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Estratto del documento

Quintiliano, subivano moltissimi giovani, forse perché il filosofo era ancora molto legato alla

discussa figura di Nerone, prima come precettore e poi come ministro e consigliere; con Lucano

ebbe un rapporto probabilmente tiepido, perché l’orgoglioso ed estroverso autore della Pharsalia

mostrava nei confronti di Persio una certa invidia e ne sottovalutava la produzione poetica.

Quasi sicuramente, invece, è da guardare con occhi attenti il rapporto di amicizia, di stima e di

affetto che Persio nutrì nei confronti del già ricordato Trasea Peto: questo potrebbe servire a non

trascurare la valenza politica dei versi di Persio, spesso poco considerata in sede critica.

Alla morte del poeta, ancora ventottenne, il testamento rivelò il suo affetto per il maestro e amico

Anneo Cornuto, al quale Persio destinò una cospicua somma di denaro, preziosi oggetti in argento

e la biblioteca, che, fra l’altro comprendeva i settecento volumi dell’opera del filosofo stoico

Crisippo: Anneo Cornuto accettò solo quest’ultima.

La produzione poetica

La biografia di Persio, che abbiamo più sopra ricordata, ci informa anche intorno alla sua attività

letteraria. Nella sua breve vita, Persio scrisse una praetexta, il cui titolo, Vescio, poco

comprensibile, è stato riferito a qualche eroe etrusco che veniva esaltato nella tragedia, oppure

alla città etrusca di Vescia, vicino a Sutri, nel contesto della guerra combattuta da Roma contro i

Galli, in occasione della quale la città sarebbe stata distrutta perché fedele a Roma. La biografia

ricorda ancora un hodoeporicon liber, cioè un libro contenente una narrazione di viaggi, su

imitazione di Lucilio e di Orazio, nonché un carme celebrativo per Arria maggiore, madre di Arria

minore, sposa di Cecina Peto e suocera di Trasea Peto.

Di queste opere a noi non è giunto nulla: ci rimangono, invece, sei Saturae, raccolte in un unico

libro.

Le Saturae

Si tratta di sei componimenti in esametri, il metro fissato definitivamente da Orazio per questo

genere poetico, di varia estensione, per un totale di 650 versi, ai quali nella raccolta sono premessi

14 coliambi, cioè 14 versi in trimetri giambici scazonti o ipponattei. Quando Persio morì, il maestro

Anneo Cornuto suggerì alla madre del poeta di distruggere tutti gli altri scritti, tranne le Saturae:

Anneo Cornuto le pubblicò, dopo averle accuratamente riviste, con la collaborazione di Cesio

Basso, l’altro poeta al quale Persio era stato affettuosamente legato da amicizia.

I Choliambi, di cui alcuni studiosi, sia in passato sia in tempi recenti, hanno messo in discussione

l’autenticità, rivestono un carattere di particolare importanza perché in essi il poeta, oltre a

dichiarare il suo intento di voler educare moralmente i suoi lettori, esibisce un tono e un

atteggiamento vistosamente polemici. Persio, infatti, nei primi sette versi, dichiara il suo rifiuto

verso la poesia altamente ispirata e, poi, sembra alludere al proprio disprezzo nei confronti della

scadente produzione poetica del suo tempo, forse anche di quella dello stesso Nerone, che

trattava in modo altisonante contenuti di epica mitologica. Chiaramente, a questo tipo di poesia

Persio contrappone la propria satira, tutta intenta a condannare ogni vizio e a privilegiare

tematiche vicine alla vita vera e reale, ben lontana insomma da quella dei poetastri contemporanei

che per brama di denaro compongono versi graditi ai loro protettori e “alla moda”, oppure si

procurano il plauso di ammiratori pagandoli e illudendosi di essere veri poeti.

Nonostante più di un tentativo, pare impossibile riuscire a stabilire una cronologia interna delle sei

satire: per questo, le presentiamo qui di seguito, secondo l’ordine con cui sono state tramandate.

La prima satira, di 134 versi, si apre (vv. 1-12) e si chiude (vv. 107-134) con il riferimento ai

problemi che riguardano la poesia satirica: il pubblico, la mordace aggressività del genere e i rischi

che, per questo, corre l’autore di satire. Il componimento è un attacco, in forma di dialogo fra il

poeta e un interlocutore fittizio, contro la produzione letteraria del tempo. In questa parte centrale

del componimento, Persio, che pure non disdegna la gloria poetica, si scaglia contro i poeti

contemporanei, maldestri e moralmente corrotti, disposti a ricorrere a ogni sorta di artificio metrico

e stilistico, a ogni tipo di compromesso pur di ottenere il plauso di un pubblico incompetente e

superficiale. Alla cultura del tempo, che si compiace fra l’altro della moda delle pubbliche

recitationes, che non provocano altro se non effeminate esibizioni e sensuali quanto immorali

fruizioni, e alla poesia vuota di contenuti e di valori morali, Persio contrappone i suoi versi, che

vogliono rifarsi alla libera espressione di Lucilio e di Orazio, ispirandosi al verum e rivolgendosi a

un pubblico competente, colto e moralmente corretto. Questa prima satira è la sola che abbia

argomento totalmente letterario ed è quella in cui Persio si sofferma ampiamente sul suo

programma artistico.

La seconda satira, che consta di 75 versi, è realizzata in forma di epistola indirizzata all’amico

Plozio Macrino in occasione del suo compleanno. In essa Persio affronta il problema, caro alla

filosofia stoica, del rapporto fra l’uomo e la divinità e, ancora, di quale sia il modo di rivolgersi agli

dèi con preghiere devote e oneste. Dopo i primi versi (vv. 1-5) dedicati all’amico e dedicatario

Macrino, di cui Persio loda le schiette invocazioni agli dèi, il poeta affronta tre questioni

fondamentali: le preghiere empie (vv. 6-10), formulate con mormorii e sussurri sommessi, mentre a

voce alta dai più vengono fatte finte implorazioni; i voti stolti (vv. 31-51), perché gli dèi, al contrario,

apprezzano solamente l’onestà e la purezza dell’animo; lo spazio delle cerimonie e dei sacrifici (vv.

52-70), con cui si cerca di ottenere dalla divinità cose impossibili o ingiuste. Infine (vv. 71-75), il

poeta esorta a rivolgersi agli dèi con un animo rispettoso della legge umana e divina, pieno di

purezza e di onestà. Questa satira, in cui vengono condannati gli uomini che rendono gli dèi

oggetto di un culto interessato e, anziché chiedere purezza, onestà e saggezza d’animo, si

macchiano di empietà, risulta molto vivacizzata sia dalle descrizioni di devoti ipocriti e meschini,

sia dai bruschi e inattesi passaggi da un argomento all’altro.

La terza satira, di 118 versi, è in sostanza un’esortazione alla filosofia. Essa si apre con una

gustosa scena, in cui, in una luminosa mattinata estiva, c’è qualcuno che rimprovera a un giovane

di rimanersene a poltrire a letto fino a tardi, accampando stupide e infantili scuse per evitare di

impegnarsi nello studio. D’altra parte, il giovane non pensa che “l’argilla va plasmata quando

ancora è umida e molle”, cioè che un ragazzo dev’essere formato prima che l’età avanzi; ancora,

egli trae sicurezza dal podere ereditato dal padre e dorme sugli allori (vv. 1-43). Il poeta, dopo aver

ricordato la sua personale esperienza di pigrizia fanciullesca, rivolge all’anonimo giovane ulteriori

rimproveri (vv. 44-65) e, quindi, rivolgendosi più ampiamente a tutti i ragazzi, rivolge loro

l’esortazione a istruirsi e a imparare le cause delle cose (vv. 66-118). La satira, in definitiva, è una

vivacissima condanna di quanti trascurano lo studio della filosofia etica e intorpidiscono in un ozio

tanto inutile quanto infruttuoso, consentendo il radicamento dei vizi nel loro animo.

Nella quarta satira, che ha un’estensione di soli 52 versi ed è la più breve della raccolta, Persio

trae spunto dal topos diatribico dell’adagio “conosci te stesso”. Il componimento si apre con uno

scoppiettante dialogo fra Socrate, “il barbuto maestro fatto fuori dalla cicuta velenosa”, e Alcibiade.

A quest’ultimo, “pupillo del grande Pericle”, il filosofo rimprovera di volersi dedicare alla politica,

senza possederne i requisiti adatti e puntando, invece, sulla gradevolezza dell’aspetto fisico,

grazie alla buona alimentazione e alla cura della pelle. Sicché, incurante dei veri valori morali, si

comporta, nei suoi ragionamenti, come una vecchina. Né Alcibiade deve troppo contare sulla

nobiltà delle origini: privo di saggezza, non può che avere il rigore morale di una cenciosa

(pannucia) venditrice ambulante (vv. 1-22). Nella seconda parte della satira, Persio condanna

coloro che sono pronti a condannare i difetti altrui come l’avarizia e l’effeminatezza, non

rendendosi conto dei propri (vv. 23-41) e biasima, poi, tutti coloro che si mostrano diversi da ciò

che sono realmente (vv. 42-50). La satira si conclude (vv. 51-52) con l’invito a rientrare in se stessi

per correggere i propri difetti. In questa satira sono frequenti i riferimenti ai princìpi della dottrina

stoica nonché i richiami ideali al dialogo di Platone Alcibiade primo.

La quinta satira è la più estesa e comprende 191 versi. E’ dedicata al maestro Anneo Cornuto, che

nel componimento ha il ruolo di interlocutore, e si svolge in forma di epistola a lui indirizzata. Nella

prima parte della satira Persio, fingendo un tono solenne e alto, conduce un attacco serrato contro

i generi poetici elevati e reclama la purezza e l’autenticità della poesia che tocca i recessi

dell’anima e l’intimità del cuore (vv. 1-29). Subito dopo, il poeta inserisce, attraverso un ricordo

personale, l’elogio del maestro Anneo Cornuto, del quale rievoca l’affettuosa guida e l’assidua

frequentazione che alterna serietà di meditazione e di studio con rilassanti momenti di riposo (vv.

30-51). Persio, quindi, ricorda come il maestro, fra le molte inclinazioni degli uomini, abbia preferito

quella di inculcare negli animi ancora teneri dei discepoli i princìpi della dottrina stoica (vv. 52-64).

A questo punto, la satira diventa un vero e proprio protrettico verso questa filosofia: bisogna

dedicarsi a questi studi senza aspettare il domani che la pigrizia farà sempre rimandare al futuro.

Così si conquisterà la libertà morale, che in sostanza è liberazione dal dominio imperioso delle

passioni. Solo la filosofia stoica può assicurare agli uomini la vera libertà e solo il sapiente è

davvero libero, in quanto non è schiavo dei vizi, è capace di vivere secondo natura, sa distinguere

il vero dal falso e compie il proprio dovere verso la società. Gli uomini stolti, ai quali la ragione non

ha concesso alcunché, invece si lasciano sottomettere dai vizi come l’Avaritia, la Luxuria, l’Ambitio

e la superstizione: delle prime due il poeta propone una rappresentazione allegorica attraverso

Dettagli
Publisher
A.A. 2015-2016
5 pagine
SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-FIL-LET/04 Lingua e letteratura latina

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