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La rivista di moda da un lato presenta i significati (la moda, la primavera) come qualità
inerenti le forme che cita, suggerendo ad esempio che c’è una sorta di causalità fisica
fra la moda e il blu. Da un altro lato, riconduce il significato a una semplice funzione
utilitaristica (un cappotto per il viaggio). La fraseologia della rivista di moda tende
sempre a trasformare lo statuto linguistico del vestito in uno statuto naturale o
utilitaristico, a investire nel segno un effetto o una funzione: si tratta di trasformare
una relazione arbitraria in una proprietà naturale. La rivista di moda usa di continuo
funzioni-segno: la funzione non può essere separata dal suo segno: un impermeabile
protegge dalla pioggia (funzione) ma anche notifica la sua natura di indumento da
usare al momento della pioggia (segno).
Il nostro compito è quindi quello di ridurre la fraseologia della rivista di moda: quel che
apparirà sono relazioni semplici tra alcuni significanti e alcuni significati. Mentre i
significanti appartengono a un ordine fisico che è il continuum vestimentario, i
significati sono dati mediante un ordine scritto, attraverso tutta una letteratura. Il
significante e il significato, quindi, non appartengono allo stesso linguaggio. Ora, il
duplice sistema stabilito tra un linguaggio (forme vestimentarie) e un metalinguaggio
(la letteratura di moda) obbliga a una doppia descrizione. Lo studio dei significati
riguarda una mitologia generale della moda. Lo studio dei significanti riguarda una
semiologia nel senso stretto del termine.
Nella maggior parte degli altri sistemi di comunicazione, il sistema propone una
catena di significanti senza nominare in altro modo i loro significati. Nel vestito,
invece, l’autonomia dei significati, isolati, staccati dal significante costituisce
un’economia metodologica considerevole. Visto che i significanti mi vengono dati da
un lato e i significati dall’altro, è come se mi si desse al contempo un testo e il suo
lessico: mi sarà sufficiente partire dai segni per definire i significanti, ossia per isolarli.
In seguito, mi basterà trovare all’interno di ciascuna unità, i tratti la cui opposizione
genera la significazione (blu/rosso) per cogliere l’intera struttura significante del
vestito. È possibile riconoscere due fasi dell’analisi strutturale: l’inventario delle unità
significanti e il ritrovamento del paradigma delle opposizioni pertinenti a ciascuna
unità, segmentazione sistematica da una parte, costruzione sistematica dall’altra.
Spesso la rivista di moda offre significanti puramente grafici, ponendo delle relazioni
dimostrative tra significante e significato (questo tailleur disinvolto, quest’abito
elegante), l’unico modo per il lettore di scoprire le unità significanti è di individuare
delle ripetizioni: a forza di veder ritornare una certa zona del messaggio identica a se
stessa, egli riesce a individuare in essa un medesimo senso.
Si deve poter sempre definire in una significazione di moda l’oggetto che prende di
mira. Spesso accade che l’oggetto stesso della significazione non venga notificato: la
significazione sta nell’insieme, nella tenuta, nell’intera persona vestita. Il termine
materiale della relazione mescola spesso funzioni diverse. I supporti della
significazione hanno una grande importanza nel lessico della moda; talvolta restano
indefiniti ma la maggior parte delle volte la rivista tende a precisarli. L’indumento
sostiene la significazione senza partecipare ad essa: esso è o oggetto o supporto della
significazione. La lingua non conosce alcun supporto di significazione: la parola non
sostiene il senso poiché essa è il senso. c’è tuttavia un piano in cui la lingua raddoppia
il discorso e trasforma la catena verbale in semplice supporto del senso: la scrittura.
Nella scrittura il discorso ha sempre un senso letterale e supporta una significazione
supplementare, il cui significato è la Letteratura. È il caso del vestito di moda, benché
qui il senso letterale faccia nella maggior parte difetto, lasciando esistere solo il senso
mitologico.
Una relazione completa deve fornirmi tre indicazioni:
1. Un significante;
2. Un significato;
3. Un supporto di significazione.
Conviene però prima stabilire le classi omogenee di significanti, senza curarsi della
loro sostanza, ossia dei loro significati.
Dal gioiello al bijou
Per molto tempo il gioiello è stato una sostanza minerale: diamante, pietra preziosa,
oro, veniva sempre dalla profondità della terra. Proprio per la sua origine, il gioiello era
un oggetto infernale. Estratto dall’inferno, il gioiello ne ha assunto il carattere
fondamentale: l’inumanità. In quanto pietra, esso era soprattutto «durezza» e
immobilità infinita, oltre che essere imperturbabile. Il diamante è al di là del tempo,
indeperibile, incorruttibile, la sua limpidezza è l’immagine morale della purezza. Il
diamante è puro, pulito, asettico. Oltre a queste qualità, il diamante seduce: brilla.
Ecco che viene inserito in un nuovo tema magico e poetico: quale simbolo migliore del
diamante per rappresentare l’ordine mondano delle vanità, della seduzione senza
contenuto, dei piaceri senza verità.
L’oro, benchè proveniente dalla terra e dall’inferno, è una sostanza più intellettuale
che simbolica, ha poca realtà poetica. Però è il segno per eccellenza: è il valore
assoluto, dotato di tutti i poteri, compresi quelli un tempo detenuti dalla magia: può
appropriarsi di tutto.
In fondo, il gioiello è stato a lungo segno di ultrapotenza, cioè di virilità. Perché da noi
è associato alla donna? L’uomo ha ben presto delegato alla donna l’esposizione della
propria ricchezza: la donna testimonia la ricchezza e la potenza del marito. La
primitiva esposizione della ricchezza si è intrecciata con tutta una mitologia della
donna: la donna si perde per il possesso dei gioielli e l’uomo si danna per la donna, la
quale indossa gli stessi gioielli per cui si è venduta. La donna si dà al diavolo, l’uomo si
dà alla donna, divenuta essa stessa pietra preziosa e dura. Una tale simbologia non
appartiene solo ai tempi barbari del nostro Occidente: tutta la società del secondo
Impero si è inebriata ed è impazzita a causa del potere dei gioielli. Ancora oggi questa
mitologia non è scomparsa del tutto. Ma il tema infernale è in declino. La mitologia
della donna è cambiata: nel romanzo, nel cinema, la donna è meno fatale, non
distrugge più l’uomo, non è più possibile considerarla inanimata: ha raggiunto l’ordine
umano. Inoltre, i gioielli non si portano quasi più. La moda non conosce più il gioiello
ma soltanto il bijou. Così come il gioiello della società antica esprimeva la sua natura
teologica, allo stesso modo il bijou di oggi si è laicizzato. Questa secolarizzazione ha
toccato la sostanza stessa dei bijoux: essi non sono più fatti solo di pietre o metallo,
ma anche di materiali fragili come il vetro e teneri come il legno. Inoltre, non
esibiscono più in modo uniforme un prezzo disumano e quando imitano materiali
preziosi, lo fanno senza vergogna. L’imitazione, caratteristica della civiltà capitalistica,
non è un modo di mostrarsi ricchi a buon mercato, non mira a ingannare, ma solo a
mantenere le qualità estetiche della materia imitata. Il bijou, quindi, non più soggetto
alla legge del prezzo alto né a quella di un uso festivo, è diventato democratico. Nelle
nostre società democratiche, quando una cosa diventa alla portata di tutti, bisogna
che sia sottoposta a una discriminazione diversa: quella del gusto, non più del valore.
Oggi abbiamo dunque bijoux di cattivo gusto: esso è individuato nell’ostentazione di
ciò che un tempo ne fondava il prestigio e la magia: il prezzo. Perché un bijou costoso
sia di buon gusto, bisogna che la sua ricchezza sia discreta.
In cosa consiste dunque il buon gusto per un bijou di oggi? Esso deve essere pensato
in relazione all’insieme dell’abbigliamento: il bijou non è più solo, fa parte ormai del
vestito. Il bijou regna sul vestito non perché è prezioso in sé, ma perché concorre a
renderlo significante. Ad essere prezioso è il senso di uno stile, e questo senso dipende
non dai singoli elementi, ma dal loro rapporto.
La fine del dandismo
Per molti secoli, ci sono stati tanti vestiti quanti classi sociali. Cambiarsi d’abito
significava cambiare al tempo stesso modo d’essere e classe sociale. subito dopo la
Rivoluzione, il vestito maschile è mutato profondamente, non solo nella forma ma
anche nello spirito: l’idea di democrazia ha prodotto un vestito teoricamente uniforme,
sottoposto non più alle dichiarate esigenze dell’apparire ma a quelle del lavoro e
dell’eguaglianza: il vestito moderno è un vestito pratico e dignitoso, deve essere
adatto a qualsiasi situazione lavorativa. Tuttavia, la separazione delle classi sociali non
è stata cancellata: il nobile si è dovuto adeguare, cercando di mantenere entro un tipo
ormai universale, un certo numero di differenze formali. Proprio in questo momento
compare nell’abbigliamento una nuova categoria estetica, il dettaglio. È il dettaglio a
raccogliere la funzione distintiva del costume: non essendo più possibile manifestare
la propria superiorità di stato sociale, la si maschera e la si sublima con un nuovo
valore: la distinzione. L’uomo distinto aggiunge all’uniforme del secolo alcuni segni
discreti. Il dandy porta la distinzione alle sue estreme conseguenze: il dandy non
oppone la classe superiore a quella inferiore, ma l’individuo al volgare. Soltanto lui sa
leggere il proprio abbigliamento ed è condannato a inventare senza sosta tratti
distintivi infinitamente nuovi. Se in certi casi usa la ricchezza per distaccarsi dai
poveri, in altri va in cerca dell’usura per prendere distanza dai ricchi. È sempre la
funzione del dettaglio che gli consente di rifuggire dalla massa senza essere mai
raggiunto. Il dandy non deve mai cadere nell’eccentricità, in quanto tale facilmente
imitabile. Il dettaglio consentiva di rendere «altro» il proprio vestito. I modi di portare
un vestito sono infatti limitati, e se non intervengono alcuni dettagli di manifattura, le
innovazioni della tenuta si esauriscono ben presto. È quel che è successo quando il
vestito maschile è diventato industriale: privato di ogni ricorso all’artigianato, il dandy
ha dovuto rinun