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CASO CELENTANO
Il caso si potrebbe risolvere facilmente applicando l'art. 1362, prendendo cioè in considerazione la comune intenzione delle parti. Ma tale criterio non è applicabile, in quanto attraverso l'interpretazione si suole (e si può soltanto) supplire a una volontà mal formulata, non mal formata. Nella sentenza ci sono due indici univoci che la volontà è stata mal formata. Uno è ammesso dagli stessi avvocati, che non si lamentano dell'utilizzo dell'immagine, ma del suo "uso eccessivo". Ciò significa che quando hanno scritto le clausole che prevedevano la penale, non intendevano riferirsi all'immagine. L'altro lo deduciamo dalla sentenza d'appello, che aveva dato torto al Celentano per il comportamento da questi messo in atto successivamente alla stipula del contratto. Quello che occorre vedere è se l'art.1375 sia stato applicato in maniera appropriata. Ora il giudice,escludendo che la controversia fosse risolvibile a favore di Cementano sulla base delle norme di interpretazione del contratto, ha agito correttamente. Quanto alla buona fede, la Cassazione si esprime in modo criptico: grossomodo afferma che tramite la buona fede possono avere ingresso obblighi non pattuiti, a condizione però che l'interesse sia comunque pattiziamente tutelato. Ora, che senso ha sostenere che non si altera il programma negoziale (cioè il contenuto precostituito dell'accordo) lasciando entrare obblighi nuovi? In tale affermazione c'è chiaramente qualcosa di contraddittorio, perché in questo modo sembra si degradi la buona fede a semplice strumento di valutazione dei comportamenti attuativi. Occorre riflettere su due profili: 1) perché la Corte ha tenuto ferma la decisione dell'appello?; 2) come ha argomentato la buona fede? Rodotà ha detto che la buona fede è contenuta nel 1374, perché ad essarimanda la parola "legge". Ma ha sbagliato impostazione, ignorando che il codice distingue tra esecuzione del contratto e integrazione dello stesso. Ha fatto questo perché non gli interessava il discorso tecnico. È vero quindi che è impossibile ampliare il novero degli interessi rilevanti, però è possibile dare piena attuazione agli interessi già garantiti in contratto. Se fosse consentita la pubblicità tramite l'immagine, la clausola con cui si tutela il nome sarebbe inoperante (rectius, inutile, quand'anche meticolosamente osservata, come in fatto accadde). Se non facessimo una tale operazione, infatti, vanificheremmo ogni possibilità di tutela del suddetto interesse. La clausola scritta è infatti strumentale rispetto all'interesse dedotto in contratto. È vero quindi che la clausola è completa dal punto di vista giuridico-tecnico, ma presenta una deficienza dal punto di vistaeconomico. Attraverso l'interpretazione si può individuare la regola che le parti si sono date. Se c'è una lacuna non ne consentiamo la razionale integrazione, infatti, risulterà stravolta l'operazione economica. Non è possibile speculare su una delle parti per stravolgere il senso dell'operazione economica.
Integrazione del contratto: supponiamo di dover attendere alla redazione di un codice. Mancando la regola di cui al 1375, sarebbe giusto creare una norma che dia ragione a Celentano? Ove dessimo una risposta negativa, otterremmo un sistema che consente alla parte più ricca di approfittare delle defaillance del contratto. Un ordinamento simile, che consentisse di speculare sulle volontà malformate, non sarebbe razionale.
Questa è una peculiarità del diritto europeo, che non prevede un sistema di capitalismo selvaggio. Non si può infatti permettere a una persona di arricchirsi ai danni di un altro.
buona fede dice che la competizione si deve svolgere tra competitori leali. Non si può permettere a un soggetto di speculare su una svista dell'altro avvocato. Questo è proprio il compito del 1375. La Corte di Cassazione ha ragione in astratto quando afferma che la buona fede è una tecnica attraverso la quale si dà rilevanza a pretese che non hanno un'autonomia rispetto alla pretesa disciplinata. Si tratta di micro-lacune che non alterano l'operazione economica: tutto consiste nel dare rilevanza a pretese di carattere accessorio e strumentale. Ovviamente ciò significa che se l'interesse non regolato è autonomo non ha rilevanza. È questo che succede nel caso Berlusconi. L'equità, invece, a differenza della buona fede, integra lacune forti. È per questo che il costo viene distribuito su ambo le parti. Si tratta di una impostazione che era ben nota alla vecchia dottrina, ma che ora è stata.dimenticata.
CASO FIUGGI
La Corte d'Appello non aveva detto ciò che le è attribuito dalla Cassazione, ma aveva svolto un ragionamento diverso. Occorre vedere cosa si intende per 'piena libertà' nel contratto. Il Comune, infatti, non avrà alcuna azione per contrastare la politica dei prezzi che la società intende fare. La società cui vengono rivendute le bottiglie non appartiene all'Ente Fiuggi, ma alla stessa holding. È però vero che in causa è chiamata l'Ente Fiuggi. Supponiamo che l'Ente Fiuggi voglia fare beneficenza vendendo le bottiglie a un prezzo irrisorio a dei frati. Potrebbe farlo? In questo caso l'Ente Fiuggi fa gli interessi della holding? Che differenza ci può essere tra i frati e la società di distribuzione? In entrambi i casi non sta facendo gli interessi propri, ma quello di un terzo. Argomentare perché non potrebbe farlo.
Quesiti.
1. L'elenco di cui all'art.
1. 1429 è esemplificativo o tassativo? In altri termini, tale elenco è passibile o no di ampliamento in via interpretativa?
2. Nel discorsi di Trimarchi sull'errore di diritto c'è qualcosa che non funziona.
3. Anche il discorso sulle reticenze può dare adito a dubbi. Nella prima parte di pag. 201 Trimarchi esamina una ipotesi oscura, perché entra in campo l'istituto della interpretazione cogente.
4. Chiedetevi se in caso di errore comune debba o no rilevare il requisito della riconoscibilità. In linea generale lo si esclude. In Galgano si legge che quando l'errore è comune a tutti i contraenti, esso è per ciò stesso conosciuto da ciascuno di essi, il che rende irrilevante la sua riconoscibilità (posizione simile in Bianca). La medesima conclusione è stata da qualcuno proposta in base al rilievo per cui sarebbe contrario a buona fede eccepire di non aver potuto rilevare l'errore.
condiviso dalla controparte. Applicando il 1366, possiamo optare per una interpretazione restrittiva delle clausole 1) e 2), e affermare che la "piena libertà" di cui parla il contratto non si spinge fino a disciplinare e consentire di fare beneficenza. L'affittuario ha posto in essere un espediente che gli ha consentito di elevare il prezzo di vendita delle bottiglie senza che ciò comportasse l'aumento del canone. La parte ha rispettato formalmente il patto, ma sostanzialmente lo ha violato. Infatti la clausola che aggancia il variare del canone al variare del prezzo di vendita in fabbrica delle bottiglie ha la funzione di tutelare (coniugandoli) l'interesse del Comune all'aumento del canone e l'interesse dell'affittuario ad essere libero nella scelta della politica di prezzo, in quanto imprenditore. Dunque il contratto di certo non disciplina la possibilità dell'imprenditore di mettersi a fare beneficenza, smettendo.dovrebbe essere obbligato a farlo. La sua libertà di agire sul mercato e massimizzare il profitto non dovrebbe essere limitata da obblighi di beneficenza. Tuttavia, ciò non significa che l'imprenditore non possa scegliere di fare beneficenza se lo desidera. La decisione spetta a lui, in base al suo comportamento razionale. In un contesto non regolato, potrebbe essere necessario valutare se applicare tecniche di autointegrazione del contratto o se far valere il principio dell'autoresponsabilità. La domanda da porsi è quale sia più incompatibile con la logica del contratto: l'imprenditore che desidera fare beneficenza o la controparte che gli nega tale possibilità. La risposta è chiara: la soluzione negativa trova ingresso attraverso il principio di libertà contrattuale. Il punto centrale è che l'imprenditore ha la possibilità di fare beneficenza, ma non dovrebbe essere obbligato a farlo. La sua libertà di agire sul mercato e massimizzare il profitto non dovrebbe essere limitata da obblighi di beneficenza.può pretendere di farlo che con i soldi propri, e non anche con quelli del Comune! Per quanto riguarda la critica alla sentenza, le tre righe e mezzo che precedono il capoverso che inizia con "Se questo è il ruolo della buona fede...", a prenderle sul serio, sembrano imporre di dar ragione all'affittuario: infatti mica è cosa di poco conto tollerare un aumento del canone! La correttezza è un limite esterno alle norme dell'ordinamento giuridico: si tratta di far avere ad una delle parti qualcosa che non si può concedere direttamente né in base alla logica del contratto né in base a quella dell'ordinamento. I limiti interni possono portare a sacrifici enormi, i limiti esterni possono giustificare solo sacrifici modesti. Se il vincolo è interno, dunque (come in questo caso, che si ricava sviluppando la logica stessa del contratto) non ha senso chiedersi se il sacrificio imposto alla parte è grande opiccolo. Contro coloro che affermano che il 1375 va riempito con le norme costituzionali, si può rispondere così: e qual era, allora, il contenuto del 1375 prima dell'avvento della costituzione? Contro coloro che vanno affermando che correttezza e buona fede sono la stessa cosa, si deve obiettare: perché allora il 1175 faceva riferimento alla solidarietà corporativa e il 1375 no? La verità è che correttezza e buona fede sono cose diverse: la correttezza (1175) è una correzione che altera la logica delle norme dell'ordinamento generale: essa introduce qualcosa che assomiglia per certi versi al divieto di atti emulativi (anche se non è proprio la stessa cosa). CASO DEL BAR Come sempre, la nostra indagine deve svilupparsi in due direzioni: 1) come risolverei il caso se fossi io il giudice e come argomenterei la mia soluzione; 2) commento della sentenza, sotto il profilo della tesi e dell'argomentazione del giudice. Qui nonè il contratto in sé e per sé considerato che arreca un danno al gestore del bar ed un ingiustavantaggio alla società distributrice di caffè. Il contratto nei suoi elementi oggettivi, come isolat