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La giurisprudenza in precedenza pensava che la dichiarazione fosse confessoria (non
un rifiuto del coacquisto).
Le SS.UU. nel 2009 n°22755 hanno ribadito l’orientamento ma con alcuni distinguo:
hanno stabilito che la dichiarazione adesiva non ha sempre natura confessoria, ma
non è nemmeno dichiarazione di volontà di escludere il bene dalla comunione.
Avrebbe natura ricognitiva quando il coniuge interviene solo per attestare una
situazione di fatto (x es. provenienza personale del bene di cui alla lettera f); ma vi
sono dei casi in cui non succede questo, in cui vi è la condivisione dell’intento
dell’altro coniuge, ossia nei casi delle lettere c) e d), in cui sarebbe una condivisione
dell’intento dell’altro coniuge, si tratta di condividere la destinazione del bene. In
questi casi vi sarebbe la possibilità di ottenere ex post la ricognizione del fatto che la
destinazione all’attività personale poi non vi sia stata.
Il problema è quello della possibilità di ritenere annullabile l’atto, nel caso in cui il bene
sia stato già rivenduto a un terzo.
Vi è un’altra questione su cui si è espressa la Cassazione. Ha detto che l’intervento
dell’altro coniuge di cui al c.2, art. 179, non è da solo sufficiente a giustificare
l’esclusione del coacquisto. Questo significa dire che se viene riconosciuto il falso, si
può impugnare la confessione nei limiti dell’art. 2732 e potrebbe cadere il coacquisto.
La dichiarazione di cui al c.2, non rileva come rifiuto se non esistono gli altri
presupposti.
Questo la Cassazione lo ha detto in un caso in cui era stata falsamente dichiarata la
destinazione del bene a uso personale.
Il problema connesso la Cassazione lo affronta in un obiter dictum, essa dice che se il
legislatore avesse voluto consentire il rifiuto del coacquisto lo avrebbe detto. Ma non
esclude la tesi opposta perché potrebbe essere che questo possa essere permesso in
virtù di principi generali. E dopo la sentenza della Corte Cost. 1973 non si può vietare
la donazione indiretta all’altro coniuge della propria quota, tuttavia tale facoltà non si
desume dall’art. 179, c.2, che condiziona l’effetto limitativo alla natura realmente
personale del bene.
Quindi questa norma non si riferisce al rifiuto del coacquisto nel caso in cui non vi
siano i presupposti.
La Cassazione prosegue con l’altro problema, la dichiarazione del coniuge non
acquirente, chiedendosi se essa possa essere o meno surrogata dall’obiettiva
percepibilità della natura personale del bene. La Cassazione dice che anche la
dichiarazione del coniuge che non acquista non può essere sostituita. Esso è un
presupposto aggiuntivo a quelli delle lettere c), d) ed f). La natura personale del bene
non è sufficiente a escludere di per sé la comunione se non riconosciuta dai coniugi,
ma la dichiarazione dell’altro coniuge ha solo funzione di documentazione.
Si pone il problema della tutela del terzo, in quanto una volta impugnata la
confessione, oppure l’accertamento della destinazione che non c’era stata. Il coniuge
che ha acquistato il bene personale lo vende da solo, il terzo che acquista si trova
esposto all’azione di annullamento di cui all’art. 184, c.2.
nostro caso il bene è comune, quindi deve intervenire il marito nell’atto. Ma se
ànel
Filano stipula comunque il contratto, acquisterebbe in base a un contratto annullabile.
Che tutela ha? 18/11/2013
Vi è il problema che attiene alla situazione di Filano nell’ipotesi in cui acconsentisse ad
acquistare il bene senza il consenso del marito di Caia, egli acquisterebbe in forza di
un contratto annullabile.
La Cassazione con una decisione di cui ci si può chiedere la ragionevolezza, individua
un correttivo che attiene alla verifica della buona fede del terzo che acquista, perché
la particolarità di questo tipo di acquisti (oltre al termine di prescrizione breve, oltre al
fatto che vi è l’eccezione rispetto agli altri atti compiuti in assenza di legittimazione) è
che negli altri casi di annullabilità (vizi del consenso e incapacità), vi è in comune il
fatto che nell’errore si pone la tutela dell’affidamento, così come nel dolo (la violenza è
invece più riprovevole quindi se ne prescinde), il c.3, art. 428 permette l’annullamento
per incapacità solo se vi è la malafede del contraente. Quindi l’ordinamento
contempera la tutela della persona che agisce e la tutela dell’affidamento della
controparte.
L’art. 184 non fa invece riferimento alla malafede della controparte. Essa è irrilevante
a fronte di una situazione di fatto (personalità o comunione del bene) che non è
immediatamente percepibile. Questa norma è stata criticata perché crea una
diffidenza nei terzi rispetto all’acquisto da persone coniugate.
Si potrebbe comunque immaginare una tutela per colui che acquista in buona fede
senza sapere che il bene è comune. La Cassazione fa un tentativo in questo senso che
non sembra molto fondata. Il caso riguardava un bene dichiarato personale in quanto
destinato alla professione, che poi invece era stato utilizzato come casa familiare,
quindi essendo stato accertato che il bene era comune, ex post emerge che
l’alienazione senza il consenso dell’altro coniuge è impugnabile.
La Cassazione dice che all’azione dell’art. 184 si può opporre quanto previsto dall’art.
1445, perché l’azione di cui all’art. 184 è un’azione di annullamento, quindi per quanto
non diversamente disposto è applicabile anche a questo caso. La norma di cui all’art.
1445 afferma che l’annullamento quando non dipende da incapacità legale non
pregiudica i diritti acquistati dai terzi in buona fede a titolo oneroso, salvi gli effetti
della trascrizione della domanda di annullamento, che non deve essere anteriore
rispetto all’acquisto.
Si tratta di un’applicazione diretta di questa norma? No.
Il nostro caso, e quello da cui prende le mosse la Cassazione, non è quello previsto
dall’art. 1445 (Tizio, vende a Caio, che vende a Sempronio, poi il primo titolo viene
annullato ma rimane salvo l’acquisto in buona fede a titolo oneroso di Sempronio); nel
nostro caso è il secondo titolo che viene annullato, Sempronio, rispetto all’atto
annullato è la diretta controparte, non è un terzo sub acquirente.
La Cassazione ha presente che sono due ipotesi diverse, tuttavia, secondo la sua
opinione, la norma esprime un’identica ratio, e non importa il fatto che il difetto del
titolo del dante causa provenga da un’azione di accertamento e non da un’azione di
annullamento. Quindi sembrerebbe un’applicazione analogica. In realtà la somiglianza
tra le due ipotesi è molto labile. Nel nostro caso non si tratta di un problema verso
terzi sub acquirenti del titolo viziato del dante causa. Forse la Cassazione fa questo
ragionamento per ragioni equitative.
Posto che non si può applicare l’art. 1445, dobbiamo giungere alla conclusione che la
controparte non ha alcuna tutela? No, perché si deve presumere che il bene che si
acquista da persona coniugata sia comune, e se non lo è l’acquirente ha l’onere di
verificare se vi siano i presupposti perché sia personale.
Un’alternativa potrebbe essere quella di applicare in via analogica altre norme, come
quelle che tutelano i terzi contro la simulazione, perché in quel caso i coniugi avevano
“simulato” la destinazione del bene, e questa apparenza da loro creata, è opponibile ai
terzi? L’azione di accertamento presa in considerazione dalla Cassazione è
accertamento di una simulazione? Si potrebbe dire di no perché i presupposti che la
regolano nella legge non sembrano esserci, in quanto non viene simulata una volontà.
Non è applicazione diretta perché essa si applica ai contratti e nel nostro caso si tratta
di una manifestazione di intenti.
L’ultimo problema da affrontare, cioè se Mevia potrebbe far valere diritti in sede di
legittima, in quanto si tratta di una donazione indiretta.
Se si tratta di donazione diretta, vi è il rischio di essere sottoposti all’azione di
riduzione, in particolare all’azione di restituzione che ne deriva. Vi sono due azioni di
restituzione, una nei confronti del beneficiario della disposizione e una nei confronti
dell’avente causa.
La legge nel 2005 per questo ha posto dei limiti temporali all’esercizio dell’azione di
restituzione. Non si può chiedere la restituzione se sono passati 20 anni dalla
trascrizione della donazione (art. 563). È altresì prevista ai legittimari la possibilità di
fare opposizione, con cui viene sospeso il termine. Spesso si richiede ai legittimari di
dichiarare la loro rinunzia al diritto di opposizione. Oppure si chiedono delle garanzie,
come delle fideiussioni.
Questa regola vale anche per le donazioni indirette?
L’art. 809 dice che alle donazioni indirette si applicano le disposizioni riguardo alla
riduzione delle donazioni (artt. 553 e ss.).
Questa soluzione è per molti versi insoddisfacente quando si tratta di donazioni
indirette perché mentre se si acquista un bene proveniente da una donazione diretta,
si può accertare la provenienza donativa, risulterà una donazione trascritta in favore
del dante causa nei registri immobiliari. Nel caso di donazione indiretta non lo si può
percepire dalla trascrizione. Dal 2006, in forza del Decreto Bersani negli atti pubblici
va indicato il mezzo di pagamento del corrispettivo, tuttavia non è richiesto dalla legge
che risulti chi effettua il pagamento. Lo stesso potremmo dirlo negli altri casi di
intestazione di bene a nome altrui. In un contrato a favore di terzi risulterebbe la
provenienza, ma potrebbe non essere a titolo di liberalità.
Questo dimostra che i terzi non avrebbero strumenti per verificare tale provenienza,
quindi prevedere che nei confronti dell’acquirente si possa agire in riduzione, pur
trattandosi di una donazione indiretta, non sembra ragionevole. Tuttavia
quest’argomento non basterebbe.
Vi è un altro problema, nei casi di donazione diretta in conseguenza della restituzione
il bene rientra nell’eredità, ma nel caso di donazione indiretta, il bene non era mai
stato nel patrimonio del donante. Quindi si dovrebbe ritenere che se si applicasse
l’azione di restituzione in questi casi, il donatario dovrebbe restituire il bene a colui da
cui proveniva, ma ciò non avrebbe senso e sarebbe a danno di un terzo, salvo che non
si ammetta che si faccia entr