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Il fallimento automaticamente fa scadere tutti i debiti. In merito sempre al piccolo imprenditore, la
divergenza tra l’articolo 1 della Legge Fallimentare e l’articolo 2221 cc è data dal fatto che vi sono
alcuni piccoli imprenditori che hanno debiti molto elevati (ad esempio 500.000 €): in questo caso
cosa si applica? Qui la sensazione è che il legislatore abbia voluto fissare solo i limiti quantitativi,
di conseguenza l’art. 2221 cc sarebbe il risultato di una mancanza di coordinamento tra il giugno
2006 ed il gennaio 2007. Il piccolo imprenditore in definitiva non fallisce purché non superi le
soglie dimensionali previste dall’art.1. In astratto può fallire, ma in questo caso si tratterebbe di un
imprenditore commerciale.
Sempre in merito al fallimento vi è differenza tra:
Presupposto soggettivo: previsto dall’art. 1 della Legge Fallimentare;
Presupposto oggettivo: stato d’insolvenza (art. 5 Legge Fallimentare). Fallisce colui che non
è in grado di adempiere regolarmente le sue obbligazioni. Lo stato d’insolvenza si dimostra
dicendo che non è più in grado di pagare con denaro, di conseguenza smembra l’azienda. Lo
stato d’insolvenza deve essere attuale, se è precedente significa che l’imprenditore è tornato
solvente, ha pagato tutti i debiti, di conseguenza non deve fallire. Non può essere neanche
futuro.
Il concordato preventivo è un accordo che l’imprenditore fa con i propri creditori in quanto il primo
si trova in difficoltà (es. della torta insufficiente): nessuno infatti può essere soddisfatto per intero.
Questo viene votato dai creditori, non può essere imposto. Qui ciò che rileva non è lo stato
d’insolvenza, bensì lo stato di crisi (presupposto) che viene prima dello stato d’insolvenza.
Non tutti i creditori possono chiedere il fallimento dell’imprenditore, ma solo quelli che vantano un
credito di almeno 30.000 € (art. 15). L’imprenditore che sia diligente può però anche chiedere egli
stesso il fallimento e lo può chiedere anche il PM.
Rimanendo però nel caso dei creditori, essi depositano presso il Tribunale Civile Ordinario
(Tribunale Fallimentare) un’istanza di fallimento contenente lo stato d’insolvenza dell’imprenditore
ed il superamento di uno dei requisiti previsti dall’art. 1. Si procede dunque con l’apertura di
un’istruttoria fallimentare e nel caso si dichiara il fallimento. C’è da dire che prima della 23
Lezioni di Diritto Commerciale 1
presentazione della domanda l’imprenditore può scappare, in pratica può spostare la residenza
all’estero (questo vale solo per i paesi extracomunitari). Il tribunale competente è quello del luogo
dove risiede la sede principale dell’impresa. Il tribunale, una vola valutati i requisiti, emana
una sentenza dichiarativa di fallimento: con essa si modifica prima di tutto la gestione dell’impresa
(l’imprenditore viene spossessato dei suoi beni, senza perderne il possesso, e la gestione viene
affidata al curatore).
Il giudice delegato è un organo che vigila sul buon andamento della procedura fallimentare e sulla
gestione del curatore. Il curatore deve rendere conto anche ad un altro organo, il Comitato dei
creditori, che è composto da 3 o 5 creditori del fallito e che ha come funzione la tutela dei creditori.
Il creditore può dare la disponibilità a partecipare al Comitato dei creditori ma può anche non darla,
quindi può anche succedere che non vi sia nessun Comitato dei creditori.
Dal momento dell’emanazione della sentenza il curatore ha due giorni di tempo per accettare
l’incarico, una volta accettato inizia a gestire l’impresa nel senso di gestione del patrimonio
fallimentare.
Il curatore viene pagato in base a:
Attivo patrimoniale realizzato (lo strumento più utilizzato è la revocatoria);
Passivo accertato.
Il suo obiettivo quindi è quello di far rientrare più fondi possibili nel fallimento e accertare il
passivo patrimoniale.
Tutta questa attività del curatore trova riscontro nell’udienza di verifica dello stato passivo: qui il
curatore va dal giudice delegato con tutti i creditori e insieme valutano la possibilità di inserimento
dei creditori stessi alle procedure concorsuali.
Cosa succede se l’imprenditore è organizzato in forma di società?
Una s.s. può fallire? No, perché non ha oggetto commerciale e non può averlo.
Una s.n.c. può fallire? Si, e quali sono gli effetti del fallimento di una s.n.c.? Il socio della s.n.c.
fallisce o meno? Si. Nel patrimonio fallimentare rientrano anche i beni del socio? Si, perché la
responsabilità è solidale e illimitata.
Nella s.a.s. riguardo al fallimento va fatta la distinzione tra i soci: non fallisce l’accomandante (che
eventualmente perde la sua responsabilità limitata in 2 casi: violazione del divieto d’immissione
nella gestione e consenso all’uso del suo nome nella ragione sociale della società) ma
l’accomandatario.
Nella S.p.A. il socio non fallisce.
Quali sono gli effetti del fallimento per l’imprenditore fallito? Abbiamo 3 tipi di effetti:
Effetti personali;
Effetti patrimoniali;
Effetti penali.
Il primo effetto patrimoniale è lo spossessamento; ci sono tuttavia dei limiti allo spossessamento,
cioè non tutti i beni dell’imprenditore fallito gli vengono sottratti (ricordiamo tuttavia che
spossessamento non significa perdita della titolarità dei beni). Ci dice quali beni non sono oggetto
dello spossessamento l’art. 46 della Legge Fallimentare; tipicamente sono i suoi beni personali,
personali in senso stretto (addirittura un tempo si faceva riferimento agli indumenti intimi); i
proventi invece che l’imprenditore ottiene da un’altra sua attività vengono devoluti al fallimento,
quindi viene spossessato da questi proventi. Proprio per questo l’imprenditore fallito che si trovi in
grossa difficoltà può ottenere un sussidio.
Accade però una cosa particolare; vi sono dei beni a cui il curatore può rinunciare mediante
l’istituto della derelizione si tratta di quei beni la cui apprensione al patrimonio fallimentare è
anti-economica.
Abbiamo detto che l’imprenditore non perde la titolarità dei beni ma perde la capacità d’agire, cioè
non può porre in essere atti validi ed efficaci? No, l’imprenditore fallito conservando la titolarità dei
beni che gli sono sottratti può comunque disporne, cioè porre in essere atti validi su quei beni che
tuttavia non hanno effetto nei confronti dei creditori. 24
Lezioni di Diritto Commerciale 1
Vi sono poi degli effetti personali che nei confronti dell’imprenditore fallito sono di 2 tipi e sono
limitativi:
Limite alla libertà personale dell’imprenditore fallito (particolarmente importante perché si
ha la compressione di due libertà costituzionalmente garantite);
Limite alla capacità.
Per quanto riguarda il primo limite, viene innanzitutto compresso l’art. 15 Cost., “libertà di
corrispondenza e segretezza della corrispondenza” perché l’imprenditore fallito non riceverà più la
sua posta o meglio la posta che è diretta all’imprenditore fallito viene recapitata al curatore
fallimentare, questo però quando l’imprenditore non è persona fisica e cioè quando è organizzato in
forma di società; quando l’imprenditore è persona fisica le recenti riforme hanno attenuato questo
principio e gli hanno consentito di ricevere la posta ma con l’obbligo di consegnare quella inerente
l’attività commerciale al curatore fallimentare altrimenti c’era il rischio che il curatore fallimentare
veniva a conoscenza di tutta la corrispondenza che s’inviava ad una persona, anche quella
corrispondenza che con il fallimento e con gli interessi propri del curatore non c’entravano nulla.
L’altra compressione della libertà, riguarda l’art. 16 Cost., “libertà di movimento e circolazione”,
perché l’imprenditore non si può allontanare, deve comunicare ogni suo cambio di residenza, ogni
sua variazione di domicilio e deve essere sempre reperibile per il fallimento.
Per quanto riguarda i limiti alla capacità dell’imprenditore fallito, essi riguardano l’impossibilità per
lo stesso di assumere determinate cariche: amministratore di un’altra società, sindaco, avvocato,
notaio, commercialista.
All’inizio queste capacità erano compromesse poiché egli le perdeva e poteva riacquistarle solo a
seguito della cancellazione dal registro dei falliti; oggi non è più così. Con la chiusura del
fallimento si ha un’estensione delle capacità personali del fallito, quindi ritorna ad avere tutte le sue
libertà costituzionalmente garantite e le sue capacità.
Vediamo ora gli effetti penali. Gli artt. 216, 217 e 218 della Legge Fallimentare prevedono 3 reati
fallimentari tipici che rispettivamente sono:
Bancarotta fraudolenta;
Bancarotta semplice;
Ricorso abusivo al credito. lo scopo; nella bancarotta
La distinzione tra bancarotta fraudolenta e bancarotta semplice è il fine,
fraudolenta l’imprenditore fallito agisce con dolo; nell’art. 216 il legislatore si preoccupa di
reprimere la distrazione di somme dal patrimonio fallimentare, l’occultamento e la distruzione di
determinati beni in danno dei creditori; nella bancarotta fraudolenta rientrano anche la mancata
tenuta delle scritture contabili e la loro distruzione.
Secondo parte della dottrina l’elemento soggettivo alla base della bancarotta fraudolenta è la colpa
(ma il Dott. De Ferraris non è d’accordo in quanto per lui la differenza è tra dolo specifico per la
bancarotta fraudolenta in cui vi è il fine ulteriore di frodare i creditori e dolo generico nella
bancarotta semplice dove l’imprenditore vuole tutti gli elementi della fattispecie ma non vi è un fine
ulteriore di danneggiare i terzi, vi è solo un cattivo gestore del proprio patrimonio).
Il ricorso abusivo al credito è qualcosa di diverso e consiste nella dissimulazione del proprio stato
d’insolvenza (l’imprenditore non dovrebbe più indebitarsi e astenersi dall’aumentare il numero dei
creditori e il passivo della sua impresa ricorrendo abusivamente al credito).
La dichiarazione di fallimento ha delle conseguenze anche nei confronti dei creditori; la prima
conseguenza è la scadenza di tutti i crediti nello stesso giorno (anc