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1. L’ARTE MEDIEVALE TRA MIMESI E ASTRAZIONE
La genesi dell’arte medievale si data tra V e VI secolo con la crisi della concezione naturalistica del periodo classico.
Il Medioevo era un “periodo di decadenza” riscoperto tra Ottocento e Novecento grazie alla Scuola di Vienna, che stava
ricercando i germi di una nuova espressività e di nuovi messaggi presenti in tutti i periodi stilistici; J. Strzygowsky scrisse
“Orient oder Rom”, opera nella quale sosteneva che l’arte medievale aveva influssi mediorientali oltre che romani, barbarici
e celtici.
L’opera dell’artista medievale è composita, concettualmente diversa da quella dell’artista classico, per il quale essa è unitaria:
si tratta, dunque, di una dialettica tra antico e moderno che rievoca un senso di lontananza; viene operata una
desemantizzazione dell’opera. Le trasformazioni dell’arte che porteranno all’arte medievale non saranno univoche.
Tipiche nell’arte medievale sono le proporzioni gerarchiche, il senso di horror vaqui e lo sviluppo della narrazione a fregio
continuo; i Vangeli erano considerati oggetti sacri essi stessi; l’oreficeria rappresentava l’arte capace di imbrigliare la luce e
imprimere negli oggetti l’essenza divina.
Per “tetramorfo” si intende la raffigurazione dei quattro viventi dell’apocalisse, cioè le figurazioni apocalittiche degli
evangelisti: angelo = Matteo; leone = Marco; bue = Luca; aquila = Giovanni.
Un altro meccanismo tipico del Medioevo è la copia: chi copia le opere attribuisce loro un significato nuovo e personale, per
questo non era un’operazione mal vista (come al contrario sarà nel Rinascimento); tuttavia, copiare può portare una
travisazione delle iconografie. In età carolingia si ha lo sviluppo della copia dei libri.
La resa dei colori è affidata anche a ombre e chiaroscuri; ad un certo momento si ha la scomparsa delle ombre, ed una loro
riacquisizione nel 1320 in alcune opere datate, come in Masaccio o Lorenzetti, oppure in casi sporadici dalla datazione incerta,
come a Castelseprio.
Procedendo cronologicamente il disegno diventa una sorta di schema grafico, con tentativi di rendere la prospettiva: c’è quindi
una perdita della terza dimensione e contemporaneamente la ricerca di essa.
La nascita dell’arte medievale combacia con la nascita dell’arte paleocristiana.
Le icone più antiche sono quelle del Sinai, archetipo di quelle bizantine, con colori acquarellati e una tendenza all’astrazione
geometrica; i volti dei santi sono riportati frontalmente per una maggiore sacralizzazione, con segni naturalistici che verranno
trasformati in grafismi dai Bizantini per allontanare le figure da un aspetto troppo carnale. Si procede verso una pittura
compendiaria, chiara da lontano e più confusa da vicino, che meglio si accorda con la rappresentazione dei santi. Esistono poi
icone “di transizione”, tra un naturalismo ancora presente e le prime astrazioni.
La “Deesis” è la rappresentazione della Vergine e del Battista che intercedono presso Cristo nel giorno dell’apocalisse.
Il modo di rappresentare dipende dalla funzione che le immagini vanno ad assumere e a dove sono esposte. La maggior parte
delle opere ci sono giunte spogliate della policromia originale e parti complementari. Le tessere musive disposte casualmente,
di diverse dimensioni ed effetti luministici, conferiscono pittoricità.
Prima del momento paleocristiano, i cicli di affreschi teofanici, cioè con manifestazioni della divinità, esplicite o implicite,
erano a sé stanti con significati diversi; in seguito acquistano il senso diacronico della continuità.
2. LA RISCOPERTA DEI DATI DI NATURA, LA RESA DELLO SPAZIO
Tra Duecento e Trecento si sviluppa una riacquisizione del naturalismo (nel periodo gotico) con una forte presenza anche di
bizantinismi; ci fu una riscoperta delle arti, una su tutte la pittura con Giotto, artista che ebbe ripercussioni in tutti gli ambiti
e catalizzò le tendenze che in quel periodo stavano maturando, e una rivalutazione del ruolo dell’artista.
Venezia nel 1300 è l’ultimo baluardo dell’arte musiva, una tecnica tramandata di generazione in generazione (Scuola
veneziana).
Con Giotto si ebbe la riscoperta della terza dimensione e una nuova resa degli affetti, senza la necessità di estremizzare la
mimica per comunicare le emozioni, per la verosimiglianza delle figure che permette aspetti più sfumati.
L’arte bizantina è la massima custode del retaggio classico a livello di formulario e termini iconografici.
Nel cuore del Duecento, quando nella scultura si stavano sviluppando i volumi, nella pittura c’era ancora una recrudescenza
degli stilemi più astratti e schematici; dal Trecento “si parlerà giottesco”, anche se all’inizio del secolo questo non venne
compreso. Vasari, Cennini, Dante e Petrarca celebrarono Giotto e, con Boccaccio, anche il ruolo dell’artista. Giotto diede vita
ad una scuola che promuoveva la personalizzazione delle opere, diversamente da quelle di retaggio bizantino. Verso l’arte
antica non c’è ora un senso di soggezione ma di aperta sfida e di miglioramento. Secondo Ghiberti Giotto non uscì mai dalle
“giuste proporzioni” e sfumature, in modo antitetico a quelle “urlate” del Duecento, che gli garantirono una resa più profonda.
Nel ciclo di San Francesco, ad Assisi, si trovano incorniciature pregiottesche grafiche e potenti loggiati giotteschi, i modiglioni
che, in seguito, saranno sempre applicati; c’è un’idea del loggiato come cerniera illusionistica, “la cornice è una finestra aperta
sul reale”. Tutto il Trecento è innervato dalla poesia dello spazio; diversamente da Giotto, Cimabue riesce poco o nulla a
rendere i volumi o lo spazio. Giotto lavora anche su uno studio della luce e delle ombre, che aiutano a creare i volumi,
diversamente dalle ombre bizantine. La riconquista dei volumi è il nuovo strumento per costruire una lingua che coinvolge
tutte le qualità espressive della figurazione.
Le premesse di tante iconografie si trovano nel mondo bizantino, ma col procedere dei tempi i temi ripresi sono rappresentati
diversamente.