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Procedura di esproprio e dichiarazione di pubblica utilità
N.B. Eventuali discussioni o fare osservazioni. = il Decreto di dichiarazione di pubblica utilità deve essere emanato entro il termine di cinque anni.
2) Dichiarazione di p.u. > Da questo momento in poi e cioè con l'emanazione del progetto definitivo, per effetto della dichiarazione di pubblica utilità, iniziano a decorrerne gli effetti che ne conseguono. È proprio in questa fase che avviene il famoso "affievolimento del diritto di proprietà del privato, in interesse legittimo". N.B. = alla dichiarazione di P. u deve seguire, in un termine prefissato, l'emanazione del decreto di esproprio e in mancanza del termine essa deve perentoriamente avvenire entro 5 anni.
3) Procedimento di esproprio > Inizia l'esproprio vero e proprio e si ha l'immissione in possesso del beneficiario. Si dispone il decreto, lo si notifica al proprietario e lo si trascrive nei registri immobiliari;
4) Indennità di espropriazione > Si
afferma qui il diritto del proprietario ad avere un ‘Il nodo dell’ espropriazione per pubblicaindennità che costituisca un congruo ristoro.utilità è sempre stato: “ Quanto pagare”( per la giurisprudenza in merito vedi pagineseguenti). La P.A interpella il proprietario espropriando e chiede una proposta diindennità, dopo aver adottato le determinazioni provvisorie le comunica al beneficiario.Se questi non accetta si tenta una conciliazione, se questa và a vuoto la P.A provvedecomunque a versare la somma disposta a titolo di indennità, presso la Cassa Depositi ePrestiti. L’ opposizione alla stima può essere effettuata dal proprietario o dall ‘entebeneficiario o dal concessionario, con citazione alla competente Corte D’Appello.L’ indennità risarcitoria alla luce dei recenti orientamenti giurisprudenziali e della Convenzione europea dei dirittiumani.La legislazione italiana riguardante
le espropriazioni per pubblica utilità, così come disposto dalla l. n. 359 del 08.08. 1992 consentiva che l'indennità da versare al proprietario in caso di espropriazione, fosse pari al 30% del valore di mercato, ulteriormente decurtato da un'imposta del 20%, con un risultato utile netto di circa il 24% del valore di mercato. Il testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità approvato con Decreto del Presidente della Repubblica n. 327 del 10 giugno 2002 ha apportato delle innovazioni solo dal punto di vista procedimentale ed organizzativo rimanendo immutato il precedente regime (per le aree edificabili espropriate ai fini della realizzazione di opere pubbliche semisomma del valore venale e decuplo del reddito dominicale con decurtazione del 40% evitabile in caso di cessione volontaria; per le aree non edificabili valore agricolo medio). Il regime del "valore venale pieno"continua a vigere solo nelle ipotesi di esproprio per la realizzazione di opere private di pubblica utilità e per l'esproprio di opere legittimamente edificate. Successivamente a tale data, precisamente nel 2004, la Corte Europea dei Diritti Umani ritenne tale legislazione incompatibile con la Convenzione dei Diritti Umani, disponendo la corresponsione di un'indennità aggiuntiva e di notevole importo. La stessa, nel 2006, con pronuncia di un Grande Camera, censurò i criteri di liquidazione delle indennità riparatorie, riconosciute dai giudici nazionali a favore dei soggetti espropriati, stabilendo un'indennità pari alla differenza tra il valore integrale del terreno e l'indennità ottenuta dai ricorrenti a livello nazionale (in aggiunta all'arivalutazione monetaria e agli interessi sulla somma via via rivalutata al netto di ogni imposta). Nel tempo si è assistito ad un vero e proprio "affinamento" della situazione.giurisprudenza della Corte dei diritti Umani la quale è pervenuta ad ulteriori e nuove argomentazioni rispetto alla iniziale formulazione normativa della limitazione del diritto proprietario.
Direttiva della Corte Europea dei Diritti Occorre fare una precisazione in merito: la Umani, così come affermato dalla Giurisprudenza nel ben noto caso Scordino (ricorso n. 36813/97) ha carattere generale, essendo rivolta allo Stato italiano affinché esso adotti tutte le misure, volte ad eliminare ogni ostacolo al conseguimento di un' indennità ragionevole in relazione al valore del bene espropriato, emanando nuove leggi e disposizioni amministrative e di bilancio idonee a realizzare l' effettiva e rapida realizzazione in capo ai ricorrenti interessati dei beni espropriati.
In seguito la Corte di Cassazione italiana con ordinanza n.
11887 del 2006, stabilì che: "Il Giudice nazionale non ha il potere di abrogare una legge dello Stato, né di disapplicarla etantomeno di creare una disciplina indennitaria sostitutiva della discrezionalità del legislatoredel legislatore nazionale, specie in una ipotesi in cui la norma della convenzione Europea nonappare dettagliata e precisa, ma solo programmatica di principi generali".
In ordine a ciò bisogna rilevare come in precedenza, nel 2003 si era pronunciato anche il ConsiglioSezione Prima del 9 aprile 2003)di Stato(Adunanza in materia di "Accessione invertita", affermando che: La Convenzione Europea dei diritti Umani, tutela il diritto di proprietà ma ne consente ilsacrificio per ragioni di pubblica utilità "nelle condizioni previste dalla legge e dai principigenerali di diritto internazionale", demandando al legislatore nazionale la disciplina dei casi edei modi di ingerenza della P.A nella
proprietà privata. Lo stesso Consiglio di Stato ribadì pure nella stessa sede come, è pur vero che il principio di legalità sia violato in caso di "accessione invertita" (e dunque l'amministrazione beneficiaria dell'"il tema della diretta accessione sia tenuta a subire le conseguenze del suo operato) ma applicabilità delle norme della Convenzione nell'ordinamento italiano presenta, allo stato, profili di incertezza tali da riflettersi sulla possibilità di prevedere con ragionevole sicurezza l'esito di un'azione di rivalsa sull'ente locale". Considerata la visione della Corte, i giudici nazionali tentarono d'introdurre i principi sanciti dalla Corte Europea dei Diritti dell'uomo, considerandoli come "parametro interposto" tra la norma ordinaria impugnata e l'art. 10 della Costituzione: ovvero sia invece d'impugnare una norma per contrasto diretto con
la Convenzione , i giudici tentarono di far valere la violazione dell'art. 10Cost., che, a sua volta, legittimerebbe le norme in essa contenute, considerate regole di diritto internazionale generalmente riconosciute. non accolto dalla Corte, in quanto Escamotagel'adattamento automatico nel nostro ordinamento avverrebbe per le norme internazionali consuetudinarie e non – come nel caso inspecie – per le norme pattizie, che, riconosciute con legge ordinaria, ne assumono la stessa forza (sent. 32/60 323/89; 342/1999).
Il problema si pose anche successivamente all'entrata in vigore della riforma costituzionale italiana del 2001, poiché l'art. 117 comma 1 stabilisce che "la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali". A questo punto la dottrina si è scissa in due.
orientamenti:- quella maggioritaria ritenne che la riforma costituzionale non avesse alterato il contenuto sostanziale degli artt. 10 e 11;
- altra parte considerò riduttiva tale interpretazione del nuovo art. 117 Cost., sostenendo, invece, che il nuovo testo costituzionale abbia attribuito anche a questi ultimi forza superiore alle norme di legge ordinaria.
Relativamente all'art. 117 comma 1 ed alla indennità di espropriazione la Corte di Cassazione sollevò innanzi la Corte Costituzionale alcune questioni di legittimità in particolare affermò che: L'art. 5 bis del d.l. 11 luglio 1992 n. 333 (conv. in l. 8 agosto 1992 n. 359), stabilendo un'indennità espropriativa ridotta, sarebbe lesivo del diritto di proprietà per violazione dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (ora tutelati dall'art. 117 Cost., comma 1, in quanto le norme della Convenzione divengono norme interposte).
Nel caso specifico, l'articolo 5 bis
Contrasterebbe con la disciplina sancita dalla Convenzione Europea dei diritti dell'uomo nella parte in cui, disponendo l'applicabilità, ai procedimenti espropriativi in corso e ai giudizi pendenti, dei criteri di determinazione dell'indennità in esso contenuti per i suoli edificabili, violerebbe il diritto a un giusto processo per il soggetto espropriato e, in specie, le condizioni di parità delle parti davanti al giudice, determinando altresì un ristoro inadeguato ed eccessivamente riduttivo del valore venale del bene espropriato.
In questo complesso quadro interpretativo si pongono le due "storiche" sentenze della Corte costituzionale n. 348 e n. 349 del 24 ottobre 2007.
La questione analizzata in entrambe le sentenze concerne l'indennità nelle due diverse ipotesi di espropriazione o di occupazione illegittima che condannano lo Stato italiano per l'insufficiente valore attribuito all'indennizzo.
soprattutto nel caso di occupazione acquisitiva. Nella sentenza n. 348 la conclusione a cui la Corte perviene è che la norma "la quale prevede un'indennità oscillante, nella pratica, tra il sottoposta a giudizio, 50 ed il 30 % del valore di mercato del bene, non supera il controllo di costituzionalità in rapporto al "ragionevole legame" con il valore venale, prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con il "serio ristoro" richiesto dalla giurisprudenza consolidata". Rimane altresì affidata al legislatore la determinazione di un'adeguata indennità, poiché, rispettando i ruoli, la Corte, come in tutte le precedenti sentenze in tema di espropriazione, sancisce l'illegittimità di quel determinato modo di computo dell'indennità fissato dalla norma incostituzionale, ma lascia al legislatore di stabilire come debba essere calcolata. Nella stessa sedeLa Corte ha affermato che "il legislatore non ha il dove".