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DELLE COMUNITÀ DI VITA CONSACRATA
1. Regola e libertà p. 43 – 49
Il monachesimo non nasce dal nulla: esso viene preceduto dal fenomeno dell'anacoretismo per il quale una vocazione radicale spingeva i più intransigenti fra i fedeli a separarsi completamente dal mondo per meglio avvicinarsi a Dio, contemplandone, lontano da ogni possibile distrazione, il mistero.
Il termine monaco ha radici nella solitudine della ricerca religiosa. La fama di maestri di ascesi e di vita spirituale raggiunta da alcuni anacoreti finiva col porli come esempio, come modelli da seguire nella via della perfezione spirituale. Non era raro però che qualche giovane, desideroso di avviarsi sul sentiero della ricerca strenua di una religiosità che attuasse il più fedelmente possibile la sequela di Cristo, ambisse a vivere, anche per un breve periodo, vicino a quello che riteneva essere un maestro di vita spirituale.
La legge assoluta era probabilmente la
libertà individuale di ricerca: la regola era presumibilmente l'assenza di regole oggettive che distogliessero la soggettività dal perseguimento dell'imitazione di Cristo. Ma ben presto la vita in comune cominciò a basarsi su di una Regola. Essa, posta dal Maestro, tendeva a tracciare un modo di vita e l'orizzonte di una spiritualità che contribuissero a caratterizzare ed insieme a rendere più proficua l'esperienza comunitaria. La Regola diviene una garanzia, il metro e la misura nella quale la libertà di ognuno trova il proprio compimento. Nelle prime regole antiche si riflette, prima di ogni altra cosa, la previsione di ritmi di vita consoni alla meditazione e alla ricerca interiore. La prima Regola affermatasi in occidente è quella di Agostino: egli tenta di inseguire il modello di una vita comunitaria perfetta che abbia "un solo cuore ed una sola anima in Dio". La libertà è il vero fondamento
della Regola: essa è frutto della Grazia, mentre la legge può viceversa risolversi in unalimitazione della libertà dell’uomo. Questo è probabilmente il motivo di fondo per il quale le regole monastiche piùantiche presentano, per lo più, caratteri ricorrenti di incompletezza e di frammentarietà, rinunciando a dettare unadisciplina completa e stabile.Rispetto a questo quadro di fondo spicca la Regola di S. Benedetto da Norcia che inaugura una stagione nuova nella storiadel monachesimo occidentale. Essa si distingue dalle precedenti proprio per la sua architettura complessa e poderosa,nella quale la dimensione giuridica comincia a farsi sentire. Questa Regola comincia con la delineazione della figuradell’abate che, nel monastero, “fa le veci del Cristo”. All’abate i monaci devono obbedienza, virtù necessaria per avviarsisulla strada della perfezione spirituale. In questa concezione verticale del poteree dell'autorità, si cominciano però adelineare anche i modi dell'elezione dell'abate e la possibilità per lo stesso di attivare deleghe nell'esercizio del suo potere. La Regola benedettina fungerà da stella polare per una molteplicità di vocazioni monastiche che popoleranno l'altomedio-evo cristiano. Solo molto più tardi, intorno al XI-XII sec, si assisterà ad un fiorire di movimenti religiosi che pretenderanno di fondare la propria specificità su di una nuova Regola. Le Regole diventeranno allora garanzia di libertà anche in quanto tenderanno a riflettere la specificità di ogni singola esperienza religiosa associata; ad esserne, per così dire, il manifesto di fondazione. Nel corso del XIII sec la Chiesa decide di intervenire e di porre il principio secondo il quale, per il futuro, solo le Regole riconosciute e approvate dalla Santa Sede avranno valore giuridico. CosìL'equazione regola-libertà ha funzionato in un duplice senso: quello di assicurare ordine all'interno delle varie esperienze di vita consacrata permettendo così la loro sopravvivenza anche dopo lo slancio iniziale; quello ulteriore di poter trovare loro stabile cittadinanza e, quindi, tutela della propria libertà entro l'ordinamento giuridico della chiesa.
2. Le garanzie che circondano l'elezione dell'abate p. 49 - 53
Nelle prime Regole monastiche non si trovano tracce rilevanti che consentano di individuare una procedura che regoli in maniera minuziosa i modi di elezione del capo del cenobio: la successione nella guida della vita associata avviene per diretta investitura del fondatore, prima, e degli abati, poi.
Già nella Regola di San Benedetto si rinvengono alcune indicazioni importanti: la prima garanzia posta a tutela dell'eccellenza della scelta operata nell'individuare l'abate è che su di essa-
converga non tanto il maggior numero di monaci, ma soprattutto coloro tra essi che più si avvicinano per profondità di sentire religioso, per eccellenza di vita condotta secondo la Regola e per maggior statura culturale a quell’ideale di perfezione cui la vita consacrata tende (principio della senior et maior pars). Viene stabilito, infatti, il principio secondo il quale tocca a tutta la comunità “concordemente secondo il timor di Dio” designare la figura adatta a ricoprire il ruolo di abate; in aggiunta viene stabilito che la scelta della persona che deve ricoprire tale ufficio può essere operata non solo da tutta la comunità, ma anche “da una parte di essa, sia pure piccola, ma con più savio consiglio”. Il dato di fondo è che se è vero che il diritto canonico appare orientato verso l’assunzione dell’unanimità nei propri sistemi elettorali perché in essa risalta senza dubbio
L'ispirazione divina, è anche vero che proprio lo sfavore con il quale esso guarda ad un principio di prevalenza numerica determina la nascita di altri modelli di riferimento elettorali, nei quali il principio maggioritario s'imporrà solo dopo molto tempo.
La seconda garanzia posta a tutela della miglior conduzione delle comunità che si ispirano all'esempio di S. Benedetto riguarda le qualità dell'abate. La Regola di S. Benedetto afferma: "chi deve essere costituito abate sia scelto in base alla dignità della vita e alla scienza delle cose spirituali, anche se fosse l'ultimo nell'ordine della comunità". La scelta è presieduta non da principi gerarchici consolidati ma dallo spirito di Dio, non riconducibile a criteri burocratici o a maggioranze definite da parametri umani.
La terza garanzia riguarda la possibilità di intervento nel processo elettorale dell'abate da parte di forze esterne-
All'abbazia stessa. Questa possibilità viene contemplata nel solo caso in cui i monaci eleggessero nell'ufficio diabate una persona non degna di tale compito. In tale ipotesi la Regola di S. Benedetto fa riferimento alla necessità di un intervento esterno, o del vescovo alla cui diocesi quel luogo appartiene, o degli abati, o dei cristiani vicini. Questa terza garanzia è l'unica che apre l'universo chiuso del monastero all'esterno. La Regola di S. Benedetto dettava in materia elettorale alcuni grandi principi cardine, ma non scendeva nei dettagli specifici, applicabili a tutti i monasteri. Era naturale quindi che col passare del tempo nascessero usi e consuetudini elettorali varie. Per questi motivi, spesso, le elezioni degli abati divennero causa di conflitti non risolti da una legislazione canonica precisa e dettagliata, ma definiti, volta a volta, in via giurisprudenziale.
Giurisdizione propria e indipendenza dalla chiesa gerarchica:
Gli statuti e la ricerca del modello elettorale ideale p. 53-57
Sin dal primo espandersi del monachesimo in Europa si pone il problema relativo al rapporto con la gerarchia ecclesiastica, segnatamente con l'autorità episcopale. In Italia e non solo, spesso questo rapporto non è avvertito in origine come conflittuale, dal momento che non era raro si verificasse il caso che vi fosse, tra i monaci di una determinata abbazia, il vescovo titolare. Dove, invece, il medesimo fosse estraneo ad un Ordine monastico, spesso si è assistito ad una dialettica che coinvolgeva direttamente il potere di giurisdizione del vescovo sull'abbazia. In queste dispute emergeva con chiarezza la linea di tendenza delle comunità monastiche ad essere autonome, esenti rispetto alla giurisdizione vescovile.
I punti salienti su cui sorgevano discussioni e dispute riguardavano, per lo più: l'ordinazione dei monaci; i poteri del vescovo nella conferma
dell'elezione dell'abate; - la facoltà dei chierici secolari di abbracciare la vita religiosa; - il diritto-dovere alla povertà; - la consacrazione delle chiese; - la cura delle anime; - l'alienazione dei beni del monastero. Di queste e altre questioni finirono con l'essere investiti i concili e i pontefici che cercarono, di volta in volta, di dettare delle norme in grado di risolvere questi conflitti. Normalmente questa contrapposizione tra vescovo e abate portava all'ottenimento di qualche privilegio a favore dell'abbazia: ciò tuttavia non risolveva il problema di fondo che era quello relativo alla pretesa di esenzione dei religiosi dalla giurisdizione episcopale. Già dal VI sec si può vedere come i monasteri fossero cresciuti in numero e dimensioni, sino a diventare dei centri di potere politico e religioso autonomo. Il tentativo di spogliare i monasteri dei loro possedimenti, fu l'altra molla che giocò unruolo determinante nell'applicazione dell'istituto dell'esenzione a favore di alcuni grandi monasteri. I primi fra essi a essere sottratti alla giurisdizione dell'ordinario e ad essere posti sotto la diretta tutela del pontefice romano furono quelli di Bobbio, Benevento, Monte Cassino, Fulda. In questo modo si passò, per diritto singolare e non comune, da un sistema privilegiato che ogni monastero contrattava con il vescovo del luogo, ad un sistema di esenzioni che assicurava piena e totale autonomia ad ogni singolo monaco. Per questa via si andarono poi configurando le abbazie nullius, i cui abati erano equiparati ai vescovi e, come tali, esercitavano potestà di giurisdizione sul territorio soggetto alla loro autorità. Naturalmente la possibilità di avere o no giurisdizione propria dipendeva dalla forza e dalla fama di cui una comunità godeva. La svolta a questo stato di cose si verifica con la fondazione dell'abbazia di Cluny,
che viene posta fin dall'origine sotto la giurisdizione del vescovo di Roma. Tecnicamente ciò fu possibile perché Guglielmo il Pio, attuando la sua intenzione di fondare un monastero da rimettere alla cura dell'abate Cernono, ne fece subito dono agli apostoli Pietro e Paolo.