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LA LIBERTÀ RELIGIOSA
In un ordinamento costituzionale, perché la libertà religiosa possa ritenersi garantita non è sufficiente un atteggiamento di mera tolleranza verso il fattore religioso, al contrario essa può dirsi tutelata solo quando visiano i presupposti per il suo effettivo godimento, in condizioni di eguaglianza sostanziale e nel pieno rispetto del principio di laicità del nostro Stato.
La libertà religiosa però, nel diritto penitenziario, deve fare i conti sia con logiche di sorveglianza, di sicurezza e di soggezione speciale proprie di tali luoghi, sia con le peculiarità dell'ordinamento che ancora risente lacune nei rapporti tra Stato e altre confessioni religiose oltre quella cattolica. Già lo Statuto albertino, nel riconoscere la religione cattolica come la sola religione di Stato, aveva previsto che gli altri culti fossero solamente tollerati. Il Regolamento generale per le Case di pena del regno del
1862 introdusse la figura del cappellano che era chiamato, oltre ad assicurare l'adempimento delle pratiche religione, doveva anche sovraintendere alla svolgimento dell'istruzione scolastica e annotare su un apposito registro la condotta dei detenuti, in qualità di personale aggregato alle dipendenze del direttore della casa di pena. In seguito l'impiego della religione cattolica a fini disciplinari fu pienamente ratificato dal fascismo, il nuovo Regolamento del 1931 confermò sia l'obbligo per i detenuti di seguire le funzioni di culto cattolico, ad eccezione di coloro che al momento dell'ingresso nello stabilimento avessero dichiarato di appartenere ad altra religione, sia il divieto di pronunciare le preghiere ad alta voce.
Quando nel 1948 entrò in vigore la Costituzione repubblicana, per molti anni non fu ostacolo né al permanere, all'interno dell'ordinamento carcerario, di un uso strumentale e istituzionale della religione cattolica,
ne tantomeno al mantenimento di vistose diseguaglianze nell'esercizio della libertà religiosa e di coscienza. La normativa regolamentare rimase a lungo invariata, nonostante l'espressione enunciata nella Costituzione della reciproca indipendenza e sovranità dello Stato e della Chiesa cattolica (art. 7 cost), dell'eguaglianza di fronte alla legge di tutte le confessioni religiose (art. 8 cost) e del divieto di discriminazione in base alla religione (art. 3 cost), del riconoscimento di libertà religiosa, inclusa quella di culto (art. 19 cost) e del divieto delle persone recluse di sottoporsi a restrizioni fisiche o morali (art. 13 co. 4 cost) e del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità (art. 27 co. 3 cost). Risultavano incompatibili con il dettato costituzionale le disposizioni regolamentari che, in ossequio alla concezione istituzionale e strumentale della sola religione cattolica, prevedevano la partecipazione obbligatoria alle pratiche.collettive di culto cattolico per coloro che al momento dell'ingresso in carcere non avessero dichiarato di appartenere ad altra confessione religiosa. Per l'ipotesi di cambiamento di religione erano inoltre previste la richiesta scritta del detenuto e la successiva valutazione del direttore dell'istituto. Nel 1966, venne sollevata l'illegittimità costituzionale in quanto si lamentava l'illegittimità di queste pratiche (R.D. 787/1931) per contrasto con l'art. 19 e 21 Cost., in particolare perché la libertà del detenuto di professare una religione diversa da quella cattolica non poteva essere condizionata da una richiesta al momento dell'ingresso in istituto, perché non poteva essere negata la libertà del detenuto di non professare alcuna religione e perché non potevano essergli negati i diritti relativi alle libertà fondamentali garantite dalla costituzione; la Corte dichiarò comunque.inammissibile la questione in quanto aveva ad oggetto la disposizione di un atto regolamentare. La Corte in ogni caso sottolineò che le norme regolamentari, quando sono ritenute illegittime perché contrastanti con la Costituzione, possono e devono essere disapplicate. Dunque l'anno successivo, con una circolare amministrativa del 1969 si dispose la disapplicazione dell'art 142 R.D 1931 e degli articoli sull'obbligo di scelta della fede religiosa all'atto d'ingresso e quella che prevedeva che i minorenni dovessero seguire la religione nella quale sono nati.
Con la riforma dell'ordinamento penitenziario 354/1975 fu riconosciuta alle persone detenute la libertà di professare la propria fede religiosa, di istruirsi in essa e di praticarne il culto (art 26 co.1 o.p); non potendo loro imporsi alcuna partecipazione ai riti religiosi. Fu tuttavia mantenuta una differenza rilevante tra la confessione cattolica e le altre confessioni religiose.
infatti l'art 26 dispone che negli istituti penitenziari siano assicurate la celebrazione dei riti del culto cattolico e la presenza di almeno un cappellano (co. 2 e 3 o.p). Invece agli appartenenti ad una religione diversa dalla cattolica si è riconosciuto il diritto di ricevere l'assistenza dei ministri del proprio culto e di celebrarne i riti ma soltanto su espressa richiesta. In ogni caso la religione è riconosciuta come uno degli elementi positivi del trattamento ex art 15 o.p. Rimane una forte differenza tra i diritti dei detenuti cattolici e quelli appartenenti ad altra confessione religiosa, nella quale vi è un'ulteriore differenza tra quelli appartenenti a confessioni munite di intesa con lo Stato e quelle appartenenti a confessioni senza intesa. Prima di tutto, mentre è prevista la presenza di almeno un cappellano in ciascun istituto penitenziario (art 26 co. 3 o.p) i detenuti appartenenti ad altra confessione religiosa hanno il diritto
di ricevere assistenza da parte di un ministro del proprio culto e di celebrarne i riti, ma per potersi avvalere di tale diritto devono farne preventiva richiesta (art 26 co.2 op). Il cappellano inoltre è influente nel modificare il regolamento d'istituto con il quale si disciplinano le modalità del trattamento (art 16 co. 2 o.p). La presenza del cappellano all'interno del carcere come figura istituzionale incide sull'aconfessionalità cui dovrebbero essere improntati l'ordinamento penitenziario e il relativo trattamento. In uno Stato laico, l'inclusione della religione tra gli elementi del trattamento e la sua convalida istituzionale attraverso la presenza del cappellano non hanno giustificazione e si mal attagliano a quanto affermato dalla corte cost "la religione e gli obblighi morali che ne derivano non possono essere imposti come mezzo al fine dello Stato" sent. 334/1966. Il regolamento d'esecuzione dispone in termini
generali che alle persone detenute è consentito sia praticare, durante il tempo libero, il culto della propria professione religiosa, purché non si esprima in comportamenti molestie per la comunità e anche esporre in camera immagini e simboli della propria religione. In realtà pur essendo previsto per la partecipazione ai riti, un limite valido per tutto (compatibilità con l'ordine e la sicurezza dell'istituto e la non contrarietà alla legge) esso è destinato a pesare in maggior misura sulle persone detenute che professano una fede diversa da quella cattolica, soprattutto se non è sprovvista di intesa con lo Stato. Per la celebrazione del culto cattolico, che è garantito a prescindere dalla richiesta, ogni istituto è dotato di una o più cappelle. Coloro che professano una religione diversa da quella cattolica, al contrario, hanno diritto a ricevere l'assistenza di un ministro di culto e dicelebrarne i riti ma è un diritto condizionato e questo presuppone che i detenuti siano effettivamente a conoscenza dei diritti garantitigli in questo ambito. Inoltre possono servirsi per l'istruzione religiosa e per le pratiche di culto, in assenza dei ministri, di locali idonei ma spetta alla direzione dell'istituto mettere a disposizioni il relativo spazio, cosa che è di difficile attuazione in un sistema caratterizzato da un rilevante sovraffollamento carcerario. Per ultimo, dal momento che all'interno degli istituti non esiste una struttura permanente come quella del cappellanato, che è alle dipendenze dell'A.P e a carico dello Stato (i cappellani sono personale aggregato legati all'A.P. da un rapporto di servizio di diritto speciale), la direzione dell'istituto si avvale dei ministri di culto indicati dalle confessioni religiose i cui rapporti con lo Stato siano regolati con legge ovvero dei ministri di culto indicati dal Ministero.dell'interno (Regolamento esec. 2000) oppure ci si avvale del meccanismo ex art 17 o.p. Nel caso di leggi di approvazioni di intese finora stipulate, i ministri di culto sono designati dalle rispettive confessioni religiose, e una volta inclusi negli elenchi dei responsabili dell'assistenza spirituale negli istituti penitenziari, possono visitarli senza necessità di particolari autorizzazioni su richiesta delle persone detenute, dei familiari o su iniziativa degli stessi ministri di culto. Per le confessioni sprovviste di intese innanzitutto l'art 58 D.P.R 230/2000 prevede che il direttore d'istituto si avvalga anche dei ministri di culto indicati dal Ministero dell'Interno, in questa ipotesi però serve una specifica richiesta di ingresso ed è necessario il nulla osta da parte della direzione degli affari dei culti dello stesso ministero. Inoltre è previsto anche il meccanismo ex art 17 o.p. per le confessioni religiose sprovviste di intese.che prevede la partecipazione all'azione rieducativa da parte di "privati e di istituzioni o associazioni pubbliche e private", tali soggetti sono ammessi a frequentare gli istituti penitenziari con l'autorizzazione e secondo le direttive del Magistrato di sorveglianza, su parere favorevole e controllo del direttore di istituto. Dunque: 1) Sempre previa autorizzazione 2) Difficoltà di conoscere le disposizioni e la possibilità di esercitare il diritto stante il pluralismo linguistico Le problematiche emerse riguardano soprattutto la fede islamica, soprattutto per l'impossibilità di adattare bene la nozione di "ministro di culto" e di "confessione religiosa" stante l'organizzazione non verticistica, frammentata e localistica delle comunità islamiche. Per altro, in assenza di un'intesa con lo stato, ciò ha fatto emergere ostacoli nell'individuazione dei soggetti ammessi a prestare.sso dei ministri di culto islamici nelle carceri italiane, è necessario seguire i seguenti passaggi: 1. Presentare una richiesta scritta al Ministero della Giustizia, specificando l'intenzione di diventare un ministro di culto islamico per i detenuti. 2. Allegare alla richiesta una copia del proprio curriculum vitae, che includa informazioni sulla formazione religiosa e sull'esperienza nel campo dell'assistenza spirituale. 3. Fornire anche una lettera di presentazione da parte di un'autorità religiosa riconosciuta, che attesti la propria idoneità e competenza nel ruolo di ministro di culto islamico. 4. Sottoporsi a un colloquio con una commissione di valutazione, composta da rappresentanti del Ministero della Giustizia e da esperti nel campo dell'islam. 5. Superare un esame teorico-pratico, che verifichi la conoscenza delle dottrine islamiche e la capacità di fornire assistenza spirituale ai detenuti. 6. Ottenere l'autorizzazione del Ministero della Giustizia per l'ingresso nelle carceri italiane come ministro di culto islamico. Una volta ottenuta l'autorizzazione, il ministro di culto islamico potrà svolgere le proprie funzioni all'interno delle carceri, offrendo assistenza spirituale ai detenuti di fede musulmana.