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TERZO GRADO,GLI AFFINI ENTRO IL SECONDO; PER IMPRESA FAMILIARE
QUELLA CUI COLLABORANO IL CONIUGE, I PARENTI ENTRO IL TERZO
GRADO, GLI AFFINI ENTRO IL SECONDO. (ecc.)
Negli anni ’70 il legislatore ha modificato la disciplina del diritto familiare. Infatti la norma
sopra indicata, trattante l’istituto dell’impresa familiare, è stata introdotta con la riforma del
diritto familiare del 1975. Essa ha come principale punto di riferimento la circostanza che si
dovesse superare una distinzione sociale tra uomini e donne e si dovesse permettere a tutti i
componenti della famiglia un rapporto paritario nell’ambito dell’attività esercitata(comma
2).
L’impresa familiare non va comunque confusa con la piccola impresa: può aversi piccola
impresa che non sia impresa familiare, perché l’imprenditore non ha familiari o non si
avvale della loro collaborazione. Il lavoro familiare era ed è un fenomeno largamente
diffuso che prima della riforma del diritto di famiglia poteva dar luogo a gravi abusi ed
ingiustizie in quanto il lavoro familiare si presumeva prestato a titolo gratuito. Inoltre
nessun diritto particolare era riconosciuto a che lavorava nell’impresa, sia nei confronti del
congiunto imprenditore sia rispetto agli altri membri della famiglia. Il legislatore ha voluto
quindi riconoscere una tutela legislativa ai membri della famiglia che lavorino in modo
continuato nella famiglia o nell’impresa (il lavoro domestico è quindi equiparato a quello
dell’impresa e il lavoro delle donne è equiparato a quello degli uomini) consistente
nell’individuazione di diritti patrimoniali e amministrativi (diritto al mantenimento, diritto
alla partecipazione agli utili, diritto di prelazione di caso di divisione ereditaria o di
trasferimento di azienda, poteri gestori consistenti nel fatto che le decisioni di particolare
rilievo sono adottate dai familiari che partecipano all’impresa stessa a maggioranza e non
all’imprenditore, diritto di partecipazione trasferibile solo ad altri membri della famiglia).
Ci si chiede però se l’impresa familiare sia da intendersi come impresa individuale o
collettiva. Risulta rifiutata l’idea che l’art 230 bis dia vita ad un’impresa a base associativa,
tende a prevalere la concezione secondo cui si tratti esclusivamente di una disciplina delle
prestazioni lavorative dei familiari dell’imprenditore (struttura individuale dell’impresa).
Si precisa, inoltre, che gli atti di gestione ordinaria rientrano nella competenza esclusiva
dell’imprenditore e la violazione dei poteri gestori riconosciuti ai familiari lo esporrà al
risarcimento dei danni, ma non inciderà sull’efficacia degli atti compiuti, che produrranno
comunque effetti nei confronti di terzi. D’altronde l’imprenditore agisce nei confronti dei
terzi non come rappresentate dell’impresa familiare, perciò a lui saranno imputabili gli
effetti degli atti posti in essere nell’esercizio dell’impresa e solo lui sarà responsabile nei
confronti dei terzi. Infine se l’impresa è commerciale sono il capo-famiglia sarà esposto al
fallimento.
Le modificazioni sopracitate hanno comportato degli effetti in termini di attività di impresa.
Esistono molte norme nell’ambito di attività di impresa. Il legislatore ha introdotto la norma
sull’impresa familiare volta al superamento della distinzione netta ispirata ad una visione
corporativa e riconosce una serie di diritti a coloro che lavorano nell’ambito dell’impresa
del capofamiglia, in termini economici e di scelte. Il legislatore detta inoltre gli ambiti della
famiglia da utilizzare ai fini dell’applicazione della normativa.(comma 1)
Secondo il comma 3 devono intendersi familiari il coniuge, i parenti entro il terzo grado
(fino ai nipoti) e gli affini entro il secondo grado (fino ai cognati). Di conseguenza
dobbiamo reputare che il concetto di famiglia debba applicarsi anche all’art. 2083 perché
dobbiamo necessariamente tener conto dello sviluppo della normativa in tema di famiglia.
Non bisogna parificare la disciplina, ma si tratta di fattispecie distinte. La norma del 2083 è
stata emanata da parte di un legislatore storico che aveva a fondamento un concetto di
imprenditore che doveva reputarsi sovrastante rispetto ai suoi familiari. L’ottica del
legislatore quando parla dei familiari, è quella del lavoro dei familiari, mentre nell’ambito
della disciplina dell’impresa familiare, pur trattandosi di un’attività imputabile al
capofamiglia, è esercitata anche dai familiari. Si tratta di un ausilio dei familiari nei
confronti dell’imprenditore. Il rapporto di lavoro non sussiste, quindi, nell’ambito
dell’impresa familiare. Nel caso di piccolo imprenditore si parla, invece, di rapporto
gerarchico, anche se i vincoli possono essere intesi nello stesso senso dell’impresa familiare.
Si è compiuta un’interpretazione analogica della norma, in quanto il legislatore ha
comunque avuto modo di spiegare chi debba intendersi familiari, sebbene l’ottica del
legislatore del ’75 è diversa da quella del ’42.
3) Il concetto di prevalenza che secondo termine di paragone ha? Rispetto a cosa deve
essere prevalente l’attività esercitata dall’imprenditore e dai suoi familiari.
L’art. 2083 indica, inoltre, il principio della prevalenza. Va valutato rispetto al capitale
investito e a lavoro altrui, ovvero rispetto agli altri fattori della produzione. Il legislatore
impone una valutazione sostanziale. Per comprendere tale concetto consideriamo il seguente
esempio:
Consideriamo un imprenditore proprietario di un locale all’interno del quale vi è un
macchinario che permette di creare dei beni di consumo in pelle e per gestire l’utilizzo di
questo macchinario sono necessari due dipendenti. Si tratta di un macchinario costoso
quindi l’imprenditore lo sceglie perché li permetta di ridurre la forza lavoro. Ha assunto
come dipendenti i suoi due figli. Il fattore capitale prevale sul fattore lavoro, quest’ultimo
non è essenziale, innanzitutto per una valutazione logica: al posto di quei due soggetti
potrebbero esservene molti altri, ma può essere necessario che si spinga un bottone e quindi
che non si tratti di un’attività complessa. Possiamo renderci conto che il fattore capitale sia
prevalente e che non è rispettato il principio della prevalenza. Sottolineiamo, inoltre, il fatto
che l’ultima parte dell’art 2083 consente di ricomprendere nella categoria figure di piccoli
imprenditori diverse da quelle espressamente menzionate. Enuncia, però, al tempo stesso il
criterio di individuazione della categoria, destinato a valere anche per le altre tre figure
tipiche. L’art va, dunque, letto come se dicesse: la prevalenza del lavoro proprio e familiare
costituisce il carattere distintivo di tutti i piccoli imprenditori. E’ opinione comune, quindi,
considerare che il criterio della prevalenza è stato concepito dal legislatore come criterio
generale. Per aversi una piccola impresa è, perciò, necessario che:
L’imprenditore presti il proprio lavoro nell’impresa;
a) Il suo lavoro e quello degli eventuali familiari che collaborano nell’impresa
b) prevalgono sia rispetto al lavoro altrui sia rispetto al capitale investito nell’impresa
Non è, perciò, mai piccolo imprenditore chi investe ingenti capitali nell’impresa anche se
non si avvale di alcun collaboratore. La prevalenza del lavoro familiare sugli altri fattori
produttivi, a sua volta, deve correttamente intendersi in senso qualitativo-funzionale e non
come prevalenza quantitativo-aritmetica.
4)Chi è piccolo imprenditore ai sensi dell’art.2083? [L’IMPRESA ARTIGIANA]
Quest’ultimo quesito è di meno immediata comprensione in quanto necessita di
un’interpretazione accurata. Per dare soluzione a questo problema, non ci si può limitare a
scegliere una delle opzioni precedentemente enunciate, ma è necessario un iter giuridico
teso a sostenere una delle tre opzioni. L’approccio in termini interpretativi riguarda l’analisi
della normativa dell’artigianato, paragonandola all’art. 2083. L’imprenditore artigiano ha
avuto una prima disciplina con la legge 860/1956. Si tratta della legge sull’artigianato,
abrogata in virtù della successiva legge quadro del 1985. L’art.1 della legge precedente
disponeva che le statuizioni presenti all’interno della medesima legge, avevano effetti a tutti
gli effetti di legge. Ciò significa che la nozione di artigiano prescritta all’interno della legge
del 56 era valida a livello di disciplina fiscale e tributaria ma anche a livello di disciplina
civilistica. Nel nostro ordinamento vengono emanate leggi speciali che possono essere
riferibili ad un dato settore. (normative di settore valide a fini tributari). A volte il legislatore
fornisce una nozione valida solo a specifici fini. Ciò nonostante, la nozione del soggetto non
ha validità ampia ma è una nozione che ha una validità nell’ambito della normativa di
settore. Qualora il legislatore disponga che invece, essa è valida a tutti gli effetti di legge,
ciò implica che anche le nozioni indicate all’interno della legge, sono valide non solo
nell’ambito di quel settore di disciplina ma anche a fini civilistici. Si può comprendere
quindi la valenza della legge del 1956, che si estende anche all’ambito civilistico. Il
legislatore del 1956 fornisce una nozione di imprenditore artigiano, che è colui che esercita
un’attività in senso lato artigianale, nel senso che doveva produrre semilavorati o beni
dotati di una qualche valenza particolare e propria: significato che traiamo dalla legge del
1956 è legata al carattere manuale dell’imprenditore. Ogni qualvolta un soggetto esercita
un’attività omologa a quella di cui alla legge sull’artigianato, era ritenuto artigiano. Il dato
caratterizzante l’impresa artigiana risiedeva nella natura “artistica e usuale” dei beni o
servizi prodotti e non più nella prevalenza del lavoro familiare nel processo produttivo. La
qualifica artigiana era riconosciuta anche alle imprese costituite in forma di società, purchè
si trattasse di società cooperative o in nome collettivo ed alla condizione ulteriore che “la
maggioranza dei soci partecipi personalmente al lavoro e, nell’impresa, il lavoro abbia
funzione preminente sul capitale”. Perciò in deroga al vecchio art.1 comma 2 della legge
fallimentare le società artigiane dovevano considerarsi esonerate dal fallimento. Questa
definizione aveva effetti diretti anche nell’ambito dell’art. 2083, in quan