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LA SECONDA ETA’ DELLE MACCHINE

Stiamo vivendo nella “seconda età delle macchina”.E sono loro a portarci via i posti di lavoro. Fino

a non molto tempo fa c'era una risposta alle domande sul perché in Occidente il gap ricchi-poveri

sia paurosamente aumentato negli ultimi 30 anni e la disuguaglianza tra la popolazione in Europa

e Stati Uniti sia sempre più evidente, tutta colpa di Reagan e della Thatcher. Ma se la ragione di

questo profondo mutamento sociale fosse un'altra? E’ la tesi di un libro che fa molto discutere, si

intitola the second machine age, gli autori sono due accademici, Brynjolfsson e McAfee, La loro

tesi e che la responsabilità di quanto è avvenuto sia da imputare più al progresso tecnologico, in

particolare alla rivoluzione digitale, che ha reaganismo e thatcherismo.

tra fine anni 70 inizio 80 il presidente repubblicano e la premiere conservatrice, paladini del

neoliberismo, tagliarono le tasse, ridussero la spesa pubblica, avviarono la deregulation dei

mercati finanziari, creando economie più dinamiche ma più diseguali. la spinta neoliberista,

sostanzialmente proseguita da Clinton e Blair, può aver contribuito alla globalizzazione, che ha

portato maggiore benessere a miliardi di persone nei paesi in via di sviluppo, ma è indubbio che ha

fatto indietreggiare la classe media occidentale. La politica del laissez faire reaganiano o

thatcheriano non è stato adottato in modo uniforme in tutto l'Occidente, nonostante gli autori del

libro affermino che il gap ricchi-poveri è aumentato in maniera analoga pressoché ovunque. negli

ultimi tre decenni la disuguaglianza è cresciuta in Svezia, Finlandia e Germania più di quanto sia

avvenuto negli Stati Uniti e Gran Bretagna. La stagnazione del reddito dei ceti medi, sostengono i

due economisti, in effetti non è cominciata nella Washington di Reagan o nella Londra della

Tatcher, bensì in California dove nel 1980 Bill Gates e Steve Jobs muovevano i primi passi della

rivoluzione digitale.

la gente ha sempre temuto che nuove tecnologie rendessero obsoleto il lavoro umano e

riducessero l'occupazione, ma finora era sempre avvenuto il contrario: la rivoluzione commerciale

del 700 e quella industriale dell'800 hanno creato più lavoro, non meno, e diffuso più benessere.

ma la rivoluzione digitale è differente. con esse i posti di lavoro diminuiscono, anziché aumentare.

Il libro ci sta un caso tipico. la Kodak, fondata nel 1880, al suo apice aveva quasi 150 mila

dipendenti. Instagram, lanciato nel 2010, ne aveva in tutto quattro. nel 2012 è stato venduto a

Facebook per un miliardo di dollari e Facebook con un valore immensamente più grande di quanto

la Kodak abbia mai avuto, impiega appena 5000 persone. ecco perché la “seconda età delle

macchine” è anche un’era di crescente disuguaglianza. bastano aziende di pochi programmatori o

ingegneri elettronici, per creare servizi utili a miliardi di persone e in grado di generare miliardi di

utili. Tanti mestieri stanno scomparendo, rimpiazzati dalle macchine: si è cominciato con i lavori più

umili, dalla cassiera del supermercato all’impiegato di banca, presto potrebbe essere il turno di

avvocati altri professionisti.

Il libro dei due studiosi americani non offre la soluzione al problema: al momento non c'è molto,

concludono gli autori, che i leader politici possono fare per invertire la tendenza.

Fondamenti dell'innovazione

Invenzione e innovazione

linee guida per il successo

Talvolta le piccole e medie aziende soffrono di una sorta di complesso di inferiorità, che le

rende un po' timide e sostanzialmente incapaci di crescere come dovrebbero.

Tutte le aziende più grandi non sono altro che l'evoluzione di una piccola iniziativa

imprenditoriale che ha saputo sfruttare al meglio le opportunità di mercato.

Nel campo dell'informatica ci sono imprese famose che sono state concepite nel garage di

casa come la Apple di Steve Jobs o la Microsoft di Bill Gates, mentre altre hanno visto la

luce nel laboratorio informatico di una prestigiosa Business School, come Hewlett Packard

o Google i cui fondatori erano tutti studenti di Stanford. C'è chi è partito con un prestito di

cento dollari dello zio per comprare una cinepresa usata (è il caso di Walt Disney), e

andando in bicicletta a consegnare i prodotti dell'azienda di famiglia (come Luciano

Benetton). Quello che conta, e che fa la differenza, è riuscire a concepire un prodotto che

presenti caratteristiche nuove e di particolare interesse per il mercato.

Spesso l'innovazione che dà vita una piccola impresa è il risultato di qualche forma di

contaminazione tra ambiti culturali relativi a paesi diversi: nel 1914 don Eugenio Marinella

andava a comprare la stoffa a Londra per fare cravatte che ancora oggi sono considerate

un’icona dell'eleganza maschile. Oppure, dall'incontro tra settori industriali: basti pensare ai

prodotti Technogym che nascono nella convergenza tra le attrezzature necessarie per le

palestre e gli elettrodomestici hightec per l'intrattenimento casalingo. Più banalmente la

startup può essere basata su un prodotto del tutto tradizionale ma reinterpretato con le

nuove tecnologie, come un paio di scarpe con la suola traspirante (Geox) o un nuovo

sistema di conservazione (i tortellini di Giovanni Rana nelle vaschette di atmosfera

modificata).

Secondo l'Istat in Italia imprese con meno di 10 addetti rappresentano il 95% del totale

mentre soltanto lo 0,08 % possono essere considerate grandi perché impiegano più di 250

addetti. Ogni anno nascono circa 30.000 piccole imprese delle quali dopo 5 anni ne

sopravvive poco più della metà. E quelle che resistono il più delle volte tendono ad arrestare

la propria crescita correndo così il rischio di perdere nel tempo la propria unicità e la capacità

competitiva. Quelle che proseguono nello sviluppo lo fanno ampliando il proprio

assortimento, continuando a innovare e, soprattutto, utilizzando al meglio le classiche leve

di marketing. Passare da piccoli a medi, e da medi a grandi, non è affatto facile: prova ne è

che il salto di categoria ogni anno riguarda al massimo qualche centinaio di aziende.

L'aumento dimensionale è legato soprattutto alle necessità commerciali e al bisogno di

ricerca.

Certamente occorre acquisire una nuova organizzazione che sia capace di fronteggiare il

mercato. Molte imprese incontrano difficoltà e numerosissimi ostacoli nella loro

affermazione sul mercato per i piccoli il passaggio alla media dimensione comporta difficoltà

manageriali e irrigidimento organizzativo, rischi di diversificazione non controllata,

insufficienza di risorse finanziarie, maggiori complessità nella gestione della successione,

difficili relazioni di mercato, problemi di continuità strategica e molti altri di non facile

soluzione. Eppure c'è chi ce la fa, magari seguendo percorsi di sviluppo non ortodossi, con

reti esterne, gruppi, alleanze e comunque ponendo in essere processi di marketing non

formalizzati che si rivelano di grande successo, soprattutto in relazione alle capacità di

gestione delle relazioni di filiera.

Il problema di fondo e che la PMI non corrisponde alle caratteristiche del modello di impresa

per cui sono state elaborate teorie del marketing management, e questo determina alcuni

limiti di applicazione in tali teorie, ma anche - in condizioni particolari - alcuni vantaggi.

“Quando ho iniziato non avevo certo bisogno del marketing mi bastava andare alle sfilate di

moda e convincere gli stilisti a fare indossare le mie scarpe alle loro modelle - dice Diego

Della Valle - oggi invece, nel mio ufficio di marketing ci sono più di 100 persone che studiano

le tendenze di mercato e cercano di anticipare le mosse dei brand concorrenti: senza il loro

aiuto non riuscirei ad essere competitivo su scala globale”.

Innovazione di prodotto e innovazione commerciale

La Robilant Associati e il valore dell’intangibile

La Marca rappresenta il vero valore di un'azienda. Può diventare nella mente del consumatore un

richiamo dalla portata inimmaginabile: ecco perché il compito di una società come la nostra,

chiamata a gestire tutti i giorni brand, è quello di incrementare questa ricchezza. Maurizio Di

Robilant, fondatore e presidente di Robilant associati, la prima (e tra le pochissime in Europa)

Brand Advisory Company italiana non ha dubbi: se la marca è il DNA di un'impresa, il segno

grafico che la rappresenta, vale a dire il logo o il marchio che dir si voglia, è nei fatti la sua

massima sintesi espressiva e deve quindi essere in grado di comunicare la storia, il passato, ma

anche il futuro, le aspirazioni, i valori che la marca sottende. Chi fa il mio lavoro deve essere uno

che capisce il valore dell' intangibile. In una ex fabbrica di cioccolato sul Naviglio milanese, da oltre

vent'anni Maurizio Di Robilant si occupa di valorizzare delle marche, ovvero di come comunicare

aziende, prodotti e servizi attraverso l'ideazione e lo sviluppo del marchio, il suo posizionamento

sul mercato e la creazione di una propria identità. La valutazione finanziaria delle imprese è

sempre più legata ai suoi valori intangibili, dunque il brand è diventato uno degli asset

fondamentali per il successo delle imprese. E da sempre, sono i consumatori che contribuiscono in

maniera decisiva successo di un prodotto. In uno scenario in continuo mutamento diventa

indispensabile anticipare i desideri e capire i bisogni dei potenziali consumatori. Le aziende

devono quindi ripensarsi continuamente relazionandosi al mercato con modalità sempre nuove e

diverse. Un mestiere che la squadra di Robilant associati (oltre 60 professionisti tra creativi, esperti

di marketing e brevetti, semiologi e ricercatori), ha svolto e svolge per centinaia di marche (Fiat,

Lancia, Martini, Illy, Muller, Camel, Eni, Enel, Alfa Romeo, Banca Popolare di Verona e Novara,

etc), assumendo negli anni una dimensione internazionale e un fatturato che supera gli 8 milioni e

mezzo di euro. l'essere italiani rappresenta una marcia in più. la qualità italiana nel mondo, suscita

emozioni e la componente emozionale è l’intangibile del made in Italy. Una grande risorsa. Negli

anni l'attività si è evoluta, perché oggi le aziende non chiedono più solamente di disegnare il

marchio, ma di capire se la marca sia in linea con la produzione, con i prodotti, con i bisogni del

consumatore. Prendiamo per esempio la storia del marchio Fiat. una storia complessa dato che

l'azienda, a differenza di altre case automobilistiche, non ha un simbolo che, pur evolvendosi, è

rimasto negli anni sempre lo stesso. Fiat però è

Dettagli
A.A. 2016-2017
66 pagine
SSD Scienze economiche e statistiche SECS-P/08 Economia e gestione delle imprese

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher antonella.cerone di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Management dell'innovazione tecnologica e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli studi della Basilicata o del prof Lerro Antonio.