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PASOLINI E FERRERI, IL CINEMA DELLA CRDELTÀ
Parallelamente a questi tre grandi maestri, una generazione appena più
giovane si affaccia nel cinema italiano. Uno dei giovani esordienti è Pasolini.
In “Accattone” e nel secondo film (“Mamma Roma” – 1962) descrive la vita e
la morte di due ragazzi di strada, ma in entrambe le opere la musica e la
pittura religiose gli servono per santificare queste figure e collocarle su un
piano simbolico, a rappresentare tutta l’umanità. Più tardi rielabora alcuni
grandi miti della letteratura classica, “Edipo re” (1968) e “Medea” (1969), o
rilegge le grandi opere letterarie del passato, con la “trilogia della vita” (“Il
Decameron”, “I racconti di Canterbury”, “Il fiore delle mille e una notte”). A
questa doveva seguire una ben più truce “trilogia della morte”, di cui l’autore
poté realizzare solo la prima parte, “Salò, o le 120 giornate di Sodoma”
(1975), un film tuttora feroce e inguardabile in cui 4 gerarchi fascisti si
chiudono in una lussuosa villa veneta per compiere, sui corpi nudi di 10
ragazzi e 10 ragazze, gli atti sessuali più perversi. Ma nella sua opera, il
punto costante è l’inquadratura come opera pittorica.
Negli anni ’50 all’ombra del neorealismo aveva esordito anche Marco Ferreri
con “La cagna” (1971), “Il seme dell’uomo” (1969), “Break up” (1969), che
sono studi gelidi e crudeli sull’assurdità dell’uomo e della vita umana, fino ai
due capolavori: “Dillinger è morto” (1969), in cui un ingegnere passa una
notte insonne a cucinare a mangiare, al termine della quale uccide la moglie
e parte per i Mari del Sud, e “La grande abbuffata” (1973), in cui 4 borghesi si
chiudono in una villa e mangiano fino a morire di indigestione.
OLMI POETA DEI POVERI. IL DOCUMENTARIO ANTROPOLOGICO
Un altro erede del neorealismo che esordisce negli anni ’60 è Ermanno Olmi.
“Il posto” racconta la vita di un giovane di campagna che scopre la nuova e
grande Milano. Anche “L’albero degli zoccoli” sarà un grande poema sui
poveri e sugli umili. IL TORMENTO DEI GIOVANI 72
Bellocchio con “I pugni in tasca” (1965), dove un giovane epilettico uccide la
madre cieca, provoca un vero e proprio scandalo. Ma “I pugni in tasca” è
ancora oggi un film di grande valore per il modo assolutamente nuovo di
usare la cinepresa, che guarda da vicino i personaggi, e per le tecniche di
ripresa un po’ sciatte, trascurate. La critica alla più grande istituzione sociale
di tutto il mondo viene quindi dall’interno, come se un giovane filmasse i
propri familiari, in casa propria. Quello di Bellocchio sarà sempre un cinema
dell’ombra e della penombra, che studia l’ambiguità del comportamento
umano (“L’ora di religione” - (2002); “Buongiorno notte” – (2004); “Il regista di
matrimoni” – (2006)).
Più vicino al cinema francese, Bertolucci con “Prima della rivoluzione” (1964)
costruisce la figura di un giovane borghese che si crede rivoluzionario, ma poi
sposa una donna ricca e accetta tutto quello che aveva rifiutato. Ma saranno
“Il conformista” e “Strategia del ragno” (1970) i suoi due capolavori. Nel primo
mostra la potenza del passato e del fascismo; nel secondo la potenza della
finzione. Più tardi, con “Ultimo tango a Parigi”, affronta i grandi temi della
malinconia, dell’erotismo e della morte e, in “Novecento” (1976) l’epica lotta
fra padroni e contadini. Bertolucci è poi tornato a un cinema sperimentale con
“L’assedio” (1999).
Uno dei grandi innovatori del cinema di tutto il mondo è stato Sergio Leone,
che inizia con i western all’italiana, in cui realizza una dilatazione quasi
mostruosa del tempo, con i personaggi che si guardano fissi a lungo prima di
agire, e con una altrettanto forte dilatazione dello spazio, attraverso una
profondità di campo davvero insolita (“Per un pugno di dollari”, “Per qualche
dollaro in più”, “Il buono, il brutto e il cattivo”).
In tempi più recenti, Salvatores ha descritto con forme e stile molto vicini al
surrealismo le ansie e il bisogno di fuga di una generazione le cui ribellioni
sono fallite (“Mediterraneo”, “Marrakech Express”, “Puerto escondido”) o le
emozioni dei bambini alle scoperte della criminalità moderna (“Io non ho
paura”). 13. LA NASCITA E LA DIFFUSIONE DEL CINEMA
MODERNO. L’ABBANDONO DELLE FORME MIMETICHE
MODERNITÀ E SOGGETTIVITÀ
Il cinema, fin dall’inizio del ‘900, aveva abbandonato il narratore onnisciente.
Aveva incrinato o addirittura demolito l’unità dell’azione e del personaggio.
Nasce, a partire dagli anni ’50, un cinema che, oltre a raccontare, riflette sui
suoi stessi strumenti di narrazione e di rappresentazione.
Potremmo chiamarlo cinema della modernità. Le due principali
caratteristiche: 1) sguardo sulla realtà; 2) riflessione sull’atto stesso del
guardare. Il narratore debole: frammenti, voci, storie possibili 73
Nel cinema moderno si ha spesso l’impressione che le storie siano
raccontate “male”. Il desiderio di sapere rimane spesso frustrato. Il narratore
non è più al posto di Dio, ma è debole.
A volte le voci dei narratori si moltiplicano o si contraddicono.
Le voci fuori campo di personaggi sconosciuti sono anche state definite
acusmatiche (suono senza origine).
La voce acusmatica può essere anche quella di un personaggio che ci
racconta la sua storia dopo che questa è già finita.
Nel cinema moderno proliferano le disinquadrature, in cui certe cose o
persone rimangono fuori campo intenzionalmente. La visione è solo parziale.
Spesso la narrazione divaga alla ricerca di una storia che ancora non c’è. È
quella che è stata chiamata “immaginazione narrativa”, quando il cinema
segue percorsi vaghi, storie possibili.
Cinema di poesia
Pasolini dirà che il cinema di poesia consiste nel “far sentire la macchina da
presa”. In effetti potremmo definire il cinema moderno anche come un cinema
di poesia, cinema soggettivo. È cinema della trasgressione.
Fra le trasgressioni, troviamo spesso il fuori fuoco, che diventa un segno
della presenza di un osservatore, come pure il controluce e lo sguardo in
macchina.
La presenza della cinepresa si avverte anche nella “durata media delle
inquadrature”, che aumenta considerevolmente dopo Renoir e Visconti.
Il cinema moderno esalta la potenza espressiva dell’inquadratura anche e
soprattutto attraverso la negazione e i limiti della visione.
Una storia e un protagonista che a volte si smarriscono
Il cinema moderno impara a scomporre la storia sotto il profilo dei vari punti di
vista, scoprendo che esistono molte verità.
Il protagonista non è più un eroe, e perde anche la sua posizione centrale.
Il protagonista moderno non è un uomo d’azione, è una donna che si guarda
intorno (es. “L’avventura”), che ci aiuta a vedere il mondo circostante.
Spazio, tempo e personaggi
Per Cocteau, il cinema mostra il tempo che scorre, le cose che cambiano,
nascono e muoiono, ed è questo che emerge negli autori moderni. Spazio e
tempo diventano protagonisti.
Nel film “Il silenzio” (Bergman – 1963), tre persone in viaggio si fermano
nell’albergo di un paese straniero. Non accade niente.
Dreyer: la lentezza del gesto
Il film più importante di Dreyer, dopo “La passione di Giovanna d’Arco” e
“Vampyr”, è “Dies Irae” (1942), che ha uno stile modernissimo. Dreyer crea
un’atmosfera di incubo solo con la semplice lentezza dei movimenti. La
74
protagonista viene accusata di stregoneria e condannata, ma la cinepresa
invece, con la sua lunga e continua osservazione, condanna il mondo in cui
lei vive. Dreyer realizza nel 1955 un altro capolavoro, “Ordet” (“La parola”),
girato quasi tutto in due stanze. Nell’ultimo film, “Gertrud” (1964), la cinepresa
segue sempre silenziosa e quasi devota la protagonista nelle sue tre storie
d’amore, e termina con la donna ormai anziana, sola nella sua piccola casa. Il
cinema di Dreyer è un grande monumento alla sensibilità della donna e alla
sensibilità della cinepresa.
Gertrud (Carl Theodor Dreyer, 1964)
Gertrud è una ex cantante, moglie di un ricco avvocato, ma decide di lasciare il marito
perché innamorata di Erland, un giovane pianista. Vuole andare a vivere con lui, ma si
accorgerà subito che il giovane la considera solo una conquista fra le tante. Gertrud
malinconicamente decide di andare a vivere sola. Sola, dopo molti anni, Gertrud riceve
la visita del filosofo Axel, suo eterno innamorato, mai ricambiato. Parlano dell’amore.
Gertrud è un’incarnazione del personaggio moderno, chiuso nel suo silenzio misterioso
e malinconico.
Le pareti sono nude, le parole sono rare e anche l’azione è del tutto assente: i
personaggi se ne stanno fermi a lungo, ad ascoltare. A questo corrisponde la fissità della
cinepresa. Anche Gertrud, l’unica figura piena di vita, si muove con lentezza.
Tutto rimanda all’anima. Ozu, la poetica della sottrazione
Ozu ha perfezionato la scelta di un cinema povero, sia nei contenuti sia nella
forma, ma scopre dentro la povertà una ricchezza straordinaria. Ozu ha
saputo costruire un cinema giapponese universalmente umano. I suoi primi
film terminano spesso con i panni stesi, mostrando che alle banalità del
quotidiano non sfugge nessuno.
Poco dopo Ozu scende direttamente al cuore della vita quotidiana. Filma tutta
la gente più comune. Da queste conversazioni in generale apprendiamo le
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storie dei personaggi, sempre in modo indiretto, poiché l’azione è lasciata
rigorosamente fuori dal film. In “Sono nato ma…” (1932) due ragazzi
scoprono che il padre è un uomo umile e servile. La cinepresa è spesso
bassa, quasi fino a terra, la cosiddetta “altezza tatami”. Anche il montaggio
viene ridotto al minimo.
Viaggio a Tokyo (Yasujiro Ozu, 1953)
Due anziani genitori fanno un viaggio per vedere i figli sposati, ma questi, coinvolti nel
lavoro e nella gestione familiare, non hanno tempo. Koichi è un modesto dottore di
periferia, e i suoi figli si lamentano per dover lasciare ai nonni la camera. Shige &egra