chiesto il rilascio ad un cittadino britannico, con essa convivente da 5 anni, di un permesso di soggiorno ai sensi dell'art. 9 del regolamento 1612/68: un articolo, questo, che attribuisce a un cittadino di uno Stato membro occupato in un altro Stato membro il diritto di vedere riconosciuto al proprio coniuge il diritto di stabilirsi anch'esso in questo secondo Stato. La Corte, ha ritenuto che mancasse "qualsiasi indizio di un'evoluzione sociale di carattere generale atta a giustificare un'interpretazione estensiva" della parola "coniuge" utilizzata da detto articolo del regolamento, ed ha escluso che questo potesse trovare applicazione nel caso di specie; ha però ritenuto che nella situazione sottoposta alla sua considerazione dovesse trovare applicazione l'articolo 7.