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L.
9 Rebaudo, in Il braccio mancante. I restauri del Laocoonte (1506 – 1957), riporta una testimonianza
interessante di Giovanni Cavalcanti, che descrive in modo piuttosto dettagliato come dovesse essere la
rappresentazione.
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tale spessore culturale, riguarda Baccio Bandinelli, che si occupò della restaurazione dei figli
di Laocoonte e di una riproduzione in cera del braccio del padre (che non ha lasciato molte
tracce nella tradizione grafica). Il suo intervento, ammesso che egli lo abbia realmente
eseguito, viene datato tra il 1523 e il 1525. Tra il 1532 e il 1533, invece, viene commissionato
a Montorsoli il restauro di Laocoonte. La storia successiva dei restauri comprende numerosi
avvenimenti, alcuni ancora non completamente spiegati: ad esempio – ricollegandoci a Baccio
Bandinelli -‐, possiamo fare riferimento al braccio realizzato da Michelangelo e lasciato
incompiuto. Questo rimane sostanzialmente un punto misterioso della ricostruzione dei
restauri su questa statua: esso sarebbe stato scolpito in un blocco unico di marmo e sarebbe
piegato e stretto nella morsa dei serpenti, che Laocoonte sta cercando di combattere. La fama
di questo braccio continuerà sino al Settecento, trovando un’autorevole menzione anche nelle
pagine scritte da Winckelmann, ma anche da successive fonti che continuano a ricordarlo.
Da quel momento in poi, tra i critici vi sono stati ovviamente sostenitori e avversari della tesi
michelangiolesca, anche se sostanzialmente le diverse opinioni possono essere riunite in tre
filoni: un primo, sostiene che la tradizione che trasmette quest’aspetto non possa essere
ignorata, tanto che un intervento diretto sulla spalla del Laocoonte poteva essere eseguito
solamente da mani esperte – in questo caso Michelangelo -‐; un secondo filone, conferma la
datazione cinquecentesca per il braccio, ma non l’attribuzione all’autore, giacchè tale notizia
non poteva essere stata nascosta per un tempo così lungo e il braccio sarebbe di conseguenza
opera di uno scultore della prima parte del 1500 e infine il terzo filone di pensiero che colloca
la realizzazione del braccio nel Settecento, dal momento che le fonti lo ricordano a partire
circa dal 1720, indizio che sarebbe stato scolpito poco tempo addietro. Nonostante la
divergenza di queste opinioni, la più accertabile è sicuramente quella espressa come secondo
punto, proprio per la tecnica esecutiva e il sistema utilizzato per saldare il braccio alla spalla
di Laocoonte. Vorrei terminare – nonostante molto ci sia da dire sulla storia dei restauri, cito
ad esempio quelli di Agostino Cornacchini, che tra il 1725 e il 1727 eseguì un restauro del
gruppo scultoreo che versava in condizioni di degrado -‐, ricordando un’ultima fase di restauri
avvenuta tra il 1957 e il 1959, per opera di Filippo Magi, che si occupò della reinterpretazione
della statua, eliminando ogni integrazione moderna, e risistemando il braccio nella sua
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posizione originaria. Non bisogna dimenticare che la statua fu portata via dall’Italia da
Napoleone nel 1798 e, solo grazie alla mediazione di Antonio Canova, essa fece ritorno in
Italia. Tuttavia, questo percorso sui restauri andrebbe sicuramente approfondito e ricostruito
in maniera più approfondita, perché è un aspetto molto interessante e decisivo per la storia di
questa statua.
Di notevole importanza, sono anche le rappresentazioni che di questa statua sono state
eseguite nel corso dei secoli.
Siamo a conoscenza di rappresentazioni di Laocoonte precedenti al ritrovamento della
scultura: un esempio è offerto dall’opera commissionata da Lorenzo il Magnifico a Filippo
Lippi, che dimostra come, anche nel Rinascimento, questa tematica fosse ancora discussa.
Questa fu una figura che nel corso dei secoli venne interpretata in modi molto diversi: nel
Medioevo – per prendere un periodo storico che poteva basare le proprie ipotesi soltanto
Braccio trovato nel 1905 presso la bottega di uno scalpellino romano.
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sulle fonti letterarie – Laocoonte assunse dei tratti sostanzialmente molto negativi, perché
rappresentava un sacerdote che si era in qualche modo ribellato al volere divino.
L'opera assumerà un nuovo significato estetico grazie a Winckelmann, che la interpretò
come il simbolo della dignità morale dell'eroe tragico e come l'esempio di quella "nobile
semplicità e quieta grandezza" ritenuta da lui l'essenza stessa dell'arte greca nonché la vera
bellezza. Vorrei riportare un breve passo dell’autore per dare un’idea di come egli la
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descrivesse:
“ Il generale e principale distintivo dei capolavori greci è finalmente una nobile
semplicità, ed una quieta grandiosità tanto nella posizione quanto nell’espressione.
Nella guisa istessa &