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L’eccezione di inadempimento si applica solitamente ai contratti di scambio. Un eccezione del
genere non avrebbe senso nel contratto di società ma si potrebbe comunque applicare nei confronti
di un socio che non esegue la sua prestazione.
Alla società si applicano tutta una serie di regole particolari dei contratti associativi come la nullità
dei contratti plurilaterali.
Nullità del contratto che può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse e in ogni tempo. In
ambito societario non è così perché si vuole garantire la certezza nei traffici commerciali che
sarebbero pregiudicati dalla possibilità di annullare sempre alcune delibere. È previsto quindi che se
il contratto di società è viziato, se ciononostante è registrato presso il registro delle imprese non può
più essere dichiarato nullo. In più per sciogliere la società è di regola previsto un particolare
procedimento di scioglimento. Quindi l'attività della società e il contratto di società non può essere
dichiarato invalido dall'oggi al domani.
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Differenze tra contratto di società o associativi e contratti di scambio.
Uno degli aspetti più critici delle società di persone è quello che attiene allo scioglimento della
partecipazione sociale limitatamente ad un socio.
Fin dai tempi dell'antica Roma si riteneva che nelle società di persone lo scioglimento del singolo
rapporto sociale comportasse in automatico lo scioglimento della società.
Le società di persone si caratterizzano per la responsabilità illimitata dei soci, salve particolari
ipotesi.
La disciplina dell'impresa nella società nasce per tutelare i soggetti che ruotano introno alla società
in particolare i creditori di questa. Se si ammette la prosecuzione della società di fatto si rischia di
creare un danno ai creditori e si crea una situazione di incertezza per questi creditori.
Si diceva che per tutelare i creditori è meglio che se un socio viene meno l'attività della società si
blocchi lì. Nella prassi succedeva che la morte di un socio comportava lo scioglimento della società
e il giorno dopo i soci costituivano una nuova società con attività identica. In più è vero che si può
realizzare una diminuzione delle garanzie patrimoniali dei creditori ma ciò può avvenire comunque
perché i soci sono liberi di disporre del proprio patrimonio come vogliono.
Proprio per questo nel codice di commercio è stata ammessa per la prima volta la possibilità di
recedere dalla società, un sistema rudimentale di esclusione e, per quanto concerne la morte del
socio, l'art. 191 prevedeva che la società come regola generale si scioglieva a seguito della morte di
un socio salvo che non fosse previsto diversamente. Quindi era ammessa la deroga e la
giurisprudenza la interpretava nel senso che lo scioglimento della società avveniva se i soci
dichiaravano esplicitamente che volevano sciogliere la società. Quindi nella pratica la regola era
quella opposta in cui la società si scioglieva solo se i soci dichiaravano di voler sciogliere la società.
La società era quindi caratterizzata da una forte precarietà perché i terzi che vi entravano in contatto
sapevano che la società sarebbe esistita o meno a seconda della volontà dei soci e quindi c'era
incertezza nell'applicazione. È stato quindi introdotto l'art. 2284 che introduce un principio
differente.
Art 2284 cc: “Morte del socio - Salvo contraria disposizione del contratto sociale, in caso
di morte di uno dei soci, gli altri devono liquidare la quota agli eredi, a meno che
preferiscano sciogliere la società ovvero continuarla con gli eredi e questi vi acconsentano”.
L'articolo prevede espressamente che la società si può continuare con gli erede del socio defunto
solo se questi lo consentono.
La norma pone una serie di problemi interpretativi. Qual è l'effetto della morte del socio? Da
quando consideriamo sciolto il rapporto di società?
Parte della giurisprudenza e dottrina ritiene che l'effetto è lo scioglimento del rapporto sociale con
riferimento espresso a quel singolo socio.
Altra parte della dottrina ritiene che la morte non ha effetti immediati ma si ha solamente col
pagamento della quota di liquidazione agli eredi. Questo ha un effetto pratico perché i soci sono
illimitatamente responsabilità finché si rimane nella società e ciò vuol dire che gli eredi potrebbero
rispondere col patrimonio del defunto anche per le obbligazioni insorte dopo la sua morte. Peraltro
il codice prevede che il pagamento deve avvenire entro sei mesi e in questo lasso di tempo si
attribuisce la responsabilità delle obbligazioni sociali al socio defunto.
Lo stesso per chi ritiene che la morte provoca uno stato di quiescenza che terminerebbe sempre col
pagamento della quota di liquidazione.
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Parte dalla dottrina allora ha detto che lo scioglimento del rapporto sociale è effetto immediato della
morte del socio ma la decisione della società di continuare o meno sono condizioni risolutive
potestative dello scioglimento del rapporto sociale . Quindi il rapporto del socio defunto si scioglie
alla morte e se poi la società decide di continuare con gli eredi del socio defunto o di sciogliere la
società, la continuazione o lo scioglimento sono situazioni che operano come condizione risolutiva
potestativa che retroagisce e fa venir meno lo scioglimento del rapporto sociale con riferimento al
socio defunto (come se non si fosse mai sciolto). Peraltro questa dottrina considera che anche lo
scioglimento retroagisce e la continuazione ha bisogno del consenso degli eredi.
Il problema è che ci si basa su un errore: gli eredi del socio ereditano la quota di partecipazione o il
valore della quota di partecipazione? Il valore, ma allora perché dobbiamo fare queste ricostruzioni
per dimostrare la continuità tra socio defunto ed eredi. Semplicemente, a differenza di soci terzi,
questi non devono versare il conferimento perché c'è una sorta di compensazione tra la quota che
tanto la società gli dovrebbe restituire e i versamenti che gli eredi dovrebbero versare.
Anche nel caso di scioglimento non si capisce perché dottrina e giurisprudenza si siano interrogati
su questo rapporto e perché dobbiamo dire che gli eredi subentrano nella posizione del socio
defunto e quindi che partecipano allo scioglimento della società. La dottrina prevalente diceva che
se entravano gli eredi nella società si offriva una maggiore garanzia agli eredi nella liquidazione
della società. Ma innanzitutto, affermare che nel caso di scioglimento della società, gli eredi
subentrano nella posizione del socio defunto va contro il principio generale della non trasmissibilità
in via successoria della partecipazione (codificato dallo stesso art. 2284 cc).
La dottrina da un lato vi ha visto una garanzia e dall'altro ha detto che la regola della non
trasmissibilità si fonda su due principi: quello dell'intuitus personae e il fatto che il partecipare ad
una società di persone necessariamente comporta l'acquisizione di un rischio d'impresa.
Per quattro riguarda l'intuitus personae, quando la società è rivolta esclusivamente al perseguimento
del fine liquidativo viene a ridursi il rapporto fiduciario tra i soci (intuitus personae). Nella fase di
liquidazione i soci non devono prendere alcuna decisione inerente lo svolgimento dell'attività
economica. Nello stesso tempo, in quella fase, la società non va avanti con la propria attività
produttiva e quindi non ce nemmeno il rischio imprenditoriale, in quanto di fatto l'impresa non
continua a svolgere la propria attività.
In realtà questa tesi non convince, e non convince neanche la Cassazione (sentenza 125/2003),
perché non è vero che nella fase di liquidazione viene meno il rischio d'impresa in quanto è pure
vero che i liquidatori non possono porre in essere atti urgenti ma possono porre in essere tutte le
operazioni ordinarie necessarie all'attività e alcune di queste potrebbero portare un danno alla
società facendo gravare il peso sugli eredi che si sostituiscono al socio defunto.
La liquidazione può durare anche un anno nel corso del quale la società pagherà quanto meno le
bollette e quindi se gli eredi si sostituiscono al socio defunto questi dovranno partecipare alle spese.
E non è detto che così siano più tutelati. Gli eredi hanno diritto alla quota di liquidazione e se gli
viene dato qualcosa in meno hanno diritto di agire contro gli altri soci e il liquidatore, quindi sono
lo stesso tutelati e comunque non più se fossero considerati proprio soci anzi avrebbero solo
maggiori oneri, non una maggiore tutela.
Il problema si pone nel caso di continuazione della società nei confronti degli eredi.
L'art. 2284 sembra molto chiaro ma negli statuti delle società ci sono le clausole di continuazione le
più varie possibile e la giurisprudenza ammette la legittimità di alcune clausole incerte.
Ci sono tre tipologie di clausole di continuazione: obbligatorie, automatiche e facoltative.
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Le facoltative non serberebbero porre problemi perché la continuazione è rimessa al consenso degli
eredi, quindi non c'è nessun problema perché sono una esplicazione del 2284 e un modo per i soci
di dichiarare il loro assenso al subentro degli eredi.
Il problema è se la clausola è specifica ad alcuni eredi di un socio che evidentemente va contro i
principi generali di diritto societario.
La clausola invalida di uno statuto non comporta l'invalidità dell'intero statuto.
La clausola obbligatoria è quella che prevede l'automatica e obbligatoria partecipazione dei soci:
se gli eredi accettano l'eredità in automatico fanno parte della società. Queste clausole secondo la
maggior parte della dottrina sarebbero illegittime.
Per le clausole obbligatorie la giurisprudenza dice che in realtà si ammette che nel testamento siano
previsti degli obblighi a carico del patrimonio ereditario. Questo è vero ma nel caso specifico
l'obbligatorietà non è prevista nel testamento ma in un contratto totalmente separata che in astratto
potrebbe essere previsto da soggetti diversi dallo statuto.
Nella clausola automatica la partecipazione è subordinata all'accettazione. Ma di queste clausole c'è
ne sono di differenti e differentemente interpretate.
Per la Proietti sono valide tutte quelle clausole che lascino agli eredi la possibilità di scegliere.